In The Mood For Love: cinema della rarefazione - Wong Kar-wai PDF 
di Matteo Viscuso   

Fu un momento imbarazzante…
Lei se ne stava timida, a testa bassa,
Per dargli l'occasione di avvicinarsi…
Ma lui non poteva, non ne aveva il coraggio.
Allora lei si voltò e andò via.

Con queste parole, affiorate dal nero dello schermo come da una memoria di dolore e rimpianto, inizia In The Mood For Love, settimo lungometraggio del cinese Wong Kar-wai. Memoria anche filmica che riporta alla mente l'incipit dello splendido Jules Et Jim, con l'epigrafica didascalia d'apertura (M'hai detto: ti amo/Ti dissi: aspetta/Stavo per dirti: eccomi/Tu m'hai detto: vattene) incisa sullo schermo-lapide a commemorare l'occasione perduta, l'istante mancato in cui un'intera vita poteva cambiare. Con il film di Truffaut la pellicola in questione condivide la medesima purezza di sguardo, che fissa corpi e sentimenti in una pudica misura formale, e al contempo quel doloroso rammarico per ciò che poteva essere e non è stato, per quei volti e quella Storia perduti per sempre.

Wong Kar-wai ci racconta una storia d'amore vissuta tutta all'interno, che implode nei desideri inespressi, nei vuoti in cui rimbomba un disperato bisogno d'esistere l'uno nell'altro. In the Mood For Love è cinema della rarefazione, dell'assenza, del "non-detto", dove i silenzi si riempiono di risonanze interiori sempre rattenute ma che restituiscono, più efficaci di mille parole, la disperata necessità di colmare la voragine della solitudine che inaridisce le vite e corrode gli animi dei due protagonisti.

Lei, la segretaria Chan (una splendida ed esile Maggie Cheung), lui, il giornalista Chow (Tony Leung, giustamente premiato a Cannes) si ritrovano ad essere vicini di casa nella Hong Kong del 1962, separati da spazi domestici che si intersecano fra pareti destinate a dissolversi. Scoprono che i rispettivi coniugi sono amanti. Da qui immagini eleganti di preziosi dettagli e malinconiche melodie (la colonna sonora comprende brani di Michael Galasso e Nat King Cole), si ripeteranno con minime variazioni per riavvolgersi e ripiegarsi in un claustrofobico alternarsi di esistenze che collidono in corrispondenze sempre spalancate sull'orlo del silenzio, e coincidenze mancate, istanti di felicità possibili distrutti dal tempo, in uno spietato ed asfittico moto circolare che li rigetta nella solitudine in cui si erano trovati. Il dolore del tradimento li avvicina in incontri bagnati dalla pioggia, in strade deserte, in appartamenti avvolti nell'ombra di tende rosse morbidamente accarezzate da un trepido alito di vento che si insinua sin dentro l'anima dei due amanti, stretti nel loro amore segreto, abbracciati a frammenti d'eterno scavati nel silenzio. Non si decideranno mai a confessare il proprio amore, lasciando che tutto rimanga sospeso nell'indefinitezza sfumata di un'attrazione che si risolve in gesti impercettibili e parole abortite.

Nonostante marito e moglie siano solo ombre perennemente fuori campo, relegate al non essere della visione (e quindi del cinema), essi gravano come fantasmi con la loro voce incorporea. "Non dobbiamo essere come loro" è questo che dice Chan di quei fantasmi, marcando una sdegnosa distanza tra il mondo delle ombre, dell'immagine negata e quello "eroico" dei due amanti e della loro passione impossibile, stritolata dai codici sociali d'una persistente "età dell'innocenza", dalle maldicenze e dal timore d'essere "come loro". Per liberarsi di quei fantasmi sono spinti a dargli corpo in una sorta di gioco, di prova, inscenando le confessioni dei rispettivi coniugi, le rivelazioni del loro tradimento. D'un tratto, però, il gioco è interrotto dalle lacrime, le ombre sono state cancellate dai loro volti ed il dolore si apre all'impossibilità d'afferrare quella felicità, quell'amore che rimane impalpabile e, insieme, alla prospettiva dell'inevitabile perdita. Su tutto si abbatte il tempo (immagini di orologi incombono con inquietante insistenza all'interno dello spazio filmico) che, inesorabile, passa sulla vita e sulla Storia, rendendo ogni scelta irreversibile. Sequenza dopo sequenza si avverte, nella sospensione in cui tutto è immerso, un senso di disfacimento, di qualcosa che nello scorrere d'ogni attimo si dissolve, come il fumo della sigaretta (presenza costante nei film di Kar-wai) perennemente accesa di Tony Leung. Chow partirà per Singapore: non si vedranno mai più. Niente sarà come prima e quelle stanze d'appartamento, in cui riecheggiano ancora tutte le parole non dette, sono ormai vuote o affittate a volti sconosciuti. I momenti delle scelte appartengono definitivamente ad un passato devastato dal tempo, in cui ciò che rimane è solo il lacerante rimpianto per quella felicità che non si è avuto il coraggio di trattenere a sé. Anche la Storia è mutata: crollano gli imperi coloniali e Hong Kong, con l'incipiente occidentalizzazione, ha perduto il suo aspetto tradizionale. Così, nell'ultima, meravigliosa sequenza (l'unica girata in veri esterni), a quattro anni dalla loro separazione (siamo nel 1966), Chow sussurrerà il suo segreto nell'unico luogo non insidiato dal tempo: tra le rovine del tempio di Angkor Wat, in una crepa sul muro da cui affioreranno fragili steli d'erba.

Dopo film quali Hong Kong Express (1994), Angeli Perduti (1995) e Happy Together (1997), allucinati, a tratti eccessivi e nevrotici, immersi in un clima alienato di solitudine e sradicamento che hanno fatto guadagnare al regista fama d'autore presso i frequentatori dei festival europei, Wong Kar-wai ci consegna, con In The Mood For Love, un'opera di straordinaria misura formale e raro pudore nella messa in scena di sentimenti che non hanno voce. Le parole, trattenute e soffocate, esplodono dentro, scavano voragini in cui risuona il silenzio d'un vuoto infettato dal rimpianto. Nel racconto si insinua il ricordo che scardina la logica consequenziale e il lineare ordine cronologico, scomponendo la narrazioni secondo motivazioni tutte interiori, all'insegna d'una rimembranza sfocata che si sforza di riconquistare, di strappare all'oblio quei segni, dolorosi e insieme preziosi, d'un passato perduto. Avendo a che fare con il tempo della memoria, la narrazione non potrà che essere ellittica, frantumata, percorsa da quelle sospensioni e quei vuoti che gli anni ed il dolore producono nel ricordo. Kar-Wai, ricorrendo ad un processo d'essenzializzazione linguistica, di rarefazione dei mezzi espressivi, giunge, per sottrazione, ad una tale densità nella resa dei sentimenti da restituirci l'essenza più intima e pulsante del melò, raggelando la commozione in un'aspra malinconia che asciuga le lacrime, lasciando, i personaggi ed il pubblico, smarriti nella desolazione "dell'assenza".

 


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