Non è un festival per cinefili: Berlinale 2012 PDF 
Elisa Cuter   

La Berlinale, giunta quest'anno alla sua 62esima edizione, si è riconfermata uno dei festival più dalla parte del pubblico d'Europa. In molti sensi. Innanzitutto per le sue dinamiche d'accesso, grazie a biglietti molto economici (acquistabili il giorno stesso delle proiezioni), ma soprattutto, come è ovvio, per la sua programmazione, che dimostra come, di fatto, non sia “un festival (solo) per cinefili”. Da una parte, questo ha significato portare in sala, e in concorso, film dal forte appeal commerciale. Quest'anno il direttore Dieter Kosslick non ha lesinato sul glamour, e sul tappeto rosso hanno sfilato, tra gli altri, Meryl Streep, Diane Krueger, Sandra Bullock, Robert Pattinson, Charlotte Gainsbourg, Keanu Reeves, Antonio Banderas, Michael Fassbender e gli immancabili Brad Pitt a Angelina Jolie. In concorso, accanto a tipici “film da festival”, si sono sfidate pellicole di grande richiamo e pochissima sostanza, come l'inutile Bel Ami di Declan Donnellan e Nick Ormerod o Extremely Loud & Incredibly Close di Stephen Daldry, fastidioso e ammiccante. E anche fuori concorso non sono mancati gli scivoloni, come nel caso dell'imbarazzante In the Land of Blood and Honey di Angelina Jolie, esordiente alla regia, opera ambientata durante la guerra nei Balcani che tenta di imitare (fallendo) certo cinema europeo. Specchietti per le allodole, insomma.

E però, il festival di Berlino è un festival per il pubblico anche per un altro motivo, di matrice opposta. Per il suo impegno e la costante attenzione ai temi forti e d'attualità. I film migliori che si sono visti in concorso, tanto per cominciare, sono stati film di denuncia. Come il vincitore del premio della giuria, l'ungherese Czak a szél di Bence Fliegauf, che racconta degli ultimi giorni di una famiglia rom che attende il pogrom già toccato in sorte ai vicini di casa, nella connivenza delle autorità. E se è certo che quello che spiazza ed entusiasma in questo film è la regia, si direbbe neorealista, scarnificata ma eloquentissima e totalmente calata nel punto di vista dei protagonisti, quello che lo rende un film importante, e che ci fa sperare in una sua distribuzione italiana, è l'assoluta funzionalità al racconto di questo stile registico, la perfetta sottomissione del mezzo allo scopo, che è, appunto, la denuncia, l'indignazione autentica e durevole, mai patetica o retorica, che suscita.

Può forse sembrare una forma di schizofrenia di fondo, la volontà di tenere insieme due anime che paiono così contrapposte, lustrini e impegno, o forse è un tipico specchio dello spirito radical-chic della città che ospita la manifestazione, la capitale “povera ma sexy” d'Europa. In ogni caso l'intento reale è ben sintetizzato da Kosslick, che afferma che la scelta di aprire con Les Adieux à la Reine, film di Benoit Jacquot - che si inserisce in uno dei fil rouge più curiosi, anche perché forse involontario, della rassegna, cioè quello della morte annunciata -, “ci ricorda che l'arte del cinema non riguarda soltanto set e costumi, ma soprattutto le persone che ritrae”. Un festival che programmaticamente, insomma, si presenta come uno schiaffo al formalismo. Cinema come intrattenimento, dunque, da un lato, o come strumento d'indagine del reale, di ricerca, informazione e interpretazione di quello che accade e ci riguarda da vicino, dall'altro. Astenersi amanti dell'art pour l'art.

In questo senso, la sezione Panorama, quella dedicata al cinema documentario, è di sicuro la più interessante. Si va dalla denuncia dell'omofobia, trattata in due documentari molto ironici ma commoventi, il primo sul fumettista Ralph Koenig - Koenig des Comics di Rosa von Praunheim -, il secondo sull'omosessualità nella DDR, Unter Maenner di Stein e Roesener. Tema presente anche, tra gli altri, in Call Me Kuchu, sulla difficile situazione degli omosessuali in Uganda, a testimonianza dello sforzo contro l'etnocentrismo occidentale di cui si fregia Kosslick, che addirittura titola l'editoriale di presentazione del programma “La mia Africa” (citando tra l'altro il film con Meryl Streep, a cui è stato assegnato l'Orso alla carriera). Anche la primavera araba è ben rappresentata: in The Reluctant Revolutionary di Sean McAllister, in In the Shadow of a Man di Haman Abdalla e in Words of Witness di Mai Iskander, anche se nessuno di questi, per la verità, è stato acclamato. Sono invece docu-fiction Indignados di Tony Gatlif, sui movimenti europei, e Friends After 3.11, sul disastro di Fukushima.

