Appunti sparsi sulla riforma del sistema cinematografico nazionale - La rivoluzione italiana: modern PDF 
di Fulvio Montano   

A breve distanza dalla consegna dei David di Donatello per i più meritevoli praticanti nostrani della settima arte, Effettonotte online propone una riflessione riguardo alla nuova legge sul cinema varata nel gennaio di quest'anno dall'attuale maggioranza di governo.

Una riforma che, seppur necessaria, ha il solo merito di peggiorare, se possibile, la situazione, chiudendo di fatto le porte in faccia alla sperimentazione e alle produzioni che non incontrano il favore del grande pubblico cresciuto a Titanic, Mission Impossible e altre menate del genere. Una riforma che considera il cinema come semplice intrattenimento con cui distrarre le masse alla pari del calcio, della tv e, in qualche modo, anche della pornografia. Panem et circensis suonerebbe l'equivalente al tempo dei Romani. Tolto il panem, quest'epoca buia ha sempre più un sapore amaro da fine dell'impero.

Parte prima – Il passato

I primi, organici interventi dello Stato Italiano nel sistema cinematografico nazionale risalgono all'epoca fascista. Da quando sale al potere nel 1922 e per tutti gli anni Venti, il regime non sembra darsi troppo da fare per mettere sotto controllo i media e l'informazione, tanto che l'unico sforzo importante per centralizzare la propaganda è la costituzione dell'Unione Cinematografica Educativa. Il futuro Istituto Luce sorge insomma con il semplice scopo di controllare documentari e cinegiornali, sì da evitare che autori e giornalisti mal ispirati promuovano un'immagine del Paese non aderente ai dettami del Partito. A differenza di quanto avviene nella Germania hitleriana e nell'URSS di Stalin, in Italia la produzione non sarà mai nazionalizzata, tuttavia il regime interverrà più volte in favore di un'industria claudicante e cronicamente affamata di denaro pubblico.

Tra il 1931 ed il 1933 il cinema è oggetto di una serie di leggi protezionistiche con cui il governo garantisce sussidi sulla base degli incassi, obbliga le sale a proiettare un dato numero di film italiani, tassa i film stranieri e stabilisce un fondo per conferire premi a film di alta qualità Nel 1932 viene poi inaugurata la Mostra del cinema di Venezia, ideata quale vetrina internazionale per i film italiani, e nel 1935 Luigi Freddi (sovrintendente alla Direzione Generale per la Cinematografia) dirige la costruzione di Cinecittà, un moderno complesso di teatri di posa statali con cui rimediare all'incendio degli studi Cines a Roma.

Ancora nel '38, ormai a un passo dalla catastrofe della guerra, la "Legge Alfieri" stabilisce per i produttori un contributo da erogare in proporzione al numero di biglietti venduti, favorendo così quel cinema spensierato e di evasione che in fondo in fondo sembra non far male a nessuno. Nonostante tutto, l'industria cinematografica italiana non sarà mai in grado di essere autosufficiente e rimarrà in passivo per tutti gli anni Trenta, tanto che il regime si limiterà a sovvenzionare un sistema per sua natura estremamente fragile, lasciandolo in gran parte in mani private.

All'inizio degli anni Sessanta, in pieno boom economico, l'Italia è il maggior centro di produzione dell'intera Europa occidentale: Cinecittà (anche grazie alle numerose coproduzioni con l'estero) sforna un film dopo l'altro, mentre l'aumento del prezzo dei biglietti ha ormai pareggiato il calo delle frequenze riscontrato nell'immediato dopoguerra, le importazioni americane diminuiscono e i film italiani dominano gran parte del mercato interno. È in questo di clima di prosperità e ottimismo che esordiscono Ermanno Olmi, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini e molti altri registi che faranno la storia del cinema italiano di un periodo, purtroppo, di breve durata. Già nella stagione 1963-64 i grandi film in costume passano di moda e le case di produzione subiscono costosi fallimenti, il più noto dei quali è Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti.

Nel 1965, con l'introduzione dell'articolo 28, lo Stato redige la prima legge organica di finanziamento pubblico al cinema, con lo scopo di dare un sostegno all'esordiente di talento coprendo il 90% delle spese. Da allora saranno venti le opere prime sovvenzionate ogni anno con prestiti a fondo perduto, da restituire solo nel caso che il film incassi a sufficienza da coprire il debito. Riformata nel 1994 con l'articolo 8, la legge, affidando le valutazioni a una commissione di esperti nominata dal Ministro per i Beni Culturali, estende il finanziamento alle opere ritenute di interesse culturale nazionale, abolendo di fatto il limite al numero di progetti che possono aver accesso ai fondi.

