I fratelli Coen e la loro allegra banda d'idioti PDF 
Umberto Ledda   

Il cinema dei fratelli Coen pullula di imbecilli. Il termine imbecille non ha una connotazione necessariamente ed umanamente negativa. Quasi tutti i loro protagonisti hanno un buon motivo per esserlo, un motivo superiore: quasi sempre l’idiozia non dipende da loro specifiche mancanze, è una necessità ambientale, è il contesto, l’orizzonte entro cui si muovono le relazioni sociali. Una necessità biologica. C’è sempre un che di catatonia, nello sguardo dei personaggi, e d’altra parte, il mondo in cui si muovono è così delirante e imprevedibile, succedono cose così inspiegabili, che cercare di prevedere i colpi è follia. Conviene dunque galleggiare, di assurdo in assurdo, sapendo in anticipo, con preveggenza inconsapevole, che se andrà a finir male non sarà colpa propria. E viceversa. I protagonisti dei Coen sono cretini per saggezza. In ogni caso, non hanno idea di cosa stia accadendo loro, ignorano il perché, di certo non sanno come agire. Da questo punto di vista, l’ultimo loro film, A Serious Man, storia di un uomo cui accadono tragedie in successione spietata secondo un rigido e grottesco climax ascendente, sembra piuttosto rivelatore.

Per lungo tempo, il cinema dei Coen ha patito l’ovvio equivoco del postmodernismo. I due fratelli hanno girato film spudoratamente diversi gli uni dagli altri, legati soprattutto da un collante apparentemente solo formalistico: ognuno a suo modo era parassita, o – non è poi molto diverso – una rimodulazione parodica del cinema e delle narrazioni precedenti. Alcuni prendevano in prestito un genere o un sottogenere (con una certa inclinazione al noir), altri le atmosfere di questo o quell’autore letterario o cinematografico. Fino ad ora, o almeno fino alla fine del secolo passato, i fratelli Coen erano stati identificati proprio per il loro passare a setaccio generi e codici, sminuzzandoli attraverso l’omaggio, la parodia e la derisione, e guadagnandosi una inattaccabile e scontata fama di paladini del postmodernismo ludico. Le ragioni di una tale ottica c’erano, in effetti, tutte. Citando a caso, Il grande Lebowski è a grandi linee un noir classico, nonostante il suo protagonista ex hippy, che a differenza dell’investigatore tradizionale non beve ma fuma palate di marijuana, ed è così apatico che solo il fatto che gli abbiano pisciato sul suo tappeto feticcio riesce a stimolarlo all’azione. E alla rappresentazione dell’underground sociale del noir si sostituisce un sottobosco di sbandati, reduci folli, artistoidi, randagi esistenziali. Prima ti sposo poi ti rovino cambia genere e offre allo spettatore un avvocato divorzista e una ricca cacciatrice di doti: upper class metropolitana, nella rimodulazione della commedia brillante anni Cinquanta, con i battibecchi maschio/femmina adatti al caso e l’amore amarognolo che non poteva mancare. Mister Hula Hoop da parte sua è una favola di natale: Dickens e Frank Capra, con un moderno rovesciamento dei concetti di bontà e fortuna. Ladykillers non si capisce bene che cosa sia, un po’ gotico sudista, un po’ film di rapina, un po’ demenziale puro e senza scampo. E poi il gangster movie di Crocevia della morte, il thriller-noir-western di Non è un paese per vecchi, lo spionismo demente di Burn After Reading, l’Odissea sudista di Fratello dove sei. Fino alla rimodulazione delle storielle yiddish e di certe figure bibliche e religiose nell’ultimo A Serious Man.

