Lo spettacolo dell’alterità: la Venere Nera di Abdel Kechiche PDF 
Umberto Ledda   

Venere Nera è un film che mette inquietudine e disagio: lo spettatore si arrabbia, si indigna, e nel frattempo si sente sottilmente colpevole per il semplice fatto di essere lì a guardare, per il fatto di provare interesse. La storia è vera e appartiene ai primi anni del diciannovesimo secolo; Abdellatif Kechiche la prende e la usa come una specie di simbolo parallelo e assoluto, una cartina di tornasole in grado, da sola, di rivelare alcune sgradevoli ambiguità della società occidentale e, più in generale, della civiltà tout court. I fatti sono questi: nel 1810 Saartjie Baartman, sudafricana (etnia Khoikhoi, riferisce diligentemente Wikipedia), occupata in qualcosa che sta in un luogo incerto fra la manovalanza e la schiavitù presso una famiglia boera, viene portata a Londra da tale Hendrick Caezar, fratello del di lei capo/padrone: le vengono promessi soldi e riconoscimenti artistici; finisce a lavorare con Caezar interpretando la parte della bestia selvaggia nei freak show anglosassoni, sfruttando come attrazioni le caratteristiche anatomiche del suo popolo, grandi glutei, grandi genitali, perfetti per stimolare, oltre al gusto esotico e morboso del pubblico, anche la sua pruderie ipocrita. Ma a Londra sono gli anni dei primissimi istinti umanitari, e la schiavitù di Saartjie, così come lo spettacolo costruito sulla sua riduzione in schiavitù, iniziano a fare scandalo. Lei viene interrogata; dichiara di essere libera e di impersonare la selvaggia negli spettacoli per scelta. Non basta; diventata scomoda per eccesso di scandalo, Caezar la cede a un ammaestratore di orsi francese, che se la porta a Parigi e al cui confronto Caezar era un socio onesto e raffinato. Viene noleggiata a naturalisti francesi che la studiano per trovare la chiave della sua diversità e le prove della sua consanguineità con le scimmie, inizia a bere, si prostituisce, muore a 25 anni. Il suo corpo, esposto in parte nei musei naturalistici francesi, verrà restituito al Sudafrica soltanto per l’interessamento di Nelson Mandela, un secolo e tre quarti dopo.

Questi i fatti. Kechiche li mette in scena come se si trovasse davanti agli avvenimenti per caso. Non commenta, non dice, non suggerisce e non sottolinea. Mostra e basta. Costruisce il film in lunghe scene dove il montaggio passa da un volto all’altro in una continua e complessa composizione di primi piani e di sguardi, ma evita accuratamente un’elaborazione temporale delle scene: niente ellissi e nessuna censura, né morale né estetica né sociale, nessuna strutturazione narrativa in senso stretto, niente spettacolo, a parte quello messo in scena davanti alla telecamera. Una struttura glaciale che si muove lentamente, di scena in scena, secondo un fil rouge ineluttabile ed evidente fin dall’inizio: non ci sono margini di salvezza per la protagonista, nemmeno quando qualcuno si mette in testa di aiutarla. La discesa agli inferi è trattata quasi passivamente, senza caricature, senza che sembri interessare a Kechiche, che se ne rimane il più possibile neutrale, ai limiti di un’austera e dolorosa neutralità. Non c’è vera evoluzione, le cose scorrono, e basta, verso una fine evidente. La Saartjie di Kechiche parla poco o niente, e solo su richiesta, come se sapesse perfettamente quel che avverrà in futuro: Venere Nera è un film con una protagonista muta, la cui comunicazione si può affidare solo agli sguardi. Un fantasma la cui presenza rivela qualcosa delle persone che ne vengono in contatto più di quanto non riveli lei. Non c’è relazione comunicativa fra Saartjie e il resto del mondo: l’interesse freddo o morboso che genera nei suoi pubblici rimane alieno, non apre nessuna forma di contatto, nemmeno potenziale. Da una parte c’è lei, dall’altra il mondo che la guarda, in un succedersi di scene e di spettatori che si alternano nella contemplazione della sua alienità. In pratica, un catalogo ragionato dei possibili atteggiamenti umani nei confronti della diversità, strutturato seguendo l’avvicendarsi degli sguardi di diverse tipologie sociali.

