Per un documentarismo dell’anima: il cinema dei Dardenne PDF 
Umberto Ledda   

Nel cinema dei fratelli Dardenne di cinema ce n’è poco, a prima vista: il minimo necessario, giusto le cose ineludibili del linguaggio audiovisivo. E si percepisce che anche questi strumenti sono utilizzati solo e soltanto perché usarne di meno è impossibile: una telecamera, delle persone davanti alla telecamera (più persone che personaggi, poca caratterizzazione, trionfo dell’ambiguità), scampoli di storie che sono iniziate prima e che sembra debbano continuare dopo. Il punto di vista della telecamera sembra quello di un segugio a cui abbiano detto: segui quelle persone. La messinscena è tarata al minimo possibile, i due fratelli sembra che non vogliano disturbare i loro attori e abbiano paura che la presenza del loro occhio influenzi la realtà, contaminandola di consapevolezza mediatica. L’unica scelta attuata dai registi sembra essere quella delle storie: vicende tragiche di giovani umani disperati, pronti a tutto, sospesi da qualche parte fra cinismo, redenzione e perdizione. Abbandono, ingiustizia, povertà, perdita di umanità, vano  e coraggioso tentativo di rimanere umani in una società le cui regole sembrano essersi ridotte a quelle basilari del mondo animale (con l’unica sostituzione del denaro in luogo della sopravvivenza fisica). E comunque, quando glielo chiedono, i due dicono che non sono loro a scegliere le storie ma viceversa, e sembrano pure sinceri.

Storie a parte, quello dei Dardenne è cinema silenzioso che gioca a far finta di non esserci. Ma c’è, nonostante tutto. Difficile fare il cinema senza cinema, puoi eliminare il montaggio ma le inquadrature e il punto di vista te li devi tenere se alla fine vuoi avere delle immagini in movimento. E un punto di vista è già una scelta, è già un giudizio, una presa di posizione, una piccola imposizione. Per quanto abbiano sempre cercato di nascondersi, la presenza autoriale dei fratelli è comunque evidente. L’arroganza della scelta precisa di non fare scelte. Verrebbe da dire che il naturalismo dardenniano sia solo un tentativo fallimentare di raccontare la realtà senza un filtro linguistico. Eppure c’è sempre qualcosa nei loro film che va oltre lo sguardo della telecamera, qualcosa che è, magari anche solo per qualche istante, verità. Nonostante la finzione necessaria, o più probabilmente, grazie ad essa. All’inizio erano i documentari, ovviamente. Raccontare la realtà, una delle quadrature del cerchio più difficili di tutta la storia della comunicazione. La realtà è quella sociale del lavoro e degli operai e delle distorsioni civiche del mondo economico-utilitaristico-capitalistico. Ingiustizie e follie della civiltà votata al bene astratto della produzione. I metodi per combattere queste distorsioni e tornare a un modello civile dotato di maggiore buon senso. Scioperi, resistenza civile e militare, giornali clandestini e radio libere. La prima parte della carriera dei Dardenne, a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta, è cinema militante, che non cede alla finzione, che documenta la realtà. Chissà poi che cos’è che li spinge a tentare invece la narrazione. Forse l’interesse si sposta dall’astratto al concreto: non più la stortura civile in sé e nemmeno i suoi effetti primari sulle masse sfruttate, ma gli effetti secondari, quelli sul singolo, sulla mente, sulla vita e sull’umanità delle persone. Controcultura militante che incontra l’umanesimo: i singoli, invece che le classi sociali. E per parlare dei singoli, la finzione è necessaria, perché le vite degli uomini sono storie e non descrizioni.

I Dardenne oltrepassano il confine sottilissimo fra realtà e finzione nel 1987, con un film teorico e pieno di simboli, Falsch, che poi non avrà seguito nelle loro carriere. Lo oltrepassano di nuovo nel 1996, dopo anni di latenza, con La promesse. Cinema di finzione, ma appena appena: i metodi di lavoro rimangono gli stessi del documentario, le storie sono lì solo perché altrimenti diventa difficile parlare di esseri umani; si rischia di finire nel cinismo e nell’entomologia, a parlare di uomini senza dire la loro storia. La finzione può essere più reale del documentario: sicuramente la finzione onesta è più reale del documentarismo interessato. E il documentarismo, che tende ad avere una tesi o una verità da mostrare in maniera convincente, è quasi sempre interessato (anche in assoluta buona fede: è interesse la semplice scelta di accendere la telecamera di fronte a qualcosa che si crede debba essere comunicato, come nella finzione). Il documentario non ha, fra i suoi strumenti, la possibilità di mostrare le sfumature psicologiche e le emozioni, che costituiscono una parte fondante della nostra percezione della realtà (che sarà anche fredda e astratta, come nei documentari, ma viene percepita da ciascuno attraverso il punto di vista della propria sensibilità). Certo, si può riprendere l’emozione di un uomo dal vero, un bambino che piange ad esempio, ma ciò che lo spettatore percepirà non sarà tanto l’emozione e il dolore del bambino quanto il proprio essere fuori luogo, il proprio disturbare l’emozione stessa per il tramite della telecamera. Per fare vero realismo sulle persone occorre sostituire la realtà con le storie, è inutile. Solo allora si può ottenere qualcosa di vero. Una specie di documentarismo dell’anima.

