Machete: lowrider revolución PDF 
Matteo Marelli   

Tarantino è un cineasta puro; il suo linguaggio è costruito su cinemi allegramente centrifugati, disintegrati e reintegrati, che egli instancabilmente sceglie, colloca ed estrae per lubrificare un congegno narrativo e stilistico unicamente finalizzato al trionfo del cinema, dentro una visione, per dirla come Roy Menarini, “squisitamente schermica dell’opera”. Parte dal basso e risale a velocità vertiginose; afferra i prodotti seriali per plasmarli in operazione autoriale; tocca le costanti di genere riuscendo a non rimanerne imbrigliato. Cattura lo spettatore, gioca con le sue aspettative e il suo posizionamento “etico”.

Robert Rodriguez ha un modus operandi in apparenza simile, propone soluzioni estetiche parzialmente omologhe, sbloccandole però dal rigore formale dello stile tarantiniano, dando esito edonista a tecniche tese e concettuali. Il suo cinema è un divertissement finalizzato al godimento più autoreferenziale, strutturato sulla pirotecnia delle immagini, sul brivido della gratuità. Mentre Tarantino è accostabile a certe esperienze moderniste della nouvelle vague, in particolare quelle di Jean-Luc Godard (l’operazione di “destrutturazione del genere” condotta dal regista di Pulp Fiction è accostabile a quella dei Giovani turchi che, non a caso, rivalutarono all’epoca produzioni popolari ignorate dalla critica ufficiale; mentre il citazionismo tarantiniano, lungi dall’essere un mero assemblaggio acritico postmoderno, è volto a un recupero “filologico” dell’opera originale, secondo una modalità che fu anche godardiana), Rodriguez è a tutti gli effetti un cineasta postmoderno, e Machete, suo ultimo film presentato alla 67° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, non fa che confermare questo dato di fatto.

Il film è uno spin-off che prende le mosse da uno dei fake trailer realizzati per il dittico Grindhouse, progetto concepito da Tarantino e Rodriguez  come un double bill, sulla falsariga di quelli allestiti nei cinema di terza e quarta visione statunitensi durante gli anni Settanta e Ottanta (detti grindhouses appunto), per mezzo del quale giocare con un immaginario, prenderlo e ri-rappresentarlo nell’oggi, con uno sguardo al tempo stesso nostalgico e critico, ma sempre all’insegna del piacere scopico. Con Machete Rodriguez rivendica nuovamente la paternità del mexploitation (El mariachi, Desperando, e C’era una volta in Messico sono i precedenti tasselli che hanno contribuito alla codificazione del genere), con chiaro riferimento all’exploitation, e più precisamente ancora al blaxploitation, l’esplosione del fenomeno black nell’industria cinematografica statunitense, quel filone di pellicole rivolte a sfruttare caricaturalmente la cultura e la rabbia afroamericana cavalcando l’onda delle tensioni razziali. In queste tutto era eccessivo e stereotipato. Dai colori dei vestiti alle rotondità prominenti delle donne, eroine vendicative che si ribellavano all’egemonia maschile, ideale femmineo poi tornato prepotentemente alla ribalta negli anni Novanta con a capo d’opera Jackie Brown di Tarantino. Robert Rodriguez sfrutta al meglio la location frontiera (il Texas) per costruire una pellicola di “confine” che gioca a calcare (e al contempo destrutturate) i cliché locali. Su tutti quello della lowrider revolución (1), ovvero della rivolta dei lavoratori messicani contro lo sfruttamento perpetrato a loro danno da parte dei leader locali. Non mancano riferimenti all’immigrazione clandestina, al narcotraffico, ai vigilantes assassini e ai senatori razzisti. A fare da trait d’union tra gli snodi narrativi è il personaggio di Machete, ex agente federale caduto in disgrazia, e il seguito di ammazzamenti all’arma bianca di cui si rende in gran parte responsabile.