I Coen sono, è innegabile, fra i migliori rappresentanti del neobarocco contemporaneo, il gioco dello smontare e rimontare materiale preesistente in forme che hanno l’apparenza del nuovo ma sono in realtà forme parodiche del vecchio. E del neobarocco, o postmoderno, hanno usato ampiamente tutti gli stilemi: la ridicolizzazione costante della materia narrata, l’affabulazione consapevole del fatto che raccontare storie è pratica necessaria ma fittizia e inutile, la decontestualizazione con effetti stranianti delle situazioni e delle scene, fino al senso di perdita del senso. Ma il postmoderno non è un contenuto, ma una gabbia per contenuti, e i Coen non sono solo formalisti e soprattutto non sono stupidi, e così, lentamente, hanno composto una loro precisa poetica, con una direzione consapevole, pur nascosta dalla superficie luccicante (e molto cool, almeno fino alla fine degli anni Novanta) del citazionismo. In altra parole: non hanno solo montato, rimontato e ridacchiato alle spalle di quanto montavano e rimontavano, ma hanno detto qualcosa di nuovo, espresso un punto di vista personale. La loro poetica è  una nuova ridefinizione del personaggio dell’inetto per il nuovo millennio, molto diverso da quello del primo Novecento, e a ben vedere altrettanto necessario, forse perfino di più.

Il vero apporto al cinema dei fratelli Coen è dunque la figura dell’idiota, nelle sue accezioni collaterali del cretino, del fattone, dello schizzato, dell’incompetente, dell’improvvisato e dell’inetto più o meno tradizionale. Che non ci siano eroi, nei loro film, è un fatto abbastanza ovvio: l’eroe è passato di moda da un secolo circa. Ma si fa fatica anche a trovare antieroi: essere antieroe è una questione difficile, presume comunque una statura etica, magari un po’ distorta, ma comunque una certa qual grandezza. L’antieroe è un eroe potenziale che sceglie, per problemi personali o per ostracismo sociale, di appartenere all’altra parte, all’altra sponda. È chi, assumendosene consapevolmente le responsabilità, sceglie di stare dalla parte del torto. I protagonisti dei Coen sono indifferentemente dalla parte del torto o della ragione, principalmente perché non si sono mai posti il problema. Galleggiano. Se compiono gesti importanti è per caso, oppure come effetto collaterale e non preventivato di un gesto squallido. Se fanno il male è perché è andata così, perché conveniva, perché non veniva in mente niente di meglio, perché la situazione lo richiedeva. Non si chiedono nulla, e nel caso in cui se lo chiedano si pongono la domanda sbagliata. Agiscono a casaccio, o non agiscono. Non sanno mai quello che fanno. Il panorama etico, necessario alla creazione di un antieroe, così come dell’eroe tradizionale, nei Coen è cancellato così alla perfezione che sembra non essere mai esistito. Questo non vuol dire che i due registi non abbiano una caratura etica: semplicemente, per esprimere un pessimismo profondo gli basta mettere in scena un universo dove l’etica è scomparsa, dove persino il male, quello vero, non può esser altro che ridicolo dopo l’eclisse del bene, e osservare il grottesco balletto degli uomini persi in questo labirinto senza muri. I Coen sono etici nel momento in cui osservano questo sfacelo senza commentarlo e senza entrarci, come distanti, ironici moralisti.

La galleria di cretini messi in scena dai Coen è dunque pressoché illimitata e ricca di figure che non hanno mancato di attirarsi l’immedesimazione dello spettatore. Il Dude de Il grande Lebowski soprattutto, figura memorabile di sciattone in vestaglia alla scoperta dei lati oscuri dell’agire umano, esegeta del cazzeggio e dello svarione, a suo agio nel nulla e nell’assenza di volontà e intenzione. Ma anche le spie improvvisate e imbarazzanti di Burn After Reading, che trovano materiale top secret e si convincono di farci dei soldi spillandoli agli squali dello spionaggio vero, con le ovvie conseguenze del caso. O come i ladri decerebrati ma crudeli (anche il male e la crudeltà non sfuggono all’idiozia) di Ladykillers, che è sì un capitolo minore dei Coen, ma che non sfigura affatto nella loro filmografia, coerente come tutti i loro titoli. O ancora, Llewylin Moss, il protagonista di Non è un paese per vecchi,  che prima ruba ai narcotrafficanti due milioni di dollari e poi si inguaia tornando sul luogo del furto per pietà, in un mondo dove anche la pietà, il bene, è un’idiozia che non ci si può concedere e che conduce alla morte. E così Anton, l’assassino del medesimo film, la cui crudeltà totale e gelida non nasconde aspetto e movenze da golem decerebrato. E per quanto riguarda la versione più umana dell’idiota, il protagonista di Mister Hula Hoop, che ottiene il successo sulla scorta di un’idea geniale proprio in quanto stupida (di fatto, ha inventato un nuovo uso del cerchio). Tutta gente che non sa quello che fa, che crede di saperlo ma si sbaglia, che non fa nulla perché tanto qualsiasi cosa è inutile. Queste figure rappresentano un significativo passo in avanti nella descrizione della società contemporanea. 

