TOFIFE 2005/Il tagliagole PDF 
di Livio Marchese   

È praticamente impossibile isolare una sola opera in una filmografia come quella di Claude Chabrol, talmente vasta da aver ormai superato la settantina di titoli. Tuttavia, dovendo suggerire al neofita un film da cui partire, la scelta, per quanto riguarda chi scrive, non potrebbe che cadere su Il tagliagole. Quarto film del sodalizio con André Genovès, il quale produrrà per il suo pupillo ancora otto lavori che insieme ai precedenti costituiscono il momento creativo più alto dell'intera carriera chabroliana (fra gli altri ricordiamo Les biches, Stéphane, una moglie infedele, Ucciderò un uomo e All'ombra del delitto), Il tagliagole è probabilmente l'episodio che più di ogni altro merita la qualifica di "classico". È anche l'ultimo film girato da Chabrol negli anni Sessanta, e questo, che può sembrare una futile pignoleria, a ben vedere è sintomatico di come Il tagliagole sia il primo vero traguardo tagliato dal regista in quella folle corsa verso l'Olimpo dei "classici" iniziata oltre dieci anni prima con l'ancora autobiografico Le beau Serge.

"Bambini, sapete chi era Balzac? Era un romanziere dell'Ottocento che nel complesso della sua opera ha cercato di dare un quadro dettagliato della società del suo tempo". A parlare è Hélène, la maestrina di Trémolat, il paesino della provincia francese nella quale è ambientata la cruenta vicenda de Il tagliagole. Mettendo in bocca ad uno dei personaggi principali quella che può essere considerata a tutti gli effetti una dichiarazione di poetica, Chabrol dimostra come alla fine degli anni Sessanta egli abbia già una perfetta consapevolezza della direzione nella quale si stava muovendo la sua carriera di regista cinematografico.

Uno dei pregiudizi critici più diffusi sull'opera di Chabrol è quello secondo cui egli non sia un vero auteur ma un semplice metteur en scène. Credo che basti citare quel breve dialogo apparentemente insignificante fra la maestra e i suoi alunni per spazzare via ogni dubbio: Chabrol è un autore completo e la presunta eterogeneità dei temi e dei generi affrontati nell'arco di un'opera ormai sterminata non sono altro che semplici mattoncini di una straordinaria costruzione, che a posteriori sarà possibile considerare quasi come una "commedia umana" del XX secolo. Questa prospettiva permette di introdurre nel novero del cinema d'autore film quali i due episodi della Tigre, Marie Chantal contro il dr Kha o Criminal story, che altrimenti andrebbero considerati come puri e semplici divertissement. Ma è bene distinguere per non incorrere in forzature. I film appena citati, è chiaro, sono pur sempre lavori minori rispetto, ad esempio, al sopraccitato "ciclo Genovès". Ma ciò che importa è che, anche quando si trova a lavorare su commissione, Chabrol interviene sul soggetto che gli viene proposto adottando quella prospettiva "catalogatrice", da romanziere ottocentesco (o da entomologo?), che gli permette di costruire ogni personaggio, anche quelli minori, con una dovizia di particolari e di sfumature che ne fanno un unicum. Forse il solo approccio critico corretto al cinema di Chabrol potrebbe consistere nel compilare un catalogo-dizionario flaubertiano dei vizi e delle virtù delle sue umane-troppo-umane creature di celluloide. Perché il cinema di Chabrol è eminentemente un cinema di personaggi e la ricchezza, la profondità, l'acutezza di analisi che il regista mostra in tale direzione difficilmente troverebbero eguali nell'intero panorama cinematografico mondiale.

