Dentro Ro.Go.Pa.G.: l'episodio La Ricotta di Pier Paolo Pasolini PDF 
Niccolò Falsetti   

L'influenza degli studi di storia dell'arte a cui Pasolini dedicò la sua prima tesi di laurea, perduta per sempre, viene fuori nelle immagini de La Ricotta attraverso una metafora metafilmica, perfettamente riuscita. Il tema manieristico della crocifissione è riprodotto, principalmente, in due momenti e con due diversi stili; il primo momento è la colorita rappresentazione pittorica della Deposizione di Rosso Fiorentino a cui prende parte lo stesso Pasolini (ripreso nel finale dall'altro tableaux vivent del Compianto sul Cristo deposto, e la crocifissione che Orson Welles (il Regista) sta riprendendo sullo sfondo della periferia romana.

Viene in mente Brecht: "così chiamiamo a noi tutte le arti sorelle dell'arte drammatica, non per creare un'opera d'insieme in cui tutte si annullino e si disperdano, ma perché ognuna di esse, insieme all'arte drammatica, dia a suo modo impulso e sviluppo all'opera comune; e il loro rapporto reciproco sarà quello di straniarsi a vicenda". (Cfr. Bertolt Brecht, Breviario di estetica teatrale in Scritti teatrali, Torino, Einaudi, 2001). In effetti il cinema pasoliniano così come il teatro brechtiano hanno una simile peculiarità straniante. Ma in Pasolini lo straniamento ha motivazioni, finalità e, soprattutto, canoni espressivi, diversi. Perché il linguaggio cinematografico, anche nell'affinità drammaturgica, è estremamente diverso da quello teatrale, differenze particolarmente acuite dalla concezione pasoliniana del cinema, concezione profondamente linguistica. Paradossalmente il cinema ha in sè, come congenitamente, i mezzi potenzialmente più efficaci per la realizzazione di una sorta di, pressoché utopico, “straniamento perfetto”. Il teatro infatti, come sostiene Grotowski, può rinunciare a tutto quanto vada ad essere strumento espressivo (scene, costumi, maschere, musiche, persino palco e teatro architettonicamente inteso, fino addirittura alla rinuncia al testo) ma mai potrebbe rinunciare alla presenza dell'attore. Questo contatto umano inevitabile, è invece da subito ovviamente evitato dall'opera filmica. Pasolini inoltre basa la propria concezione cinematografica, così come Brecht, sulla volontà di suscitare velleità critica nello spettatore ma non rinuncia al sentimento. "I sentimenti non si possono cambiare. Sono essi che sono storici. È ciò che si prova che è reale". (P. P. Pasolini, Lettere Luterane, Torino, Einaudi, 2003, p. 6) questo ovviamente ci fa subito pensare alla critica che Metz (cfr. Metz,1968) mosse a Pasolini a proposito della sua semiotica cinematografica. Laddove Metz vede il film come la "duplicazione fotografica di uno spettacolo reale che ha sempre e già un senso", ponendo nel film la forza comunicativa, per Pasolini il cinema non solo si serve della mente dello spettatore ma è lì che diventa arte, è lì che diventa indubitabile, è lì che si compie come atto linguistico, rimettendo allo spettatore la capacità unica e imprescindibile di cogliere la dialettica del cinema in cui coincidono significante e significato (il cinema come linguaggio scritto della realtà) attraverso la dialettica tra le varie componenti dell'opera filmica stessa (come l'accostamento tra sacro e profano e la messa in scena attraverso immagini che contrastano con la musica).

Ne La Ricotta, infatti, la musica, la recitazione, i due rimandi pittorici e figurativi, la dimensione metafilmica, l'uso del colore e del bianco e nero, l'uso dell'accelerazione chapliniana concorrono esattamente, in questo perfettamente, allo straniamento vicendevole. Ne risulta un'opera toccante e potente, i cui messaggi si rapportano alla più alta poetica pasoliniana senza smarrire lo sfondo marxista. Lo straniamento prodotto consente infatti di realizzare una serie di figure retoriche per immagine. Questo ci riporta alla concezione linguistica che Pasolini ha del medium cinematografico. La metafora è al contempo sineddoche, metonimia e soprattutto ossimoro. Un esempio su tutti, i due poliziotti che raccolgono i fiori. La metafora è palese, l'ossimoro lascia stridere il contrasto tra la grazie del gesto e la brutalità della divisa, la metonimia ci indica il fiore parte del tutto mondo che il militarismo fascista, seguito dal clerico-fascismo postbellico, non ha scalfito nella sua generale meraviglia. Ed è in questo contesto che prende ampiamente senso la figura del regista. Pasolini lo lascia irrompere brutalmente, autocitandosi, lasciando che si presti alla mondanità senza prendere una posizione diegeticamente predominante ma relegandolo a una chiave metalinguistica per la realizzazione puntuale della soggettiva libera indiretta, attraverso un discorso che non può che apparirci diretto, senza però esserlo affatto. Infatti nel momento in cui Welles cita Mamma Roma al giornalista egli sta effettivamente facendo un discorso diretto ma l'indiretta provenienza, che lo spettatore è immediatamente in grado di cogliere dalla copertina del libro, ci apre la prospettiva che quel discorso diretto sia in realtà falso.

Ecco che la concezione linguistica di Pasolini viene fuori in modo inaspettato, in una duplice comunicazione autoriale. La vera centralità nel testo filmico è però tutta di Stracci. Stracci è l'uomo epico brechtiano (un po' come Matti in Il signor Puntila e il suo servo Matti) che non perde la sua umanità (demarcata dalla propria fisicità) e che nella confusione consumista mangia, ingozzandosi di tutto ciò di cui viene violentemente imboccato, fino a morire per un'anomala morte di croce. Ma al contempo Stracci è il sottoproletario romano che perde la propria cultura (smarrita anche fisicamente, quando Stracci indossa un costume per avere un cestino del pranzo), in quelle periferie desertiche in cui si smarrisce la classe contadina che Pasolini definisce precapitalistica, condannato definitivamente dalla potenza onnivora e assassina della società di massa. E tutto questo, grazie appunto ai sentimenti che riusciamo ancora a provare per Stracci, nonostante la totalizzante opera di straniamento, ci risulta crudele e al contempo spiazzante e leggermente incomprensibile. Siamo davanti ad una mancata catarsi ed è qui che si realizza, nella più feroce perfezione, lo straniamento cinematografico, nel diventare messaggio, arte, comunicazione o, più banalmente, esistente anche e forse soprattutto nella nostra mente di spettatori pensanti o meglio ancora senzienti elemento irrinunciabile per la poetica pasoliniana. È infatti nell'accorgersi empirico del nostro essere colpevolmente parte della fine impietosa di Stracci che ci rendiamo conto del nostro posto nel mondo, soprattutto in quella società che, oggi del tutto affermata (al di là di ogni giudizio morale) era allora nella sua fase più orridamente embrionale. Non rimane, ancora oggi, che compiangere, impietositi, un cristo deposto e riflettere. E questo, da un punto di vista strettamente cinematografico, è la potentissima dimostrazione della perfetta riuscita dell'affermazione della velleità espressiva del cinema di Pier Paolo Pasolini.

 


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