Il cibo nel cinema di genere e il "caso" Bond: tra fascinazione e dramma PDF 
di Mauro Brondi   

Tavola imbandita all'interno di un salone indiano. Gli invitati si siedono e, con loro, il nostro eroe con il quale stiamo condividendo paure, insidie, tranelli, sorprese.
Si avvicinano i camerieri... cosa ci sarà sotto quel tegame argentato? Eccovi servito un bel cervello di scimmia...
(da Indiana Jones e il tempio maledetto)

Per il cinema, ma soprattutto per quello di genere, dal western alla fantascienza, rappresentare il cibo è una necessità: il cibo visto sullo schermo sazia lo spettatore di verità, lo avvicina ai personaggi, contribuisce, per accumulo, alla partecipazione affettiva al film.
Il bivacco nei film western classici, ad esempio, con i personaggi che mangiano e bevono attorno al fuoco (il caffè caldo, i fagioli, la carne essiccata), non è forse, prima di tutto, una sosta per/dello spettatore coinvolto nella storia? Non è egli stesso invitato in prima persona a quel banchetto dopo aver partecipato alle imprese dei protagonisti? E il western crepuscolare non utilizzerà il campo o il bivacco proprio in contrasto con quel senso materno e intimo che tali pause ricoprivano nel western classico (vedi l'attacco delle giubbe blu al villaggio indiano in Il piccolo grande uomo)?

Il cibo può essere considerato un elemento naturale e "obbligato" del profilmico (spesso parte fondamentale al pari dei costumi, della scenografia e di tutto quello che sta davanti alla macchina da presa prima del ciak) che, nel momento stesso in cui entra nel quadro, avvicina lo spettatore, lo chiama, rendendo familiare un ambiente.
Dall'altro lato nulla è più alieno e inquietante quanto una cucina vuota, un luogo del cibo dove il cibo è assente (e/o "congelato", pensiamo a Shining e all'Hoverlook Hotel).

 

Anche per il poliziesco americano degli anni Settanta (Serpico, L'ispettore Callaghan, Il braccio violento della legge), il cibo è uno di quei particolari costantemente presenti che contribuiscono a raggiungere un nuovo grado di realismo. Le violenze avvengono sulla strada, proprio lì, davanti a quel chiosco degli hamburger...e il protagonista mangia e beve da buon animale metropolitano senza assaporare, dimentico dello stile Bogart, consumando rapidamente in una pausa all'American Bar.


 

 

La centralità del cibo nel nuovo genere poliziesco dei Settanta è talmente forte da permettere a Tarantino, in chiave, se vogliamo, postmoderna, di giocare con una serie di elementi tipici del cibo americano: dalla discussione in macchina incentrata sul cheeseburger fra Travolta e Samuel L. Jackson in Pulp Fiction, all'intera sequenza nel bar dei sosia dove, nel medesimo film, troviamo Travolta e la Thurman discutere su coca cole e frullati; o, ancora, alla vena ironica che pervade tutta la scena dello scambio di valigie girato nel centro commerciale (regno del cibo industriale "made in Usa") in Jackie Brown.

Nel cinema d'azione o d'avventura il cibo può contribuire alla costruzione narrativa e drammatica del film, oppure, più semplicemente, integrare e rafforzare un'atmosfera, una situazione. Concentriamoci, in questa sede, non sui significati simbolici, sociali, poetici, attraverso cui molti registi hanno utilizzato "il mangiare", ma sui legami del cibo con l'azione, con il narrato e con la necessità drammatica del film. Se pensiamo alla serie dei James Bond cinematografici possiamo trovare alcuni esempi interessanti.

 

Nei Bond spesso l'utilizzo del cibo si palesa come elemento esotico, di sfida o di fascino, a cui è collegato il senso dell'avventura del personaggio: Dalla Russia con amore, in cui a Bond, nel campo degli zingari, viene consigliato di mangiare con le mani per non fare un torto alle usanze gitane; la cena nella clinica-fortezza di Blofeld in Al servizio segreto di sua maestà, dove Bond, seduto tra le ragazze "in cura" che soffrono di allergie alimentari, viene invitato a più appuntamenti amorosi; Mai dire mai, nel quale un Bond a dieta nella clinica Sharblands gioca come un "jolly" la sua valigetta piena di foie gras e caviale Beluga per adescare una delle infermiere.

Ci sono poi momenti più deboli in cui il cibo viene utilizzato per stilizzare il personaggio dell'agente segreto: Bond ha appena combattuto in una camera d'albergo ed è uscito vivo da uno scontro mortale; prima di uscire e chiudere la porta stacca un acino d'uva e lo porta alla bocca, quindi si chiude la porta alle spalle e se ne va. E' un gesto minimo, ironico che configura un modo, un savoir-faire che torna più volte in diversi film (Licenza di uccidere, Mai dire mai).

Arriviamo a Una cascata di diamanti, in cui nel finale troviamo concentrati tutti questi temi. Giocando sull'ignoranza del finto cameriere, Bond riesce a smascherare il nemico: "ma il Mouton Roths è un Bordeaux". Qui una caratteristica di Bond (la conoscenza dei vini) è intimamente legata allo sviluppo drammatico del film: grazie a questa caratteristica Bond riesce a far cadere in errore (e cogliere di sorpresa) il nemico. Bond e cibo non significa rappresentare semplicemente caviale e champagne (soluzione che troviamo spesso negli ultimi deludenti Bond-Brosnan), ma un legame talvolta più interno, attraverso il quale far coincidere azione e carisma del personaggio. Se questa particolarità è molto più forte nei romanzi di Fleming (moltissimi sono i particolari del bere e del mangiare nelle spy stories bondiane), anche in alcune pellicole troviamo un utilizzo produttivo del cibo: non sterile immagine fine a se stessa (come può essere il ritornello puntuale del "vodka-martini agitato non mescolato") ma particolare integrato nella vicenda, strettamente connesso alla realtà del personaggio.

 

Sembra quindi più che un problema di rappresentazione e di messa in scena, una questione di scrittura, da risolversi a livello di plot o di sceneggiatura. Far entrare il cibo nel cinema significa, almeno nel cinema d'azione, pensarlo come "momento essenziale di contorno", in cui particolari come un panino, una birra, una bottiglia di champagne possono contribuire alla fascinazione estetica di una scena, oppure, come nel finale di Una cascata di diamanti, essere il mezzo dell'azione o il semplice pretesto, in stretta simbiosi con il protagonista.

 


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