Le differenti logiche di rappresentazione del cinema americano all’indomani dell’11/09 PDF 
Alessandro Alfieri   

L’11 settembre 2001 segna un crocevia nella storia contemporanea, e il cinema non avrebbe potuto non riflettere i mutamenti sociali, antropologici, politici che tale evento ha comportato. In questa occasione, approfondirò l’argomento relativo al rapporto tra cinema e 11 settembre, concentrandomi sul cinema americano e offrendo una sorta di catalogazione delle molteplici modalità attraverso le quali la portata simbolica dell’evento ha determinato diverse logiche di realizzazione. D’altronde, leggere tutto il cinema post-11 settembre attraverso la lente d’ingrandimento degli attacchi alle Torri Gemelle, non è una prassi che rivendica una validità assoluta: si tratta di una determinata interpretazione, non certo l’unica. Oltre a circoscrivere la mia indagine al solo cinema americano, ho lasciato fuori dall’argomentazione anche l’analisi del cinema pre-11 settembre, ovvero quel cinema degli anni ’90 che in una maniera o nell’altra prefiguravano la catastrofe (basti pensare all’exploit del "disaster movie"), ambito che toccherò solo in un paio di occasioni. L’indagine rivolta ai film nei quali era annidato, seppur nascosto, il germe della sciagura, incarnato in gesti, simboli e immagini, farebbe riportare alla mente il celebre libro di Siegfrid Kracauer, Da Caligari a Hitler, storia psicologica del cinema tedesco dei primi decenni del Novecento. Secondo questo magistrale studio, il cinema precedente all’avvento del regime nazista incarnava in differenti maniere le tensioni sociali che sarebbero sfociate nell’ascesa al potere di Hitler: dalla debolezza dell’individuo e dal suo desiderio di consegnarsi a un potere forte, all’accusa del malessere rivolta allo straniero e al diverso, fino ai liricheggianti omaggi all’Heimat, alla terra di origine, sinonimo di purezza e di orgoglio razziale. Questo approccio metodologico, ovvero l’analisi attenta delle opere che precedono un determinato evento al quale sarebbero collegate, ritengo non possa valere a proposito dell’11 settembre per due motivi: il primo è di ordine generale, e riguarda il rischio che l’analisi di Kracauer possa essere tacciata di «anacronismo». In parole semplici, dal momento che noi interpreti sappiamo cosa sia accaduto storicamente, siamo portati a ricondurre le opere precedenti tale evento, in maniera indiscriminata e assoluta, all’evento stesso, quasi l’avessero preannunciato o profetizzato. L’analisi ne risulta spesso forzata, anche contraddittoria, necessitando che elementi evidentemente antitetici debbano comunque incarnare lo stesso concetto. La seconda questione che ci costringe a prendere le distanze dall’analisi kracaueriana applicata all’11 settembre è ben più evidente, e riguarda la palese impossibilità di ricondurre il rapporto Germania/Nazismo, a quello Usa/11 settembre. Per quanto potremmo ragionare sulle responsabilità propriamente americane degli attentati è indubbio che l’11 settembre sia stato un attacco provenuto «da fuori», caratterizzato dall’imprevedibilità e dalla sorpresa; l’ascesa del nazional-socialismo invece è stato un (violento) processo politico, e il Male si è nutrito all’interno delle stesse «mura di casa», fin nel cuore del popolo tedesco. Le categorie, che a loro volta possono contenere delle sottocategorie di ulteriore differenziazione, saranno le seguenti:

1) Cinema che affronta dichiaratamente l’evento
2) Cinema che trascura l’evento
3) Cinema che si nutre del fascino della catastrofe
4) Cinema che incarna in sé l’evento

