TFF 27/Nicholas Ray: Bigger Than Life PDF 
Gabriele Diverio   

Vorrei oggi avere un’ottantina d’anni, essere nato su suolo statunitense ed essere dotato di una memoria da elefante. Se così fosse ricorderei, probabilmente, quando nel 1956 andai a vedere al cinema Bigger Than Life di Nicholas Ray. Cercherei quindi, compiendo quell’esercizio mentale che si mette in atto nel tentativo di ricordare dove si è lasciato il portafogli o un mazzo di chiavi, di riportare alla luce tutti i particolari di quel giorno – che cinema fosse, dove mi sedetti, se fossi solo o in compagnia, quante persone assistettero con me alla proiezione –, per poi convergere tutte le mie energie sulla scena più drammatica del film. Lo sforzo mentale non vorrebbe solo essere un semplice gioco per allenare la memoria, di quelli tanto di moda oggi, ma avrebbe l'obiettivo di capire se il pubblico di oggi reagirebbe allo stesso modo di quello degli anni Cinquanta ad una scena agghiacciante e spaventosa come quella che segna l’apice drammatico di Bigger than life.

Ed Avery (James Mason), in una mano la Bibbia nell’altra un paio di forbici, legge alla moglie Lou (Barbara Rush) il passo in cui Abramo si convince a dimostrare la propria fede a Dio sacrificando il figlioletto Isacco. Inizialmente Lou non comprende quale sia il motivo di questa lettura e l’attribuisce all’ennesima dimostrazione d’inferiorità altrui che il marito vuol far cadere, questa volta, sul povero prete che ha appena letto loro un sermone. Lou ama suo marito, sa che non sta bene di salute, e per questo motivo cerca di non contraddirlo. La medicina che sta prendendo da qualche settimana, l'unica in grado di tenerlo in vita, lo ha di certo modificato nel carattere, lo ha reso scontroso, arrogante e addirittura violento di quando in quando. Ma che la voce del marito sia mossa da un intento omicida è un’ipotesi neppure presa in considerazione. Poi la voce di Ed sale di tono, la mano stringe le forbici, si solleva di scatto verso l’alto, e gli occhi di Lou si riempono di consapevolezza e terrore. Come i miei, del resto. E l’angoscia aumenta quando Ed, messo alle strette da Lou, che gli fa subito notare che neppure una goccia del sangue di Isacco venne versata perché il Signore fermò la mano di Abramo, tocca l’apice della propria mania di grandezza annunciando in modo chiaro, perentorio e senza timore di smentita: “Dio sbagliò!”. Follia pura. A queste parole molta gente presente in sala ha riso. Di cuore. Io mi sono sentito quasi mancare. Intendiamoci: la blasfemia della dichiarazione di Ed non mi ha toccato per nulla. È il delirio di onnipotenza che si è diffuso in ogni fibra del suo essere che mi sconvolge. È  la consapevolezza che niente fermerà la mano armata di una persona convinta di essere nel giusto che mi spaventa a morte. Come avrà reagito il pubblico degli anni Cinquanta a queste parole? Mi piace pensare che le risate fossero in quantità minore, se non altro perché la pellicola non portava ancora con sé quell’aura di “antichità” che rende gli spettatori più inclini al riso bonario di fronte alla rappresentazione di una realtà lontana, diversa, e se vogliamo più ingenua.

Ray non rinuncia mai all’ironia – i suoi personaggi maschili sono quasi sempre armati, oltre che di pistola, di battute al vetriolo –, ma in questo caso non penso volesse far esplodere la sala in grasse risate. La discesa agli inferi di Ed è stata rapida ed incessante. Dopo aver assistito in poco più di un’ora al naufragio di quello che sembrava un brav’uomo, un insegnante che non esita a svolgere in segreto un secondo lavoro pur di garantire un tenore di vita rispettabile alla moglie e al piccolo Richie (Christopher Olsen), mi rendo conto che potrei ancora non aver visto l’atto più crudele che un essere umano possa commettere: uccidere il proprio stesso figlio. Il quale ha il grave torto di aver appena cercato di rubare le pastiglie violacee del papà, quelle che lo rendono così diverso da com’era prima, quelle così importanti per lui, quelle senza le quali Richie si ritroverebbe d’improvviso orfano. Ma meglio orfano che figlio di un padre tanto cattivo: e Richie lo grida forte, chiuso in bagno, cosicchè il padre-padrone lo possa sentire bene. E un genitore, un educatore come Mr. Avery, convinto di poter rivoluzionare il mondo dell’insegnamento infantile servendosi delle armi della rigorosità e della severa educazione, come può reagire alle grida pieno di odio del figlioletto?