Da allora gli aiuti a prodotti di assodata risonanza, destinati insomma a grandi incassi e diretti da più o meno grandi registi, si fanno prassi, mentre oscure interferenze di natura politica si incaricano di gestire il resto, spesso al di fuori di quelle che dovrebbero essere normali valutazioni di merito. Sulla carta il sistema risulta tutto sommato semplice: la casa di produzione che promuove il progetto (spesso costituita per l'occasione e sciolta una volta ottenuto il finanziamento e realizzato il film) presenta al Ministero la sceneggiatura, il soggetto, le motivazioni artistiche e culturali, il cast tecnico-artistico, il preventivo, il piano di lavorazione e le prospettive distributive, oltre a un dettagliato curriculum dell'autore, del produttore e a una denuncia di avvenuto inizio lavorazione.

Come si è detto, lo Stato copre al massimo il 90% della spesa, per cui basta gonfiare un po' i costi ed il gioco è fatto. Che c'è di meglio di un produttore che investe senza pretendere nulla in cambio? Del prestito (perché di questo si tratta) va restituito obbligatoriamente il 30%, che scende al 10% nel caso si tratti di un'opera prima, ma per il resto scatta un fondo di garanzia. Detto in altri termini, se il film non incassa, lo Stato ne acquisisce i diritti e buonanotte ai suonatori. In dieci anni lo Stato Italiano ha ammesso al finanziamento (tra cortometraggi, lungometraggi e documentari) la bellezza di 352 film ed erogato fondi per un totale di 1173 miliardi di lire. Solo nell'ultimo anno sono stati ben 69 i film di interesse culturale-nazionale approvati dalla Commissione Cinema, di cui 40 opere prime. Alcuni di questi, finanziati con svariati miliardi, non sono nemmeno usciti in sala, mentre la maggioranza ha incassato pochissimo, mostrando i limiti di un sistema, direbbe qualcuno, da Prima Repubblica.

Come fa notare Bernardo Iovine nel servizio sui finanziamenti pubblici al cinema passato su Report qualche settimana fa, un film italiano costa in media sui 7 miliardi di lire. Tenendo presente che al produttore va il 27% del prezzo del biglietto, significa che per ripianare il debito il film deve incassare almeno 10 miliardi. Dei film di successo sovvenzionati con denaro pubblico negli ultimi dieci anni (Va' dove ti porta il cuore, Il Mestiere delle armi, I cento passi, Vajont, Prendimi l'anima e i vari film di Natale, tanto per citarne alcuni), quelli che hanno superato i tre milioni di euro di incasso si contano sulle dite di una mano, per gli altri, manco a dirlo, è scattato il fondo di garanzia. E come se non bastasse, sotto forma di contributi automatici, lo Stato premia i produttori e i registi che incassano di più, con una cifra pari al 22,5% degli introiti al botteghino.

Inutile dire che la fetta più grossa dei circa 20 milioni di euro stanziati sino ad ora va alle grandi produzioni targate Medusa. Tanto per fare un esempio il film di Aldo, Giovanni e Giacomo Così è la vita – Una storia vera (1998) ha ricevuto in premio la bellezza di 4 milioni di euro, mentre un regista come Neri Parenti prende in media sessantamila euro a film. Dei circa 90 miliardi l'anno stanziati dal Fondo Unico per lo spettacolo però, solo la metà risulta erogata sotto forma di prestito/sostegno alla produzione. Il resto va alla Scuola Nazionale di Cinematografia (21 miliardi di lire l'anno) diretta da Francesco Alberoni (al pari di Marcello Veneziani consigliere di Cinecittà e della RAI) e a Cinecittà Holding (40 miliardi) diretta dal maestro Pupi Avati, mentre a festival, rassegne e associazioni culturali vanno i restanti 30 miliardi di lire l'anno.

Non si può dire insomma, che lo Stato non sostenga il cinema, soprattutto a fronte di un mercato nazionale incapace di assorbire una tale mole di produzioni. Ogni anno escono in media quattrocento film nuovi, di cui cento di nazionalità italiana, più o meno la quantità che circola negli USA. A fronte di un sistema fondato più sull'assistenzialismo all'italiana che sulla competitività (stando ai dati del box office la percentuale di rientro è da decenni fissa al 20% degli investimenti), una riforma è da tempo, a parole, invocata da tutti, anche se nessuno fino ad ora aveva avuto il coraggio di metter mano alla legge.

Fino ad ora: perché, appena insediatasi, la nuova maggioranza di governo (FI, AN e vari alleati) ha incaricato i suoi tirapiedi, sedicenti esperti in materia del calibro dell'attuale Ministro dello Spettacolo Giuliano Urbani e della sorella plastificata della nota showgirl Milly, Gabriella Carlucci, di redigere una bozza di riforma che rendesse finalmente onore alla millenaria tradizione culturale del nostro Bel Paese. Una legge, è stato detto, finalmente al passo con i tempi, che converta il semplice sperpero di denaro pubblico in sovvenzioni alla grande industria e impedisca che registi troppo intellettuali o d'elite angoscino il pubblico con i loro solipsismi.
Questi, in breve, i presupposti. Il resto alla prossima puntata.

 


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