1) Cinema che affronta dichiaratamente l’evento. All’interno di questa grande categoria, possiamo segnalare due sottocategorie: 1.a) I film «su» l’11 settembre, che affrontano l’evento tentando di cavalcarne il potenziale emotivo, puntando a volte alla mitizzazione e alla glorificazione delle vittime, altre volte orientato al didascalismo propagandistico. World Trade Center (Oliver Stone, 2006) e United 93 (Paul Greengrass, 2006) appartengono a questa categoria in quanto narrazioni volte a restituire al popolo americano dignità e onore. Si tratta di una strategia psicologica abbastanza ovvia: l’elaborazione del lutto passa attraverso la nobilitazione di chi viene posto senza mezze misure dalla parte del torto. Il patetismo più che rasentato di queste pellicole è funzionale alla stimolazione di un sentimento patriottico, per una nazione colpita al cuore; insomma, piuttosto che partire dalla sciagura e dal colpo subito per orientarsi ad una comprensione critica di ciò che è accaduto, si preferisce fissare in categorie immobili il «bene» e il «male». Questo atteggiamento è utile al sistema politico: il riconoscersi «vittime» di un’ingiustizia fa degli americani degli «innocenti» in tutto e per tutto. Ciò è utile ovviamente alle campagne militari offensive, spacciate come «guerra contro il terrorismo». Sempre alla medesima sottocategoria però appartengono i film propagandistici di segno opposto, per lo più film d’inchiesta o documentari (come Farneheit 9/11 di Michael Moore, 2004); si tratta di opere che spesso cedono al didascalismo, per quanto nobili siano le intenzioni. Didascalismo è sinonimo di populismo, e si nutre della convinzione di poter esaurire la portata emotiva e simbolica dell’evento una volta per tutte, non attraverso la «narrazione glorificante» come negli esempi precedenti, bensì attraverso la denuncia unilaterale. Questo tipo di operazioni sono legittime e importanti, ma sembrano più a loro agio nell’ambito della comunicazione piuttosto che in quella dell’arte. 1.b) Propriamente artistiche sono invece quelle realizzazioni filmiche che, pur trattando dichiaratamente l’evento, intendono riflettere sul significato e il ruolo dell’immagine dinanzi all’11 settembre e all’indomani di esso. Abbandonando qualsiasi approccio didascalico, si tratta di sondare in maniera sperimentale i limiti stessi dell’immagine dinanzi all’orrore. L’opera esemplare in questo senso è il corto girato da Iñárritu per il film corale 11 settembre 2001 (2002). L’immagine delle torri che crollano dinanzi ai nostri occhi, con i corpi che si lancino dalle finestre, mantiene uno scarto a qualsiasi tentativo di concettualizzazione e comprensione esaustiva. L’orrore, in questa maniera, alimenta il suo valore proprio nell’impossibilità di ricondurre l’evento alle nostre facoltà mentali; il problema posto da Iñárritu ha però anche a che fare con quale possa essere l’immagine adeguata per mostrare e testimoniare delle vittime della sciagura. L’autore messicano è consapevole che riproporre le immagini degli attacchi che hanno invaso monitor e tv sarebbe totalmente ininfluente; l’orrore, attraverso i media, è stato neutralizzato e normalizzato, divenendo sterile e perdendo ciò che caratterizza il suo stesso concetto. Mantenere l’ «eccesso», e perciò testimoniare degnamente la sorte delle vittime, significa sottrarre alla visibilità l’immagine della loro morte insensata, perciò Iñárritu opta per l’alternanza tra le immagini dei corpi che cadono e immagini nere invase dai suoni terribili della catastrofe.

2) Cinema che trascura l’evento. Moltissime commedie o film di diverso genere ambientati nella New York di oggi, nella sceneggiatura evitano (per questioni di pudore anche) ogni riferimento al crollo delle Torri. Trascurare la storia più recente, e costruire un mondo «parallelo» dove non sia avvenuta la catastrofe, è senza ombra di dubbio il prodotto di efficaci capacità narrative: non è facile ambientare un film a New York oggi, con dei newyorkesi come protagonisti, non facendo mai riferimento all’11 settembre e senza mai intercettare nel profilmico Ground Zero o l’area circostante. Rimuovere totalmente ogni riferimento, significa compiere un atto di malafede, rendere i personaggi astratti e irreali; d’altronde, ogni uomo instaura un rapporto di reciproca influenza con l’ambiente nel quale vive, e anche nelle aree urbane e metropolitane gli edifici e il paesaggio agiscono psicologicamente e percettivamente sugli abitanti. Manhattan senza le Torri Gemelle non è la stessa di sempre, e tale perdita o «scomparsa» agisce (più e meno subliminalmente) sulle modalità di comportamento e sulla personalità degli abitanti; nascondere questo mutamento è perciò una rinuncia a testimoniare l’evento con la volontà di dedicarsi esclusivamente alle logiche commerciali.

