Baarìa: candidature e polemiche per una pellicola da “Italians” PDF 
Gianmarco Zanrè   

Scampato il pericolo di vittoria al Lido, eccoci subito pronti per la rincorsa all’ambita statuetta dell’Academy: il botteghino, Tornatore e la Medusa ringraziano la bagarre suscitata durante l’ultimo Festival di Venezia ed agguantano l’ultimo treno per l’affermazione in terra americana, cercando quel successo che lo scorso anno mancò al superfavorito, almeno in terra nostra, Gomorra. Baarìa, ultima fatica di Giuseppe Tornatore, si è imposto subito all’attenzione dei media prima ancora di sbarcare ufficialmente in una sala, complice una galeotta dichiarazione del premier Berlusconi che lo ha qualificato come un “capolavoro”: scandalo e polemiche sono seguite alla recensione, complici le provocatorie domande della stampa che chiedevano conto allo stesso regista di una pellicola esplicitamente schierata a sinistra, eppure distribuita e finanziata da un gruppo facente capo al Presidente del Consiglio. Ma, a sipario calato, gli applausi sono stati pochi, e nessun premio ha arriso a quello che molti davano come il vincitore annunciato del Leone d’Oro. Ci ha pensato il botteghino, qualche settimana dopo, e la susseguente candidatura a rappresentante dell’Italia negli States. Evidentemente Berlusconi e i vertici della Medusa avevano visto più lontano della Giuria del Festival di Venezia: in effetti, citando la stessa pellicola, “il più forte è quello di cui si parla peggio”. Se non fosse un’affermazione troppo polemica, oserei dire che il regista abbia fornito un assist perfetto al capo del governo. Ma lasciamo la politica alla politica, perché, e sarà lo stesso Baarìa a insegnarcelo, troppa non è mai un bene, e pensiamo al cinema.

Baarìa è una pellicola  “hollywoodiana” girata con perizia e competenza e incorniciata da un apparato tecnico di prim’ordine, capace di parlare al grande pubblico, scorrevole nonostante il minutaggio e di sicuro impatto. Eppure, è ben lungi da essere un capolavoro, con buona pace del suo primo, ed entusiasta, recensore. Al contrario, è un film mediocre, vuoto per lo sforzo costato e ruffiano nell’approccio alla platea. E, ad un tempo, un film estremamente furbo (o intelligente, a seconda di come lo si guardi): nessuna pellicola, nella storia recente del nostro cinema, è stata in grado, esclusi i cine-panettoni e gli ultimi successi di Veronesi, che pur ottengono questo risultato “ironicamente”, di rappresentare il Bel Paese in modo così limpidamente esplicito. Neppure una pellicola di grande impatto sociale come Gomorra, o una vera e propria opera d’arte sociologica come Il divo, entrambi protagonisti della scorsa stagione del cinema d’autore nostrano. Baarìa siamo proprio noi. E ripensando ai tanto agognati Oscar possiamo trovare lo specchio dell’impoverimento culturale che affligge l’Italia persa in chiacchiere, politica, crisi e polemiche: dall’ironia mascalzona di Mediterraneo siamo passati ai colpi bassi di Nuovo Cinema Paradiso e La vita è bella – pellicole dai lampi improvvisi, ma troppo pervase da un sentimento di sudditanza nei confronti dell’Academy –, per giungere fino alle strade polverose di Bagheria, dove Tornatore mescola bambini e politica, Fellini e La meglio gioventù, cercando, addirittura peggio del Placido de Il grande sogno, di giustificare una riflessione che appare stanca e priva di spontaneità fin dalle prime sequenze.