Nel fare questo la forma è importante e i Dardenne lo sanno benissimo. Fin da La promessa il loro stile è stato evidente e coerente. Uno: camera a mano, come a inseguire il personaggio, standogli incollato il più possibile, a costo di perderlo (questo è importante) e a costo di inquadrargli la nuca per metà del film. Due: il narratore è secondario rispetto al personaggio. Questo significa nessuna divagazione, un’inquadratura entra nel film solo se dentro c’è il personaggio, altrimenti è del tutto inutile e fuorviante. Tre: gli attori scelti per il personaggio meno sembrano attori e meglio è. Quattro: la sceneggiatura è lasca, un fazzoletto emotivo che deve raccogliere le singole situazioni per strada, lavorando a soggetto. E niente mezzucci tecnici di scrittura: niente colpi di scena, cliffhanger, ripetizioni significative, climax complessi. Cinque: il montaggio si usa il meno possibile, ma resistendo alla tentazione di non usarlo del tutto, perché sarebbe una inutile forma di protagonismo del cameraman. E poi niente musica, la realtà non ha mica la colonna sonora. Niente luci drammatiche sui volti, sono sottolineature inutili. Se possibile, niente luci e basta. Trucco, il minimo perché non sembrino delle iguane. In generale, il cinema dei Dardenne si impone di attuare meno scelte possibili, per concentrarsi su quelle dei personaggi. Finzione, ma giusto il necessario e solo perché non se ne può fare a meno.

Il succo rimane quello degli anni del documentarismo, con un’attenzione quasi esclusiva verso le zone umane più danneggiate dall’impostazione utilitaristico-capitalista della civiltà attuale. Con una significativa differenza: l’attenzione si sposta sulle conseguenze di questa impostazione, sulle conseguenze sul piano affettivo, di pura umanità. Coerentemente, scegliendo la finzione, i Dardenne si concentrano su quello che la pura descrizione, l’indagine, non possono raggiungere, e che è anche ciò che davvero rende sbagliata questa impostazione, aldilà dell’ideologia e della teoria. I due registi mostrano come il mondo attuale finisca con il disgregare ogni legame affettivo, riducendo i rapporti umani su un piano paradossalmente presociale, quasi bestiale: la sopravvivenza a prescindere da tutto il resto. L’inutilità dell’amore e della famiglia di fronte al bisogno di salvarsi, ma anche, e soprattutto, il tentativo tragico di mantenere vivi gli affetti in una situazione che tende inesorabilmente a spezzarli. I film dei Dardenne sono tutti, nessuno escluso, storie di resistenza, ma non di resistenza astratta, di un’idea di fronte a un’altra idea sbagliata o percepita come tale: piuttosto, resistenza del proprio essere umano di fronte all’esigenza pragmatica di diventare bestie calcolatrici. Sono film di mondi dimenticati e latenti di reietti e di marginali, ma l’attenzione non è mai dedicata all’indagine sociale, quanto a quella emotiva. La promessa si potrebbe descrivere come uno sguardo sul mercato di extracomunitari schiavizzati nella fiorente società belga, visto che è ambientato in quel mondo. Ma in realtà è il triangolo emotivo tra un padre ormai bestializzato, mercante cinico di schiavi, un figlio che non ha ancora rinunciato alla sua umanità e un extracomunitario che in punto di morte strappa al figlio la promessa di occuparsi della moglie e del figlio. La dissoluzione di un vincolo familiare corrotto in nome di una solidarietà possibile, è questo il fulcro.

Identico il discorso per Rosetta. È un film sulla disoccupazione e sulla sottoccupazione, descrizione di un mondo di scambi sociali di puro utilitarismo e cinismo spietato, di roulotte e di alcolizzati e di legge del più forte. Ma è anche e soprattutto la storia di un amore che potrebbe esserci e non è, proprio perché i due possibili amanti sono in lotta fra loro, per sopravvivere. Allo stesso modo Il figlio è la storia di una famiglia anomala che potrebbe anche formarsi: un falegname quarantenne che ha perso il figlio e un giovane apprendista, che viene dal riformatorio e avrebbe bisogno di una figura paterna. Ma la famiglia non si forma, perché il giovane apprendista è l’assassino del figlio del falegname. E poi ancora L’enfant: in apparenza la storia di un padre degenere che vende il figlio appena nato, perché sa che né lui né la sua compagna avrebbero i soldi per crescerlo. In realtà è una strana e disperata storia d’amore, di quelle che andrebbero anche a finire in un poetico lieto fine, se non ci fosse la verosimiglianza di mezzo. Il nucleo di Dardenne è un nucleo di tenerezza e non di analisi, dove il rigore della messinscena non intacca mai una sostanza sentimentale, semplicemente, di un sentimentalismo verosimile, e quindi tendente al tragico: se vuoi sopravvivere, meglio non affezionarti alle persone.