3) Cinema che si nutre del fascino della catastrofe. Trattando questa nuova categoria di film, restiamo nell’ambito del mainstream, tanto che appartengono ad essa opere che hanno riscosso gran successo ai botteghini; si tratta del genere del «disaster movie» o film catastrofico. Data la loro innegabile capacità di fascinazione, i film catastrofisti hanno rappresentato una fetta consistente dell'industria cinematografica americana fin dal 1933, quando Felix E. Feistche diresse La distruzione del mondo. In titoli del pre-11 settembre come Deep impact (Mimi Leder, 1998) ci si affida alla logica della totale impossibilità di prevenire la sciagura. Essa è frutto della «natura» o del «fato»; questo tipo di film catastrofisti riflettono l’impotenza dell’uomo, che coincide con la sua «innocenza». Diverso è il caso Indipendence Day (Roland Emmerich, 1996): il popolo americano si mantiene «vittima», innocente e impotente dinanzi alla distruzione, ma in grado comunque di trionfare sul «nemico». Infatti, ciò che caratterizza questo secondo sottogenere è la presenza dell’Alieno, l’Altro, l’invasore venuto con l’unica intenzione di spazzare via la specie umana/americana. C’è in questo caso l’individuazione di un responsabile, al quale nulla è stato fatto, che nessun torto ha subito, e che perciò si pone senza mezze misure dalla parte del torto. Ciò giustifica, al fine della propria «sopravvivenza», la guerra nei suoi confronti e la sua eliminazione. Tanto prima che dopo l'11 settembre, questo tipo di realizzazione si manifesta come allegoria della malattia sociale contemporanea, ma includendo anche la dimensione reazionaria: se il nemico sorge all'interno dei nostri stessi confini nazionali, allora siamo autorizzati a «sospettare» e disposti all'instaurazione di uno stato di polizia. Il cinema catastrofista ha avuto gioco facile a reiterare la propria efficacia, potenziata evidentemente, anche all’indomani dell’ 11 settembre. Non è un caso, che anche nel «disaster movie» degli ultimi 10 anni, si sia riproposta la dicotomia di cui abbiamo parlato: da un lato film come Cloverfield (Matt Reeves, 2008) che ripropongono la prospettiva dell’attacco da parte di un’entità ben definita anche se «non gestibile» e oscura, sospinta esclusivamente da uno stimolo brutale di distruttività, al quale sarebbe impossibile e irrazionale concedere delle «motivazioni» per i suoi gesti. Dall’altro lato, Roland Emmerich si è dimostrato maestro del genere anche negli ultimi anni: in The day after tomorrow (2004) e 2012 (2009) la catastrofe è frutto dell’indeterminabilità degli eventi, capaci di dimostrare la piccolezza dell’uomo dinanzi alla «natura» e al contempo sostenendone l’innocenza. Il fatto che esistesse un genere catastrofista da prima degli attacchi di New York, e che oltretutto avesse avuto un grandissimo successo negli anni ’80 e specie negli anni ’90, ci riconduce alla prospettiva kracaueriana relativa alla profetizzazione della catastrofe avvenire; questa «continuità» della storia, sfata il mito dell’11 settembre come «cesura irriducibile». In realtà, come sostenuto da Slavoj Žižek, si tratta della manifestazione radicale di ciò che già caratterizzava la vita occidentale da diversi decenni. La nozione di evento assoluto, sciolto da legami con l’esperienza e caratterizzato dall’imprevedibilità e dalla discontinuità, viene evidentemente ridimensionata. Mi concedo a questo punto una breve digressione filosofica relativa all’Evento (Ereignis) teorizzato nella riflessione di Heidegger; la filosofia dell’Evento di Heidegger attribuisce a tale concetto un fondamento metafisico di assoluta importanza, proprio perché l’av-venire dell’Evento concede la fondazione di quel mondo abitato dagli uomini e all’interno del quale la verità si ri-vela. Dalla potenza e centralità dell’Evento scaturiscono le dinamiche che regolano i nostri comportamenti nel mondo, le nostre convinzioni, le nostre modalità di percezione e il nostro stesso relazionarci agli Altri. Però è lo stesso Heidegger ad ammettere che l’Evento non possa fondarsi esclusivamente su ciò che è assolutamente altro rispetto alla comprensibilità, non può ridursi al suo lato di radicale imprevedibilità sconvolgente: se così fosse, l’Evento non avrebbe la capacità di trasformare l’ordine presente del mondo, perché sarebbe al di là della stessa capacità di venire definito in quanto Evento. Non sarebbe riconosciuto come tale, si manterrebbe a un livello di estraneità totale. L’Evento, invece, vive di una sua dialettica interna, tra rottura e continuità, prossimità e lontananza, familiarità e alterità, e in questo cortocircuito esprime la sua portata simbolica di senso. La categoria di film catastrofisti riflettono la dimensione della continuità, quella del cinema didascalico o sperimentale invece quella della frattura; nella prossima categoria troviamo invece le pellicole più pregevoli degli ultimi 10 anni di cinema americano, capaci in modalità differenti a loro volta di incarnare la dialettica che è a fondamento dell’idea heideggeriana di Evento.