Fino ad ora, nascosto sotto l’impianto formale dei loro film rutilanti e virtuosistici, questa mappatura dell’umana idiozia sembrava più una predilezione dovuta al gusto che non un progetto. È solo con A Serious Man che, dopo venticinque anni di carriera, i due fratelli tirano le somme e mostrano, nel loro film meno cinematografico nell’ispirazione, i confini e lo scopo della loro poetica. A Serious Man è un film programmatico perché svela, questa volta esplicitamente, il pensiero stesso dei Coen, mostra perché i loro personaggi sono costruiti in questa maniera, mostra la loro grandezza aldilà della loro impresentabilità biologica. Il protagonista del film autobiografico dei Coen (l’ambientazione nella comunità ebraica del midwest anni Sessanta ricalca quella della loro infanzia, allontanando quindi, in gran parte, la tentazione dell’analisi meta-culturale) è di nuovo un modello di inetto. Larry Gopnik è un uomo normale, docente universitario di fisica, padre di famiglia, nessuna grande macchia nel passato. Una vita tranquilla, così tranquilla da sembrare ingiusta, spesa nel desiderio di diventare un uomo vero, uno di coloro per i quali si dice che sanno muoversi nel mondo e sono degni d’onore e rispetto. Salvo che, all’improvviso, iniziano ad accadere cose nella sua vita. La moglie che chiede il divorzio per mettersi col di lui migliore amico, che nel frattempo manda lettere anonime per screditarlo sul posto di lavoro. Un figlio adolescente disinteressato, ribelle e fattone. Una figlia che gli ruba i soldi. Uno studente che lo minaccia per farsi alzare i voti. La moglie che dopo aver chiesto il divorzio lo sfratta in un motel insieme col fratello, individuo inaccettabile e rivoltante parassita. Eccetera. Il buon Larry Gopnik accetta il tutto con serenità, umiltà, rassegnazione e completa passività, confidando in Dio. Ma quando è troppo è troppo, e allora chiede aiuto a Dio, nella figura dei rabbini della comunità: ma le risposte alle sue domande sono idiote e insensate. In tutto questo, Larry non reagisce mai, non fa nulla, perché non sa che cosa fare, perché ignora ciò che sta accadendo: tutto accade senza una ragione, e questa mancanza di ragione rende inutile ogni azione. In altre parole: Gopnik è sì un inetto del tipo più puro, incapace di gestire la propria vita e di far qualcosa, ma è l’universo stesso che gli toglie gli strumenti per agire, la comprensione, la razionalizzazione, la speranza di sapere dove andare e perché. La sua immobilità è assurda, ma anche avesse agito, le speranze non si sarebbero alzate poi di molto.