Richie Avery: la prova vivente del fallimento delle teorie educative del professor Ed. Bisogna porre rimedio, e subito. Bisogna tagliare il ramo prima che cresca e dia cattivi frutti. Sulle scale che dal soggiorno conducono alle camere da letto marito e moglie mettono in atto una partita a scacchi. La posta in gioco è la vita di Richie. Lou tenta dapprima di fargli cambiare idea, facendo leva sui suoi sentimenti paterni (l’album delle foto del piccolo Richie); poi cerca di mettere paura al marito illustrandogli le conseguenze di questo gesto (ma la prigione non spaventa Ed, anzi in lui è ferma la volontà di pagare per quell’atto violento); infine, come si fa con i matti, gioca la carta della comprensione e della complicità, chiedendo solo il tempo di una passeggiata per riflettere ancora un poco su ciò che deve essere fatto (ma Ed è fuori di testa, non cretino, e con una mossa repentina la chiude a chiave nel ripostiglio). Senza la mediocre e petulante compagna tra i piedi, Ed spezza  le forbici con un colpo secco sulla colonna al termine del corrimano – ottenendo  così una sorta di pugnale –, lascia cadere in terra la Bibbia e sale nella stanza di Richie. Niente sembra poter salvare il piccolo, che sul letto stringe a sé il pallone da football ottenuto in dono dal papà prima che andasse all’ospedale, e che ha poi sancito il definitivo allontanamento tra i due durante una poco divertente sessione di allenamento nel prato dietro casa. Su quella che era una normale famiglia della middle class americana sta per scendere il sipario. Dal giorno seguente tutti si interrogheranno su come sia stata possibile una simile tragedia e tutti diranno che Ed Avery era un buon marito, un buon padre, un lavoratore instancabile e anche un amico fidato.

Ma sarà poi questa la verità? È di certo più facile pensare che un uomo tutto d’un pezzo sia stato travolto da un farmaco potente come una droga, piuttosto che accettare l’idea che un medicinale abbia soltanto portato a galla idee, sentimenti ed atteggiamenti che giacevano incatenati dalle regole della corretta convivenza sociale sul fondo di Ed Avery. Un po’ come il prato ben curato di Blue Velvet di David Lynch, che nasconde tutto il marcio della vita, così la perfetta esistenza di Ed nasconde terribili verità. La moglie Lou? Un’idiota. Il figlio Richie? Un pappamolla. Wally? Un palestrato senza cervello pronto a infilarsi sotto la gonna della moglie. Gli amici? Persone incapaci di dire alcunché di interessante. I bambini della scuola? Esseri non troppo lontani da scimpanzé. L’educazione scolastica? La principale causa di una generazione di falliti. L’America perfetta e dorata degli anni Cinquanta è esistita solo nelle pubblicità e Ray ha avuto la lucidità di rendersene conto mentre la viveva, senza avere, come Lynch, il fondamentale strumento del tempo trascorso per analizzare un’epoca. Ci fosse qualcuno oggi in grado di realizzare un’analisi della nostra società – non fare un’analisi sulla nostra società, cosa diversa e ben più facile – in modo così sottile eppure feroce.

Torniamo in camera di Richie. Ed ha la lama in mano ed è pronto all’azione. Per sua sfortuna l’eccessiva quantità di cortisone ingerita negli ultimi giorni gli provoca improvvisamente delle allucinazioni talmente forti da impedirgli qualsiasi azione. Non capita spesso che i film di Nicholas Ray abbiano un lieto fine e, a dirla tutta, mi è rimasto un po’ di amaro in bocca. Sarebbe stato interessante vedere Ed scortato via dalla polizia mentre, orgoglioso del proprio atto, spiega i motivi dell’assassinio; e ancora più interessante sarebbe stato vederlo in manicomio discutere in modo dotto con i vari Napoleone, Giulio Cesare e Benjamin Franklin (almeno in questo finale non l’avrebbe solo sognato). Ma immagino si possa dire che l’happy end riguardi solo la conclusione della vicenda e non la sua evoluzione. Un po’ come un fiume in piena che sconvolge il territorio circostante e arriva, infine, a sfociare placido in qualche mare. Andate a dirlo a chi abitava in riva al fiume, nel bel mezzo delle sue aspre curve, che alla foce lo stesso corso d’acqua è placido.

Richie scappa. Arriva lo zio Wally (Walter Matthau) e inizia tra i due uomini una scazzottata a ritmo di musica da luna park – trasmessa dalla televisione accesa – che terminerà con la demolizione del corrimano e la perdita di conoscenza di Ed. Una farsa finale che non ridimensiona lo spessore di Bigger Than Life e che anticipa l’ultimo atto: il lieto ricongiungimento della famiglia Avery e la promessa del capo famiglia di un futuro tranquillo per tutti. Ma per quanto?

TITOLO ORIGINALE: Bigger Than Life; REGIA: Nicholas Ray; SCENEGGIATURA: Cyril Hume, Richard Maibaum; FOTOGRAFIA: Joe MacDonald; MONTAGGIO: Louis R. Loeffler; MUSICA: David Raksin; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1956; DURATA: 95 min.

 


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