4) Cinema che incarna in sé l’evento. «Incarnare l’evento» non significa narrarlo o raccontarlo secondo categorie classiche, non significa fare dell’evento il contenuto o la trama del film; e d’altronde non significa neppure sacrificare completamente l’istanza narrativa. L’evento, in questo caso l’11 settembre, si incarna nelle soluzioni stilistiche e narrative. Esso diviene ciò a cui il film fa riferimento in maniera indiretta e «nascosta»; l’intero film, guardato attraverso la lente dell’11 settembre, assume un significato simbolico diverso, più pregno di contenuti. Qui abbiamo diverse sottocategorie: 4.a) La prima consiste nei film che sono ambientati nel presente, nei quali perciò l’11 settembre è una «presenza forte» alla quale i personaggi e gli accadimenti fanno spesso esplicito riferimento. Non si tratta di film che mettono in scena ricostruzioni del fatto, bensì raccontano vicende di personaggi le cui vite sono state sconvolte dall’evento, tanto a livello psicologico, quanto a livello esistenziale. La 25° ora (Spike Lee, 2002), Crash – Contatto fisico (Paul Haggis, 2004), Nella Valle di Elah (Paul Haggis, 2007) appartengono a tale sottocategoria. Essa rappresenta una maniera diretta ed efficace di raccontare il presente di una nazione traumatizzata e ferita dalla storia, che ancora vive sulla propria pelle lo spaesamento che si riflette nei microcosmi delle vite delle singole persone e nelle loro relazioni inter-personali. 4.b) A questa seconda sottocategoria, appartengono invece film sempre ambientati nel presente, ma nei quali l’11 settembre si pone come «assenza latente»; in essi l’11 settembre non ha il valore diegetico che aveva nei titoli precedenti, ad esso si fa raramente riferimento in maniera diretta, eppure sono film che si caricano di senso solo alla luce dell’evento. E’ un’assenza che pervade ogni singola immagine del film, è il non-detto del film che ne è al contempo la chiave di interpretazione e la soluzione simbolica. Il rischio è quello di confondere la seconda categoria con questa sottocategoria, ovvero ritenere questi film come opere che trascurano l’evento non facendone diretto ed esplicito riferimento. In realtà, in essi, è la vicenda narrata che trasmette la coscienza che il film ha del presente del popolo americano: The Departed (Martin Scorsese, 2006), Collateral (Michael Mann, 2004), A History of Violence (David Cronenberg, 2005), Paranoid park (Gus Van Sant, 2007) sono film apparentemente lontani dall’11 settembre. Un’analisi attenta può invece evidenziare come emergano temi che ne sono intrisi: la dicotomia tra bene e male reinterpretata in maniera sofferta e irrisolta da questi autori, l’angoscioso vuoto esistenziale che pervade le vite dei protagonisti, l’immersione di alcuni di loro nelle zone d’ombra della propria storia e del proprio passato ecc. 4.c) Ancor più stimolante e concettualmente complessa è la modalità adottata dalla terza ed ultima sottocategoria; si tratta di quel cinema ambientato nel passato, nel pre-11 settembre, pur essendo stato realizzato dopo. Per forza di cose, l’11 settembre è anche qui un’assenza latente, ma in questi film si riflette la dialettica caratterizzante il concetto di evento: da un lato, c’è la tendenza a evidenziare la presenza sotterranea della catastrofe imminente, dall’altro però è presente la coscienza della centralità dell’evento come orizzonte di senso. Possiamo pensare a titoli come Revolutionary Road (Sam Mendes, 2008), Prova a Prendermi (Steven Spielberg, 2002) e soprattutto Non è un paese per vecchi (Ethan Coen, Joel Coen, 2007). In questi film, la narrazione si offre come strumento di comprensione dell’accaduto, perché sono capaci di darci un affresco della società americana dei passati decenni e della sua psicologia, evidentemente ricco di legami col presente. La loro stessa esistenza però, il clima e l’atmosfera che li caratterizza, sono dipendenti da quanto sarebbe accaduto nel 2001; in questa complessa sovrapposizione di piani temporali, che non rispetta le classiche categorie del tempo lineare, si riflette la dialettica tra continuità e frattura. Questi film sono intessuti dalla catastrofe di New York, ma è un investimento di senso che giunge «a posteriori» perché è rivolto a un’epoca nella quale la catastrofe ancora non era avvenuta; in negativo, essendo la catastrofe assente e «narrata» solo allegoricamente, il film ci dice qualcosa dell’oggi pur parlando del passato.

 


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