La prima è il popolino metropolitano che assiste ai freak show: i loro sguardi sono spaventati, inibiti e curiosi, la Venere ottentotta per loro diventa il simbolo dell’immenso mondo che non conosceranno mai e nel frattempo trasmette la sicurezza di stare comunque meglio di qualcun altro. È l’esperienza di toccare con mano il selvaggio dell’Africa nera in un misto di imbarazzo, disprezzo e riverenza magica, un’avventura, per quanto fittizia, in una vita senza avventure. Umiliano Saartjie con la volgarità e l’innocenza dei manipolati. Cambio di scena e si passa dal popolino alla borghesia giudicante dei tribunali. Lo scopo sarebbe quello di aiutarla: rappresentanti della neonata African Institution hanno visto lo spettacolo trovandolo umiliante, offensivo e terribile, e valutano la possibilità di incriminare il di lei socio/padrone Caezar. In teoria, quindi, una ventata di speranza: i diritti umani che nascono e provano a mettere le cose a posto. Salvo che il principale interesse degli inquirenti sembra quello di accertare se lei effettivamente si mostrasse negli spettacoli con vestiti tali da simulare la nudità. La sofferenza e la situazione psicologica di Saartjie sono solo apparentemente il fulcro del discorso. E diventa evidente che si prova a difendere Saartjie per dimostrare come in Inghilterra “perfino un’ottentotta può trovare amici pronti a difenderla”. Il tipo di umanitarismo fatto apposta per sentirsi superiori, con interesse scarso o nullo circa la verità che potrebbe portare la persona che si difende: il processo diventa un nuovo spettacolo borghese di bassa esibizione del diverso, sottilmente più ambiguo e più in mala fede del freak show iniziale. I sedicenti buoni dell’African Institute dichiarano ideali umanitari e di difesa della diversità; ma quando vanno, dopo lo spettacolo, a lamentarsi con Caezar, parlano con lui e lei non la guardano neanche. Anche l’insorgenza dei diritti civili non cambia poi molto: ci si occupa del diverso, ma è un interesse proforma, orientato principalmente a dare una lavata veloce alle coscienze in modo da continuare ad essere, poi, eurocentrici e razzisti come prima, con la sola aggiunta di un paternalismo stucchevole.

Dopo il processo, si cambia di stato e classe sociale. La Francia e la sua società più libertina e meno ingessata. Potere della parola: Saartje non è più lo spettacolo da palco suburbano ma viene chiamata come “ospite” nei salotti privati. Le umiliazioni sono anche peggiori di quelle londinesi, gli sguardi, privi dell’imbarazzo artefatto e del senso di colpa, possono muoversi più liberamente nel soppesare lo spettacolo esotico della diversità. Il gioco del disprezzo del ricco europeo di fronte al povero africano diventa semplicemente più raffinato, vale a dire più cerebrale e perverso, salvo poi, quando Saartjie si mette a suonare mostrando con evidenza di non essere quel giocattolo sociale e sessuale che tutti prevedevano, evolversi nello stesso paternalismo appiccicoso, in una pietas e una solidarietà posticce e lacrimevoli espresse attraverso domande e battute di quelle che si fanno ai bambini e ai pazzi. E poi, ancora: il giornalista che la intervista cercando di cavare da lei una di quelle storie fra il buonista e lo spettacolo esotico, e quando con esplicita delusione capisce che lei non è una stoica principessa africana la cui famiglia è stata massacrata dai bianchi, decide di inventare di sana pianta l’articolo, perché assecondare il gusto del lettore di rotocalchi di grana grossa, nel caso di una povera africana, è decisamente meno deprimente che ascoltare una verità per cui nessuno ha un vero interesse. E infine gli scienziati, che dietro la cortesia e l’apparente rispetto non riescono a nascondere l’eccitazione per la nuova cavia da utilizzare per trovare una dimostrazione finale al loro razzismo sereno e spudorato. 

Venere Nera è una specie di viaggio, un lungo piano sequenza con un corpo e uno sguardo, immobili, in primo piano, e sullo sfondo tutte le sfumature della società dell’epoca, diverse dall’epoca attuale nell’apparenza ma sorprendentemente simili nei dettagli e negli sguardi che dedicano all’attrazione del momento. Sguardi, perlopiù gelidi, eccitati, mai empatici. L’umanità, in Venere Nera, compare solo a tratti, e ha poco spazio. Kechiche d’altra parte non sottolinea e non cerca di cavare il buono dai suoi personaggi più di quanto non si sforzi di cavarne fuori il peggio: si fa piccolo piccolo, gelido, pura telecamera senza voce. Gli sprazzi di umanità e di speranza devono farsi strada da soli, senza l’aiuto esterno del cinema. E così, nell’orrore, qualcosa salta fuori, non abbastanza da rendere Venere Nera un film da cui sperar qualcosa, ma abbastanza per allontanare il dubbio del progetto cinico e a tema, volto a dimostrare che gli uomini son carogne dal primo all’ultimo e gli europei sono razzisti nel profondo, e possono far finta di non esserlo ma non ci riusciranno mai. Sono sprazzi di umanità che hanno qualcosa, spesso, di paradossale: non vengono necessariamente dalle persone apparentemente più buone. L’atteggiamento seccato e ringhioso dello sfruttatore Caezar, che nonostante tutto considera Saartjie come un essere umano, con l’effetto surreale di apparire, a conti fatti, più umano dei buoni dell’African Institute, ong ante litteram connaturata all’ipocrisia più stucchevole. O l’abbraccio della prostituta forse innamorata, o lo sguardo del pittore al soldo degli scienziati, che sembra intuire in lei una bellezza che va al di là della dimensione centimetrica dei suoi glutei e delle sue grandi labbra. E basta: il resto è indifferenza e disprezzo, che i brevi istanti di umana solidarietà rendono ancora più ammorbante.

