Lei è la regina della casa. Sono infatti ben ventitré anni, da quando ne aveva diciotto, che Raquel presta servizio come domestica nella lussuosa villa della famiglia Valdès. Senza di loro sarebbe perduta. Perché Raquel non ha una sua vita, non ha degli spazi suoi all’infuori del canonico riposo settimanale, non ha un amore, un fidanzato, una passione, un hobby, è lontana da casa, non ha niente di niente. Ha solo una madre iper-protettiva che vive altrove e dei malditesta atroci che cerca di curare malamente abusando di farmaci. I Valdès sono la sua unica famiglia ormai. Vive per loro. Per questo non appena i padroni di casa, preoccupati per il suo stato di salute, le affiancano un’altra cameriera con il compito di sgravarla dai lavori domestici, per Raquel è l’inizio di una vera e propria lotta in difesa del suo territorio. Convinta, infatti, che un’estranea in casa possa scalzarla dal suo ruolo, rubarle l’affetto dei suoi datori di lavoro e soprattutto dei loro figli, che possa, in sintesi, mettere completamente in crisi il suo microcosmo affettivo, Raquel elimina una a una le aspiranti aiutanti architettando, di volta in volta, dei sottilissimi metodi di violenza psicologica per costringerle alla fuga. Questa, grosso modo, è la trama de La Nana, che in spagnolo significa “La tata”, malamente tradotto in italiano con Affetti e dispetti, pluripremiata opera seconda (al Sundance e al Torino Film Festival), dopo l’esordio in bianco e nero de La vida me mata, del regista cileno Sebastiàn Silva, artista poliedrico e versatile.
La Nana è un film fuori dagli schemi, che non si può incanalare in alcun genere o filone cinematografico. È una pellicola semplicemente “anti”: anticapitalista, antiborghese, anticonsumista, anticonformista, anticonvenzionale. Antitutto. Ogni regola qui è sovvertita, tutto è “novità”, anche quando la rappresentazione del reale e dei rapporti umani sembra andare nella direzione più tradizionale. Il dramma umano di Raquel, infatti, compresso insieme a lei nella sua tunica blu da lavoro, viene raccontato in un’alternanza di momenti comici e tragici. Alternanza che Silva riesce a gestire alla perfezione e a far sfociare nel grottesco, nel ridicolo, fino a restituire allo spettatore, al di là della risata, una sensazione di costante inquietudine. Non si può, infatti, fare a meno di ridere di fronte alle reazioni eccessive di Raquel, che però s’intuisce essere anomale e sintomo di un qualche seme di squilibrio che alberga nel suo profondo e che è destinato ad esplodere da un momento all’altro. Ed è proprio questo mantenere lo spettatore sul filo del rasoio che sta il maggior pregio del film. Insieme allo stile adottato da Silva, altro elemento di rottura, che sembra guardare al documentario, con le sue immagini sgranate e la sua fotografia neutra, quasi spenta. Impresa lodevole e drammaturgicamente coraggiosa, dal momento che il plot si dipana quasi interamente negli interni della villa.
Insomma, Silva riprende un tema quanto mai classico, quello del rapporto tra servo e padrone, già esplorato magnificamente al cinema da Joseph Losey ne Il servo, che funge qui da modello e principale fonte d’ispirazione. Tuttavia, il regista sudamericano rielabora e riutilizza alla sua maniera e con una certa originalità questo topos cinematografico, raffigurandovi cioè più che esplicitamente la società cilena dei giorni nostri. Ossia fortemente cattolica, ma ancora divisa in classi, i ricchi borghesi e i poveri, i bianchi di origine europea e gli indios, i padroni e i servi, e così via. Un dualismo micidiale nel quale a rimetterci sono sempre i più deboli. Ed è qui che si posa, sotto lo strato della commedia, lo sguardo critico di Silva: la domestica è destinata a rimanere sempre e solo una domestica, così come il padrone sarà sempre il padrone, per tutta la vita. Il regista cileno denuncia così, sottilmente, l’immobilità della società cilena, nella quale solo i ricchi hanno diritto alla salute e alle emozioni, mentre i più sfortunati, vedi Raquel, sono destinati ad ammalarsi e a vivere in funzione dei primi. O, al limite, ad adattasi all’immutato e immutabile stato delle cose.
TITOLO ORIGINALE: La Nana; REGIA: Sebastián Silva; SCENEGGIATURA: Sebastián Silva, Pedro Peirano; FOTOGRAFIA: Sergio Armstrong; MONTAGGIO: Danielle Fillios; MUSICA: Ruy García; PRODUZIONE: Cile; ANNO: 2009; DURATA: 95 min.
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