E veniamo a Il tagliagole, dunque. Anche in questo caso il regista si trova ad avere a che fare con un plot (questa volta buttato giù da lui stesso) che in altre circostanze andrebbe definito "giallo": un paesino immerso nella più pacifica provincia francese, turbato dai crimini efferati di un serial killer. Come si vede, si tratta di un topos fra i più banali della letteratura poliziesca, che lo stesso Chabrol sfrutterà più volte nel corso degli anni, non da ultimo ne I fantasmi del cappellaio. Ma come in quel caso, anche qui è subito chiaro che ciò che conta non è l'intreccio, che anzi ne Il tagliagole è praticamente ridotto all'osso, se non inesistente, quanto la vertiginosa disinvoltura con la quale la macchina da presa si inabissa nelle tenebre dell'animo umano. Quello dei due protagonisti, certo: la maestrina Hélène, che in seguito a una delusione d'amore è giunta a razionalizzare la propria esistenza e a soffocare ogni pulsione, tanto da essersi ridotta a vivere come un automa, e il macellaio Popaul, che nella vita ha conosciuto solo l'orrore - ha ereditato la professione del padre, si è arruolato nell'esercito e ha vissuto per quindici anni in Indocina dove ha assistito ai massacri più inenarrabili - ed è attraverso l'orrore che egli comunica con il resto del mondo. Ma Chabrol ha un modo tutto suo di passare dal dramma individuale a quello collettivo servendosi di un semplice movimento di macchina, ovvero carrellando indietro a partire da un primo piano, fino ad arrivare a un campo lungo. Si vedano in proposito la sequenza del matrimonio e quella, bellissima, del funerale, nella quale da un piano ravvicinato della bara che viene calata nella fossa, Chabrol allarga il campo fino a includere tutta una folla di gente sotto gli ombrelli che tenta a malapena di ripararsi dalla pioggia. Simili procedimenti denotano l'atteggiamento ambivalente di Chabrol verso le sue creature: da una parte commossa e umana partecipazione, dall'altra superiorità e lucido distacco. Insomma, anche per Chabrol vale quello che diceva l'amico Godard: "Ogni movimento di macchina è un fatto morale".

Ma torniamo al tema principale del film, quello del serial killer. Anche qui Chabrol si diverte a confondere le carte, perché quello che avrebbe dovuto essere il colpevole si riduce a essere la vittima. Ed è in situazioni come queste che il regista francese paga un enorme debito nei confronti di Fritz Lang. Popaul uccide perché le sue narici sono talmente intrise dell'odore del sangue da non potergli consentire altro approccio verso i suoi simili. Nei confronti di Hélène il discorso è diverso. Egli vuole ucciderla perché ne è disperatamente ossessionato, perché la sua bellezza algida e i suoi modi pacati gli fanno intravedere la salvezza, la speranza di fuggire da quell'inferno di sangue, morte e dolore che ha ridotto la sua esistenza a un atroce calvario. Quando si rende conto dell'impossibilità della sua passione e, ancor di più, quando scopre che Hélène sa che è lui l'assassino, non gli resta che minacciare di ucciderla. Ma non per timore di venire denunciato. Semplicemente perché non riesce a sopportare la vergogna. Ma a questo punto - ed ecco uno dei momenti più alti del cinema di Chabrol -, proprio mentre il macellaio sta impugnando il coltello ed è pronto per affondarlo nella carne della sua amata, l'immagine dissolve in nero. Quando, poco dopo, il diaframma si riapre, scopriamo che Popaul si è conficcato la lama del coltello nella pancia. L'amore ha prevalso.

La sequenza conclusiva è assolutamente magistrale. Hélène accompagna Popaul ferito a morte in ospedale. Prima che la barella venga introdotta nell'ascensore, Popaul, in fin di vita, le chiede un bacio, il primo bacio della sua vita. Hélène lo accontenta. Egli per la prima volta nella sua vita ha lo sguardo rilassato, non più ossessionato dal sangue - questa volta il proprio - che continua a scorrere sul suo corpo. Le porte dell'ascensore si chiudono. Hélène resta immobile a fissare il pulsante rosso che lampeggia a intermittenza indicando il movimento dell'ascensore. Sono gli ultimi battiti del cuore di Popaul. L'ascensore arriva al piano. Popaul è deceduto. Hélène prende la macchina e giunge in riva al mare alle prime luci dell'alba. Lo sguardo, muto, rivolto a quella distesa sconfinata.

 


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