Non sono mancate critiche, in Germania, a un programma che è sembrato soltanto un breviario per mettere a posto le coscienze dello spettatore mediamente impegnato, privo di un disegno un po' più chiaro e di ampio respiro, di una volontà di mettere in relazione quelli che qui sembrano solo sparuti e isolati focolai di cambiamento. Certo, critiche che solo la coscienziosa sinistra tedesca può avanzare: per noi italiani, abituati a Venezia o a Roma, questo programma è parso più che altro una boccata d'aria fresca. E una risposta esplicita a queste critiche viene a nostro avviso da un documentario italiano, The Summit, di Franco Fracassi e Massimo Lauria, un'indagine scioccante e approfondita sul G8 di Genova, che non presenta gli avvenimenti come un caso isolato in cui qualcosa è andato storto, ma piuttosto contestualizza ed esplicita la reale portata politica della repressione attuata. E se, a parte le sconvolgenti intercettazioni della polizia, di inedito c'era ben poco, il merito è sicuramente quello di aver presentato quella che Amnesty ha definito “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda Guerra Mondiale”, in tutte le sue implicazioni, nelle sue cause e conseguenze, senza tacere i sospetti di collusione con i black bloc e di pianificazione della morte “esemplare” di Carlo Giuliani.

È proprio questo a mancare invece in Diaz - Don't clean up this blood di Daniele Vicari, altro film sul tema presente al festival, con il quale è inevitabile il confronto. Non deve stupire, innanzitutto, l'interesse dei tedeschi per l'evento: una manifestante arrestata e (de)portata a Bolzaneto era di origine tedesca, senza contare che a Kreuzberg, quartiere tra i più “alternativi” di Berlino, è stato spontaneamente intitolato un parco a Carlo Giuliani, e che tra le frange estremiste la partecipazione tedesca era di sicuro la più numerosa. Tra queste, sembra fossero presenti anche alcuni gruppi neonazisti, e, ancora per smentire chi non ha intravisto legami tra le tematiche presentate al festival, fa piacere citare il documentario (sebbene dimenticabile) di un infiltrato ai raduni naziskin (Peter Ohlendorf), Blut muss fliessen. Tornando a Diaz, vincitore del premio del pubblico, il film ha certamente il merito di rappresentare senza censure l'inaudita violenza perpetrata durante e dopo il raid nella scuola dove, oltre ai famigerati “anarcoinsurrezionalisti”, c'era tutto un campionario di ignari presenti, dal giornalista al pensionato Cgil fino allo straniero in viaggio di lavoro che non era riuscito a trovare un posto per la notte. Tuttavia, il film corale tenta di offrire, appunto, tutti i punti di vista possibili, compreso quello del “poliziotto buono” (Claudio Santamaria), e di restare super partes per quanto riguarda la questione giudiziaria. Ne viene fuori una rappresentazione (vividissima, bisogna dire... numerosi gli spettatori che sono scoppiati in lacrime in sala) di pura violenza cieca, ingiustificata, inspiegabile. Un film sul fascismo in generale, più che un film sulla questione politica che secondo molti è stato il G8 del 2001. Perché secondo quest'ultima interpretazione quella violenza è, invece, spiegabilissima, e sebbene Vicari in conferenza stampa abbia dichiarato di crederlo anche lui, ha tenuto comunque a presentare la sua fiction come imparziale (“bastano i fatti”). In questo senso si dimostra un film scomodo, ma non abbastanza coraggioso. Di fatto, il film avrà una distribuzione italiana e sarà in sala dal 13 aprile. Sorte diversa spetta invece a The Summit.

Un'altra lancia da spezzare nei confronti di un festival ricchissimo di spunti di riflessione è la rappresentazione dell'infanzia e dell'adolescenza: se la sezione Generation, rivolta ai ragazzi, è stata un tripudio di titoli molto spesso arditi, da segnalare sul tema è anche il mediometraggio francese L'âge atomique, ritratto di una notte di impazienza che sembra il contrappunto al maschile de Il giardino delle vergini suicide. Adolescenze protratte sono invece quelle rappresentate dal bel “romanzo americano” Jayne Mansfield's Car di Billy Bob Thornton (che regala anche un'interpretazione indimenticabile), in cui quattro fratelli negli anni Sessanta del profondo Sud statunitense tentano tardivamente di risolvere i loro conflitti con il padre e con il loro passato in guerra, e naturalmente da Young Adult, della collaudata coppia Jason Reitman/Diablo Cody, in cui Charlize Theron offre un impietoso affresco della nostra società di ridicoli, ma disperati “bamboccioni”.

Un altro tema caldo, infine, è stato il carcere. Werner Herzog ha presentato il suo monumentale documentario in quattro capitoli Death Row: una serie di interviste a detenuti americani in attesa dell'esecuzione capitale. La più pesante è certamente quella a James Barnes, piromane, stupratore e serial killer lucidissimo e reo confesso. Pur indagando meticolosamente e talvolta involontariamente giustificando, con le riprese impietose di quel nulla terrificante che è la provincia redneck americana, Herzog non fa sconti a nessuno, e firma in ogni caso un chiaro e deciso documento contro la pena di morte. E dall'altra parte, una testimonianza speculare sul modo opposto di intendere la punizione, il docu-film dei fratelli Taviani, Cesare deve morire, vincitore della kermesse, che mette in scena il Giulio Cesare di Shakespeare recitato da veri detenuti del carcere di Rebibbia. Un inno al valore redentore della detenzione, e dell'arte: un messaggio potente (che sfiora, ma evita elegantemente scadimenti retorici) quanto la forza visiva che trasuda dal suo rigoroso e geometrico bianco e nero. E così, fortunatamente, anche i cinefili sono stati accontentati.

 


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