Ma sarebbe fuorviante far credere che nel film sia rintracciabile un sottotesto politico. In realtà la struttura filmica, pur associando oggetti testuali diversi, si caratterizza come raccolta di eventi eterogenei con l’unico scopo di esibire la ripetizione spettacolare della violenza. Machete è un film che può essere visto come un insieme di segmenti che possono funzionare anche autonomamente, costruito secondo un modello di aggregazione testuale, episodica e cumulativa; un modello più attento al dettaglio, al frammento, che alla loro connessione casuale, determinante un consumo di tipo ludico in cui l’utente può spostarsi goliardicamente da un dato all’altro della diegesi. È solo divertimento allo stato puro: sguaiato, eccessivo, testosteronico, barocco e ridondante. Rodriguez sembra palesemente puntare al collasso dell’exploitation, enfatizzandone le caratteristiche, anche puramente formali, sino al culmine del ridicolo, del cattivo gusto, spesso del fastidio, in un film così altamente referenziale da abbandonare qualsiasi principio etico. Il regista imposta la propria operazione sul criterio dell’accumulazione, tende costantemente all’eccesso e all’estremizzazione, alla deformazione grottesca del vero, entra a più riprese nei territori insidiosi del trash. 

L’ibridazione dei generi è reclamata dall’autore come cifra stilistica consapevole. Accumula allusioni, rimandi, riferimenti, mosso dal fascino del riuso costante, che dall’omaggio passa per la citazione letterale sino alla decontestualizzazione. Ma, oltre alla contaminazione, l’effetto ancor più interessante determinato da questa prassi registica è quello della fetazione di un unico supergenere. Infatti, come evidenziato da Roberto Nepoti in Genere e Supergenere, anche quello di Rodriguez è un esempio di “cinema che vive di cinema, frutto della metamorfosi che, dagli anni Settanta in avanti, ha praticamente trasformato tutto il cinema di Hollywood in un unico testo metacinematografico ultracosciente di sé. Il corpo del cinema è diventato un deposito, un magazzino culturale, un paradigma disponibile all’uso da cui ritagliare elementi già insediati nell’immaginario collettivo assemblandoli liberamente”. Ad imporsi è un’estetica della forma in cui prevale il piacere dell’ornamento, il citazionismo di figure archetipiche in cui il corpo, soprattutto femminile, assurge a segno, e si riappropria di tutto un immaginario che stimola la pulsione scopica del desiderio (esemplare a tal riguardo la caratterizzazione delle tre principali figure femminili, Sartana, Luz/She ed April Booth, rispettivamente interpretate da Jessica Alba, Michelle Rodriguez e Lindsay Lohan, rispondente ad un campionario delle più trite e triviali fantasie dell’immaginario erotico maschile, evidente operazione in cui il referente reale lascia il posto al grafema, all’icona).

L’appiattimento postmoderno dei modelli del passato si traduce nella liberazione delle figure da quei caratteri che ne assicuravano pertinenza di comportamenti e universo di provenienza, lasciandone solo caratteri superficiali utili all’esibizione di sé stessi; personaggi a due dimensioni, dilatabili e interscambiabili, dei puri attanti che si scontrano l’un l’altro. La graficità delle forme e l’evidenziazione dell’artificialità della messa in scena producono un tipo di immaginario che spesso (come in questo caso) sconfina con il mondo del fumetto e del cartoon. Questo scollamento del referente rappresentativo dalla realtà materiale dà forma ad uno spazio testuale più simile a un grande reticolo di connessioni, un archivio/database di storie (da tutti personaggi principali potrebbero germinare ulteriori spin-off capaci di rendersi indipendenti dalla cellula nucleare di partenza); ma anche ad un luogo di “shock” ripetuti, euforici e sinestetici, i cui punti di vista inusitati, e gli effetti speciali, sono mirati all’ubriacamento sensoriale dello spettatore. In Machete sono utilizzate strategie discorsive ed effetti digitali finalizzati ad immergere lo spettatore all’interno di un tessuto linguistico altamente interattivo in grado di ricreare bagni di sensazioni da leggersi anche nei termini di un ritorno all’origine, come meraviglia e fantasmagoria, in qualità di vero e proprio “cinema delle attrazioni”. Come messo in evidenza da Giona A. Nazzaro, “in questo senso, sì, Rodriguez è un autore. Probabilmente non nel senso che immaginavano i padri della nouvelle vague, ma di certo nel senso che la sua peculiare poetica è intimamente intrecciata con un’idea di artigianato (né alto né basso) che contiene in sé il senso stesso del suo fare cinema (permettendo così ai suoi film di essere riconoscibili sempre come approccio alla materia e sguardo; anche quando non convincono del tutto)”.

Note:
(1) Con il termine lowrider si intendono le auto modificate con sospensioni idrauliche che permettono di alzarsi e abbassarsi a piacimento, una moda nata negli anni Cinquanta del secolo scorso proprio tra i chicanos, il cui motto era Low and Slow (Bajito y Suavecito), cioè “basso e piano”.

 


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