È curioso quello che è avvenuto con gli ultimi due film. Ne Il matrimonio di Lorna le cose sono sostanzialmente identiche sul piano dei contenuti. La mercificazione degli affetti, in questo caso del matrimonio, le famiglie che non riescono a coagularsi anche quando potrebbero perché spinte dalla forza centrifuga della società, eccetera. La responsabilità a cui conducono gli affetti e quella più drammatica a cui conducono le scelte di sopravvivenza. A cambiare è qualcosa nella forma, qualcosa di vagamente più cinematografico, più stabile, più distaccato. Camera 35 mm, meno sudore da parte dell’operatore, inquadrature meno nevrotiche e più ampie, o almeno, relativamente più ampie rispetto al rigido stalking sui personaggi dei film precedenti. I personaggi hanno un’ombra di caratterizzazione tradizionale, la sceneggiatura è più strutturata, più organizzata, le informazioni comunicate tenendo conto di climax e contro climax. Un passo (piccolo) verso il cinema tradizionale, verso l’artificio e la strutturazione, si è detto, eppure il tentativo sembra piuttosto un esperimento per capire fin quanto si può tirare la corda, con la finzione, prima che smetta definitivamente di essere verità e diventi spettacolo. Un esperimento di narrazione aldilà del semplice mostrare, a suo modo infinitamente onesto e ineluttabile: uno sguardo che vede e per una volta, prima di far vedere anche allo spettatore, pensa. Per una volta i Dardenne parlano, dicono le cose ad alta voce, i temi sono espliciti (la presenza ricorrente del denaro a contrassegnare gli scambi anche affettivi). La prima cosa a emergere è che i Dardenne sono bravi anche a far messinscena e l’effetto è certamente più godibile anche nella tragicità della storia. la seconda è che, inevitabilmente, la scrittura e la verità ogni tanto si intralciano a vicenda. Probabile che i Dardenne se ne siano accorti, il loro cinema può sopravvivere miracolosamente solo su un piano minimo di affabulazione, nell’esilità spogliata di tutto della loro impostazione austerissima. Altrimenti crolla.

Il matrimonio di Lorna
è debole perché in effetti sembra un po’ troppo un film. Un gran bel film, ma un film. Quelle cose che le guardi e poi pensi: bella sceneggiatura, intelligenti questi registi. Il che, evidentemente, non è mai stato lo scopo dei due. E quindi il loro film successivo ritorna alla base, o quasi: ne Il ragazzo con la bicicletta torna la linearità, l’insistita mancanza di stratificazione drammaturgica, la maggior oggettività concessa a un medium necessariamente soggettivo. La telecamera a inseguire. I Dardenne ci hanno anche provato a fare cinema usando la struttura e il linguaggio in un modo vagamente più tradizionale, e gli è anche venuto bene, ma, semplicemente, non era quello che volevano, o dovevano, fare. Loro sono fatti per non esserci nei loro film, per esserci il meno possibile, comunque. Che poi anche ne Il ragazzo con la bicicletta (insieme con un inedito e sottile ottimismo) trapela qualche timido elemento di messinscena: una maggiore leggibilità, perfino un accenno di colonna sonora. Ma rimane quello che i Dardenne hanno sempre fatto, cinema senza cinema, pura narrazione spoglia e minimale di emozioni e drammi primari e profondissimi. I loro film difficilmente saranno mai accomunabili a quello che solitamente si considera come cinema. È il progetto stesso ad essere diverso: un tentativo etico e coerente di trovare la quadratura del cerchio fra la verità che è necessario raccontare e la finzione inevitabile per raccontarla.

 


#01 FEFF 15

Il festival udinese premia il grandissimo Kim Dong-ho! Gelso d’Oro all’alfiere mondiale della cultura coreana e una programmazione di 60 titoli per puntare lo sguardo sul presente e sul futuro del nuovo cinema made in Asia...


Leggi tutto...


View Conference 2013

La più importante conferenza italiana dedicata all'animazione digitale ha aperto i bandi per partecipare a quattro diversi contest: View Award, View Social Contest, View Award Game e ItalianMix ...


Leggi tutto...


Milano - Zam Film Festival

Zam Film Festival: 22, 23 e 24 marzo, Milano, via Olgiati 12

Festival indipendente, di qualità e fortemente politico ...


Leggi tutto...


Ecologico International Film Festival

Festival del Cinema sul rapporto dell'uomo con l'ambiente e la società.

Nardò (LE), dal 18 al 24 agosto 2013


Leggi tutto...


Bellaria Film Festival 2013

La scadenza dei bandi è prorogata al 7 aprile 2013 ...


Leggi tutto...


Rivista telematica a diffusione gratuita registrata al Tribunale di Torino n.5094 del 31/12/1997.
I testi di Effettonotte online sono proprietà della rivista e non possono essere utilizzati interamente o in parte senza autorizzazione.
©1997-2009 Effettonotte online.