Garrone, Ciprì e gli altri: l’Italia vista dal cinema PDF 
Umberto Ledda   

L’Italia puzza un po’ di morte. Trapela dai telegiornali, dalle case, e trapela anche, e chiaramente, dal cinema e dai libri, che mai come in questi periodi possono asservire alla loro funzione di filtrare quello che si muove sotto il pelo della società e restituircelo in maniera non troppo noiosa. Questa puzza di morte non è una cosa nuova, per carità, e sicuramente lo stesso si poteva dire negli anni Settanta (tra il 1975 e il 1976 uscirono Salò di Pasolini, Brutti sporchi e cattivi di Scola e Amici miei di Monicelli, tre film che in modi diversissimi si portavano addosso un odore di putrefazione - i primi due - e di disperata malinconia mortuaria. E uscì anche Fantozzi, che pure lui, tolta la patina di risate, non diceva cose belle sulla nostra società), forse pure negli anni Ottanta, in un modo diverso, e di sicuro l’odore si è intensificato a dismisura nell’ultima decade. C’entra la crisi, è ovvio, il fatto che i soldi sono finiti, anzi, non sono finiti ma servono tutti ai piani alti perché negli anni passati han fatto casino spendendo denaro che non esisteva e ora ne hanno bisogno per tenere in piedi la baracca (è qualunquismo, certo, ma il peggio che possa capitare a una nazione è che il qualunquismo generalizzato assuma una certa verosimiglianza, e all’Italia sta accadendo). Una instabilità economica e un pessimismo che si riflettono in maniera più o meno diretta nelle opere narrative (Gli equilibristi, per citare il caso più recente, o Tutta la vita davanti, che fra l’altro quando uscì nel 2007 sembrava rappresentare una realtà intollerabile e guardato adesso non sembra peggio di quel che accade di solito). Ma non sono solo i soldi e il lavoro, è evidente. C’è qualcosa di più profondo, una specie di tumore sociale, di sfaldamento dei tessuti, di organi che hanno smesso di collaborare e ora litigano gli uni con gli altri. Si potrebbe dire lo stesso per tutto il mondo occidentale, perché è una civiltà che sta tramonando, e non solo una singola società, ma in Italia si aggiungono tutte quelle gradevoli specificità che ci hanno qualificato come una specie di ibrido sociale fra le grandi democrazie europee e gli arruffati teatrini sudamericani. L’occidente sta tramontando, forse, scavalcato da nuovi modelli più rampanti e flessibili. L’italia sta tramontando e, a quanto si può vedere dai riflessi culturali che produce, lo sta facendo peggio degli altri. E non serve buttarsi sui saggi socioantropologici o sorbirsi tutte le trasmissioni serie in tv con la gente che si urla addosso: lo si può vedere comodamente seduti sulla poltrona di un cinema pagando un modico prezzo.

Semplificando veramente molto: fino a qualche anno fa, in italia, si facevano commedie più o meno agrodolci e polpettoni sociali noiosissimi che vedevano una dozzina di studenti del dams marxisti-leninisti. Le prime, figlie della grande commedia italiana degli anni Sessanta e Settanta, si erano col tempo trasformate in una serie di ritrattini autocompiaciuti di una borghesia nata di sinistra e cresciuta radical chic, arenandosi in un intimismo generazionale che nei casi migliori era innocuo e in quelli peggiori faceva prudere le mani. Le seconde, figlie di un’altra gloriosa tradizione e di un tempo in cui aveva ancora un senso la tradizionale divisione fra sinistra e destra e fra proletariato e resto del mondo, non avevano fatto caso alla progressiva deformazione di queste divisioni, ed erano, semplicemente, rimaste ritagliate in un limbo di nicchia ciecamente autoreferenziale (quando un film lo guardano in sette, e tutti sono già d’accordo a priori sulle teorie del regista, lo scopo tanto sbandierato di fare cinema utile alla società, che dia il suo contributo alla costruzione di un mondo migliore, va a farsi benedire). Questo per quanto riguarda gli anni Novanta e la prima parte degli anni Zero. All’epoca si trattava di un cinema che non puzzava di morte, ma era semplicemente a causa del fatto che non aveva alcun odore. Semplicemente, non trapelavano dalla stragrande maggioranza delle pellicole le pulsioni sotterranee della società italiana, a meno che le pulsioni sotterranee non si potessero riassumere in “i trentenni sono proprio sfortunati in amore” o “questi capitalisti sono proprio stronzi”. C’erano come al solito delle eccezioni, come il Bellocchio che rispuntava fuori praticamente dal nulla e se ne usciva con L’ora di religione, film importante e rivelatore. Ma per il resto, ben poco. Forse era proprio il fatto che non stava succedendo molto, nella nostra società, o facevamo così bene finta di non accorgercene che alla fine non ce ne accorgevamo proprio. O forse le questione era che le cose andavano relativamente bene.

