Commenti come “freschezza”, “infantilità della vecchiaia”, “inno alla vita”, potrebbero sembrare i più adeguati per presentare Quartet, il primo film diretto da Dustin Hoffman. Tuttavia, onestamente, il grande attore che si approccia alla regia da ultrasettantenne confeziona una pellicola che della terza età dichiara il soggeto, i tempi e lo stile. Questo non è un demerito, ma la premessa sincera per un film verso cui si nutrono troppe aspettative. La vicenda, che trae spunto dall'omonima pièce teatrale del 1999 di Ronald Harwood, qui anche sceneggiatore, si svolge nella Beecham House, una casa di riposo per musicisti e cantanti immersa nella campagna britannica, dove anziane ex stelle della musica inglese trascorrono le giornate tra musica, eleganti salotti e dottoresse giovani e indulgenti. Mentre fervono le prove del Gran Galà in onore di Giuseppe Verdi, occasione per raccogliere i fondi annuali della casa di riposo, arriva una nuova ospite, la famosa cantante Jean Horton. Il suo arrivo destabilizza tutte le attività, dal momento che la donna ha un passato con tre degli ospiti della casa di riposo, con i quali, un tempo, prima di iniziare una carriera da solista, componeva un Quartetto. L'asse narrativo della pellicola viaggia semplicemente sul binario della ricongiunzione dei quattro e del superamento dei vecchi rancori.
Dopo quasi cinquant'anni di carriera da attore, Hoffman si cimenta per la prima volta con la regia. Il risultato è una commedia dolce amara sulla terza età che riecheggia il Marigold Hotel del 2012, interpretato sempre dalla bravissima Maggie Smith. Innanzitutto il lavoro profuma di opera prima per le insicurezze tecniche: inquadrature e luci poco convincenti, colori poco vividi, riprese in esterna piatte e dispersive. Gli attori giocano un ruolo importante nella colorazione della pellicola. Vecchie stelle della recitazione britannica, come Maggie Smith, Tom Courtenay, Michael Gambon e Pauline Collins, e reali glorie dell'opera inglese come la soprano Dame Gwyneth Jones, compongono la ricca e variegata clientela della casa di riposo, quasi unica location del film. Tuttavia, i protagonisti sono, ciascuno a suo modo, una variante edulcorata dell'anziano attempato e smemorato, ma sempre vispo e divertente. Diverso il caso di Maggie Smith, che riesce invece a caricare il personaggio di uno spessore concreto, lontano dallo stereotipo dell'anziano dispettoso o da altri personaggi privi di personalità. Del resto, il rifiuto della scettica ex stella dell'opera di adattarsi alle attività della Beecham House, e il conseguente superamento di questo rifiuto, costituisce la direzione verso cui scorre la narrazione, anche se lentamente e con indugio. Anche la musica gioca un ruolo importante nella pellicola, carica di omaggi e passione per l'opera con un gusto “very british”, nonostante l'americanità del regista. La Traviata, Il Rigoletto, La Tosca sono, tra le altre melodie, le costanti protagoniste del film.
Complessivamente, la narrazione è statica, indugia su particolari irrilevanti quasi per riprendere fiato, è lenta e poco sincopata, l'intero sviluppo del film è intuibile già al decimo minuto. C'è qualcosa di costantemente rassicurante nella edulcorata rappresentazione della vecchiaia di Dustin Hoffman. Malinconia, convivialità e genuinità dei protagonisti sono presentati placidamente in una pellicola che non osa affrontare le grandi paure della vecchiaia come la decadenza, lo sfiorire della passata gloria o l'inadeguatezza ai tempi che corrono. Tuttavia, è comprensibile una scelta del genere, fatta da un grande della cinematografia internazionale, anch'egli sul viale del tramonto e sicuramente conscio del fatto che, come dice Bette Davis, più volte citata nel film, “la vecchiaia non è roba per femminucce”.
|