Nessuno discute i movimenti di macchina, la fotografia patinata e l’approccio di grande professionalità tecnica dell’intero lavoro, ma la sensazione, dalla pomposa ed invasiva colonna sonora alla sceneggiatura costellata di salti temporali e buchi logici mascherati da trovate “geniali”, è che l’intera operazione sia guidata da uno spirito assolutamente ed inequivocabilmente televisivo, a conferma dei limiti di un regista forse sopravvalutato dalla critica (e non solo italiana) che, in questo caso particolare, accarezza il sogno di ripercorrere le tracce di uno dei maestri assoluti del cinema italiano, e mondiale, senza avere cuore, talento o intuito che possano anche solo avvicinarlo. Strano, e curioso, pensare che a Tornatore manchi anche l’ambizione di Fellini, nonostante gli sforzi promulgati nella produzione di un lungometraggio come Baarìa. Pare essere lo stesso cineasta a suggerire questa tesi quando, per bocca del suo protagonista, afferma che il brutto carattere, a volte, è la volontà di abbracciare il mondo intero con braccia troppo corte: quasi un’ammissione di colpa, o di coscienza, rispetto ai limiti effettivi che emergono ancor più prepotentemente se respirati in un contesto che tende non tanto al confronto, quanto alla stesura di una nuova mitologia cinematografica che superi quella di un maestro assoluto. Tornatore potrà avere dalla sua i Beppe Fiorello o i Lo Cascio a fare (male) la parte dei matti recitando a nastro la stessa battuta, simboli di uno sperpero anche di risorse senza precedenti, ma Amarcord e i suoi volti unici restano insuperabili e insuperati anche a cinquant’anni e milioni di euro di distanza. E che non si parli di volontà di incontrare le platee: il cinema di Fellini, pura arte, era ed è in grado di parlare a tutti i livelli, Academy compresa.

Tornando per un momento al discorso attoriale, una parentesi doverosa va aperta rispetto ad un vero e proprio simbolo della politica di questa pellicola: le produzioni cinematografiche di ampio respiro, da sempre simbolo, volenti o nolenti, dei grandi Studios e di produttori miliardari, hanno prosperato (e prosperano) anche grazie ai fondi che lo Stato fornisce al cinema come veicolo di cultura: osservando Baarìa e la sua produzione, la domanda lecita che fa capolino è quanto di quegli stessi fondi è stato utilizzato per la realizzazione di questa sola pellicola. Limitandosi al cast, quale produzione italiana nella storia recente può infatti permettersi di vantare all’interno dei credits, e nel ruolo di piccoli comprimari, se non semplici comparse, attori, registi e personaggi quali Michele Placido, Giorgio Faletti, Raoul Bova, Laura Chiatti, Monica Bellucci, Leo Gullotta, Aldo Baglio, i già citati Beppe Fiorello e Totò Lo Cascio, Enrico Lo Verso, solo per nominarne alcuni? È davvero lecito parlare di crisi, di mancanza di pubblico nelle sale, di guerra alla pirateria cinematografica, se il dubbio della platea è quello legato al cachet che la Bellucci nazionale possa aver riscosso per venti secondi di palpeggiamenti? E dove sono tutti i giovani attori che le rinomate scuole, di cinema e di teatro,  presenti nel nostro paese diplomano ogni anno? È davvero necessario ad un film che si professa d’autore un cast che calamiti il pubblico? Il dubbio in questi casi è che la confezione mascheri una regia assolutamente accademica e una sceneggiatura dai tanti buchi e dalla scarsa coesione: se, infatti, quest’ultima è in grado di accompagnare la visione senza avvertire l’impegnativo minutaggio, resta ardua l’impresa di poterne giustificare i salti logici, i personaggi che svaniscono per riapparire (Nino e la sua volontà di suicidio), le scelte improvvise ed inadeguatamente presentate (la “fuga” in Francia di Peppino), le virate oniriche, l’apertura e i sogni “premonitori” dei protagonisti, l’ingiustificato finale. Ancora una volta torna alla mente Federico Fellini, che ricreava Venezia ed ingannava la morte nel suo Casanova usando plastica di riciclo, mentre, dopo centocinquanta minuti di effetti e bombardamenti, Tornatore ancora fatica a trovare la giustificazione e l’idea giusta per una chiusura che pare dover essere obbligatoriamente sensazionalistica, in una finzione che si spaccia per cinema d’autore ma che non appare neanche lontanamente cinema.