Il resto, semplicemente, è spettacolo, che con la verità ha poco a che fare, e con l’umanità anche meno. il resto è l’infinita capacità umana di relegare la diversità – quello che è imprevisto e che esce dallo schema consolidato di una vita ripiegata su se stessa – a puro memorabilia, togliendolo automaticamente dalla lista delle cose a cui prestare davvero attenzione. Il discorso sullo spettacolo è costante e insistito fin dalla prima scena: Saartjie sul palco a far la parte della scimmia, con urla e ringhi e gesti scomposti e tutte quelle cose che il pubblico (quello sotto il palco e quello in sala) in effetti pretende quando gli hanno promesso uno spettacolo con un'"autentica selvaggia". Le umiliazioni sono vere, tutto il resto no. Poi lo spettacolo finisce e Saartjie apre la gabbia, si accende un sigaro e mentre un tecnico le toglie i vestiti di scena parla con Caezar, che la tratta malissimo ma comunque come una collega, il che dopo i dieci minuti precedenti sembra una liberazione. Il gioco è, semplicemente, quello di dare al pubblico quello che il pubblico si aspetta (quello sotto il palco si aspetta il divertimento della scimmia parlante, quello in sala si aspetta l’umiliazione della ragazza di colore in modo da potersi indignare): il cliché dell’uomo selvatico ad uso e consumo di persone che avendo sempre avuto davanti quel cliché non sono mai state sfiorate dal dubbio che potesse esserci dietro qualcosa di diverso. Tutti impegnati nel vedere quello che vogliono vedere, nel capire quello che vogliono capire, sia esso il razzismo più comodo o un’egocentrica e viscida indignazione per i maltrattamenti fatti subire alla povera africana.

Al processo, il difensore di Caezar accusa gli accusatori di confondere la rappresentazione con la realtà in un lungo discorso pieno di catarsi, rimandi filosofici e accenni semiotici: il fatto stesso che Saartjie accetti per soldi di far la parte della schiava la rende una persona libera. Nella sostanziale e orrenda inattaccabilità del discorso, nella sua ambiguità, sta probabilmente il baricentro del film di Kechiche e la sua vera realizzazione: il discorso da sociale si fa sociologico, il campo d’azione si allarga dal razzismo alle dinamiche dello sguardo e della conoscenza, il diciannovesimo secolo diventa irrilevante di fronte a un discorso assoluto. Un mondo di rappresentazioni, dove ciò che è vero e ciò che non lo è divallano l’uno nell’altro senza scarti apparenti, e dove alla fine risulta vero ciò che si desidera vedere, invece di ciò che si vede. Tutti i personaggi di Venere Nera osservano Saartjie con differenti motivazioni, ma con una cosa in comune: la sostanziale indifferenza per tutto ciò che di lei vada oltre all’aspetto scandalistico, alla rappresentazione che la loro mente si è già fatta della Venere ottentotta e che non hanno alcuna intenzione di cambiare. È un tema che va oltre quello del razzismo e dell’opposizione fra Occidente e resto del mondo, perché Kechiche paradossalmente riesce con un film corale e socialmente molto definito a intuire una delle costanti transnazionali della società umana. Più che un film sulla dualità Africa-Europa, Venere Nera parla dell’indifferenza sovrana e assoluta che l’uomo prova per l’alterità, un egocentrismo disperato, anche se mascherato con le maschere buone dell’umanitarietà e dell’aiuto cristiano. La tendenza, di cui il razzismo è solo un sottoinsieme, a vedere come il mondo esterno come un mero accessorio di se stessi, a cui al limite si concede il permesso di esistere, ma che non viene mai percepito come realmente rilevante.

 


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