Per i Coen, è il mondo a rendere gli uomini cretini. La realtà (contemporanea, sicuramente, ma è evidente che i Coen non fanno moralismo antimoderno e cercano invece una dimensione più assoluta) non può essere indagata nel suo demente gioco di cause ed effetti, e non sapere le motivazioni di ciò che accade significa naturalmente dover presupporre che quel che accade non ha alcuna motivazione. Gopnik, docente di fisica, è mostrato nell’atto di spiegare il principio di indeterminazione e di illustrare il paradosso del gatto di Schroedinger: il paradosso che mostra come non si possa sperare di ottenere informazioni certe dall’ambiente circostante. Il mito antico dell’uomo forte, che domina il mondo e gli eventi, dell’eroe, come anche del semplice serious man, è follia. Non si può non essere degli inetti di fronte alla totale incomprensibilità di ciò che accade. Questa impossibilità  di comprendere quel che succede, e di conseguenza quel che si fa, era probabilmente un elemento inconscio del cinema coeniano fino a pochi anni fa, comunque poco visibile, quasi seppellito dal parallelo divertissement formalistico che negli anni Novanta costituiva già di per sé un sufficiente apporto di novità e contenuti. Poi, lentamente, man mano che il postmoderno mostrava la corda (nella fase che nella filmografia dei due registi corrisponde grossomodo ai manieristi Ladykillers e Prima ti sposo poi ti rovino), i Coen lo hanno messo in secondo piano, venendo fuori con forza con l’altro aspetto del loro cinema, quello etico, finendo col mostrare definitivamente una personalità forte, e in ultima analisi, più duratura. I Coen non sono formalisti. Sarebbero volentieri contenutisti puri, lavorerebbero volentieri con grandi significati e temi immensi, se solo ci fosse qualcosa da raccontare nel caos e nell’assenza di senso. Ma poiché tutto appare loro come un guscio vuoto, allora fanno cinema coi gusci vuoti. Diventa comunque evidente con A Serious Man (lo era già con i due lavori precedenti, che li rivedevano nelle sale dopo alcuni anni di pausa) che non si può più applicare loro la dizione di postmoderno, per quanto sia proprio nei lavori ultimi che tutti i giochi di citazione e meta-narrazione appaiono più maturi, sottili e raffinati, e quindi molto meno evidenti.

Come accade per quei movimenti al tempo stesso necessari e strumentali, la pietra tombale del postmodernismo è stata, in qualche modo, il suo stesso compimento. Nei Coen, questo compimento è arrivato dopo una lunga pausa di riflessione e ora l’elemento ludico e parodico è diventato il pavimento della loro struttura, invece di essere la struttura stessa. Il postmoderno ha ritrovato il suo posto: è la carta su cui si scrivono le storie. Una carta che falsa ciò che viene scritto su di essa, ma quello è il meno, e soprattutto è di invidiabile compatibilità con l’epoca attuale e con le storie che i Coen decidono di raccontare. Le storie di una società, che poi non è altra rispetto a quella che ha fatto del vuoto postmoderno un marchio di fabbrica, così totalmente denaturata da non permettere altro che il muoversi a casaccio, come marionette ridicole non appena le si guardi dall’esterno, o l’aspettare il destino rimanendo completamente immobili, ché tanto di muoversi non vale la pena. Perché la miglior soluzione contro un Dio sconosciuto e probabilmente inesistente che ci odia è starsene seduti comodi in poltrona, farsi le canne e ascoltare buona musica.

 


#01 FEFF 15

Il festival udinese premia il grandissimo Kim Dong-ho! Gelso d’Oro all’alfiere mondiale della cultura coreana e una programmazione di 60 titoli per puntare lo sguardo sul presente e sul futuro del nuovo cinema made in Asia...


Leggi tutto...


View Conference 2013

La più importante conferenza italiana dedicata all'animazione digitale ha aperto i bandi per partecipare a quattro diversi contest: View Award, View Social Contest, View Award Game e ItalianMix ...


Leggi tutto...


Milano - Zam Film Festival

Zam Film Festival: 22, 23 e 24 marzo, Milano, via Olgiati 12

Festival indipendente, di qualità e fortemente politico ...


Leggi tutto...


Ecologico International Film Festival

Festival del Cinema sul rapporto dell'uomo con l'ambiente e la società.

Nardò (LE), dal 18 al 24 agosto 2013


Leggi tutto...


Bellaria Film Festival 2013

La scadenza dei bandi è prorogata al 7 aprile 2013 ...


Leggi tutto...


Rivista telematica a diffusione gratuita registrata al Tribunale di Torino n.5094 del 31/12/1997.
I testi di Effettonotte online sono proprietà della rivista e non possono essere utilizzati interamente o in parte senza autorizzazione.
©1997-2009 Effettonotte online.