Così, dopo il sempre troppo premiato La sconosciuta, il cineasta di Bagheria torna alla ribalta spinto più dagli incassi e dalle polemiche che non dall’effettivo valore del suo lavoro, in questo simile in tutto e per tutto agli eccessi, principalmente negativi, del nostro paese: quell’Italia patria della rimostranza più che della voglia, che fa della politica eterna materia di discussione o amarcord di bassa lega invece di utilizzarla come veicolo per un anelito di costruttività che, forse, effettivamente è sempre mancato, o non perviene da così tanto tempo da essere riuscito a farci dimenticare di lui. Il tutto trovando il tempo anche per un omaggio di cattivo gusto al luogo delle proprie origini (nonché principale location delle riprese), in grado di stravolgere il senso di un finale che proprio di senso pare mancare quasi del tutto. Tornando indietro, del resto, nonostante i riconoscimenti, i premi e l’indubbio talento visivo, il percorso autoriale di Tornatore appare quantomeno nebuloso, se osservato ed analizzato ad un livello più profondo: quest’ultima fatica, il già citato La sconosciuta, Maléna, La leggenda del pianista sull’oceano, per tornare a Nuovo Cinema Paradiso hanno tutti il comune denominatore di ruffiana autorialità della tv del sabato sera, quella che si guarda in famiglia, a bocca aperta, raccontando ai conoscenti il giorno successivo, fingendosi intenditori di cinema, di aver visto un capolavoro. “Quello che ha vinto l’Oscar”, perché a Venezia non hanno capito di che gran film si trattava. Forse Tornatore ha ragione. E con lui il nostro premier. E anche Nino Frassica, un altro esponente del parterre di lusso che costituisce il cast. “Il più forte è quello di cui si parla peggio”. Non per nulla, passata la bufera del Lido, Baarìa è in testa ai botteghini, fiero rappresentante dell’annuale rinascita del cinema italiano – che, a ben guardare e a voler cercare, non è mai morto –, con buona pace dei suoi detrattori nella critica illustre e dei produttori, già sorridenti in vista di incassi ben più importanti in caso di vittoria in terra americana. Se davvero si volesse scrivere una critica severa ed efficace di questo film, riconsiderati tutti i fattori, l’ideale sarebbe un foglio bianco, in modo da lasciare alla pellicola stessa tutta la responsabilità delle sue lacune. Ma, e in questo di sicuro Baarìa ci rappresenta bene, in fondo siamo italiani, figli della polemica e dei luoghi comuni, della politica e della propensione alla critica, assolutamente “riformisti”, per citare una volta ancora la pellicola.

Peppino, rivolto a suo figlio, definisce il riformista con queste parole: “Il riformista è quello che vuole cambiare le cose senza dover per forza far saltare qualche testa”. Ed ecco l’Italia che ritorna, da Bagheria a Milano. Ecco Il Gattopardo: “Tutto cambia per non cambiare”. Ecco il senso di questo cinema. Dei nostri politici, dei telegiornali. La platea spalanca gli occhi di fronte all’apparenza cercando di riconoscersi in una storia riscritta senza arte, né parte, e nei volti degli attori che spera di incontrare una volta uscita dal cinema, per chiedere loro una foto o un autografo e tornare a casa raccontando di aver visto un capolavoro o di aver incontrato il divo. Ma non è così che vanno le cose. E questo Fellini l’aveva capito al volo. Per questo era, ed è, Fellini, e mangiava gli Oscar a colazione. Perché il cinema è fatto “della materia di cui sono fatti i sogni”, e negli Stati Uniti questo lo sanno bene, anche se a volte si sono fatti abbagliare. Tornatore “vuole fa' l’americano”, ma non sembra aver troppa fretta di sognare: anzi, la sensazione è che voglia il pubblico addormentato per potersi godere meglio la realtà. E in questo non è diverso da un certo leader politico di enorme successo. Se poi, alla prossima notte degli Oscar, l’Academy dovesse dar ragione a lui, ai suoi produttori e al suo pessimo Baarìa, allora vorrà dire che avrà avuto ragione, e di colpo si assisterà all’ennesima polemica o dietrofront di una critica inizialmente avversa. Al contrario, dovesse andar male, saremo tutti pronti a gridare allo scandalo per l’ennesima grande pellicola italiana esclusa dalla cinquina finale. Baarìa ci rappresenta bene, come detto: siamo “Italians”, del resto. E torna in mente la canzone vincitrice di un Festival di Sanremo di qualche anno fa, che parlava di “tanta voglia di ricominciare abusiva”. Come dite? Quella canzone non ha vinto il Festival? Evidentemente non la produceva chi sapeva che “il più forte è quello di cui si parla peggio”, e non sempre il più forte significa il migliore. Baarìa ne è testimone.

A questo punto il dubbio, terribile, è che davvero abbia qualche possibilità, di vincere. E la comparazione politica sarebbe un esempio più che mai calzante. Ma cerchiamo, per un momento, di uscire dal nostro ruolo di italiani. Baarìa è un film mediocre. Come la sua produzione. E non meriterebbe di vincere proprio nulla. Che l’America, dunque, ci salvi dalla Terra dei cachi!

 


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