Poi le cose hanno iniziato ad andare meno bene, e alla fine si sono messe ad andare malissimo. I soldi che erano finiti, certo, ma anche il fatto che nel giro di due generazioni ci eravamo trasformati da contadini in web surfer globalizzati e la nostra atavica memoria di scimmie ci stava dicendo che troppi cambiamenti in così poco tempo non sono metabolizzabili da nessun mammifero. Fatto sta che le cose sono iniziate a farsi più complicate e il giro d’affari degli strizzacervelli si è impennato. E com’è noto, e giusto, le narrazioni si trovano benissimo in una società che sta male, e i cosiddetti "artisti" hanno iniziato a filtrare il marcio e a impacchettarcelo per benino sotto forma di storie. La letteratura si era mossa prima (e negli anni Novanta, mentre Baricco sbancava con le sue elegantissime sinfonie upper class, Massimo Carlotto iniziava a raccontare le vere derive della società italiana, aggiungendoci un bel po’ di violenza e sangue per arrivare a un pubblico che certo non avrebbe letto un saggio sullo stesso argomento), il cinema ci ha messo un po’ più di tempo. E man mano che la società diventava un posto peggiore, il nostro cinema diventava di nuovo interessante. Nel giro di poco tempo, nel 2012, sono usciti nelle sale due film parecchio diversi ma in qualche modo accomunabili, È stato il figlio di Daniele Ciprì e Reality di Matteo Garrone. Si somigliano sostanzialmente per due aspetti: il primo è che se la tirano da commedie ma fanno venire i brividi. Il secondo è, appunto, che fanno venire i brividi: trapela da entrambe una sensazione di sbando epocale nettissima, di morte, appunto, di situazione irrimediabilmente compromessa. Di una società ridotta in rovina, ridotta a girare in tondo nei territori del disturbo mentale (Reality) o a degradarsi nella più laida e violenta guerra fra poveri (È stato il figlio). C’è pure una terza somiglianza, più generica: sono film che rappresentano l’Italia in maniera grottesca ed esagerata, ovviamente, ma senza sovrastrutture ideologiche stereotipate e senza le fette di salame sugli occhi di un intimismo di maniera. Rappresentano l’Italia intesa come uno scatolone sociale sfasciato, in cui gli individui si trascinano ridotti all’individualismo più becero o a patetici e passivi desideri di rivalsa. Sono due film a loro modo importanti, perché esplicitano per la prima volta con chiarezza il fatto che c’è un problema, ma senza didascalismi, senza semplicemente essere un calco delle notizie dei giornali o dell’argomento delle discussioni fra intellettuali impegnati: sono il segno di un problema metabolizzato e profondo, e non semplicemente la messa in scena di un tema alla moda.

Il gioco di Ciprì è più semplice, diretto, figlio appena appena più gentile delle scoregge in bianco e nero di CinicoTv (ma decisamente più accessibile, come se nel regista siciliano, dopo anni di orgoglioso oltranzismo, si fosse fatta strada un’esigenza comunicativa più vasta): un balletto grottesco di crudeltà e laidezze varie, sullo sfondo di un mondo in piena putrefazione. Nella storia turpe della famiglia Ciraulo che si gioca la morte accidentale della figlia come una vincita alla lotteria per il rimborso che ne riceve dallo Stato, Ciprì sfotte con il suo tipico garbo da carro armato l’atavica e incurabile difficoltà italiana a farsi gruppo, in cui anche la famiglia, tanto ufficialmente celebrata, cede di schianto sotto la pulsione individualista verso il denaro e una squallida patina di status sociale. Ma in È stato il figlio c’è più della tendenza anarcoide e cialtrona solitamente associata (con un'altra dose di qualunquismo non del tutto infondato) al concetto stesso di italianità: il fatto è che dietro ai personaggi non c’è nulla. Non è un film su una società fatta di gente brutta, dove le famiglie sono disfunzionali e lo stato è pieno di magagne, ma un film su un’assenza di società che fa venire la nausea, su un mondo fatto di relitti senza più valore. Lo stato, la famiglia, l’amicizia, il buon senso, le idee, i valori sono, in È stato il figlio, concetti privi di senso, non tanto in crisi quanto già irrimediabilmente dimenticati, sostituiti solo da una smania primordiale che della civiltà conserva solo le tare più patetiche.

Per Reality, invece, il discorso è diverso. Sempre dalle parti del grottesco, ma senza il disprezzo violento verso i personaggi che è di Ciprì e che non fa invece parte del mondo di Garrone. E, infatti, Reality è tutto concentrato su un singolo che fa pure tenerezza, nonostante la tragicità demenziale delle sue azioni. E se non ne emerge compiutamente un’immagine della nostra società, di certo emerge con chiarezza una delle derive psicologiche tipiche di una società come questa: globalizzata, tecnologizzata (e questo vale non solo per l’Italia ma per tutto l’occidente), eppure tremendamente provinciale (e questo vale forse un po’ di più per l’Italia). Il tema non è nuovo e nemmeno trattato in maniera rivoluzionaria: la storia del pescivendolo che si convince di far parte del Grande Fratello e di venire spiato e controllato in ogni sua mossa dalla televisione è un po’ un Truman Show al contrario e in salsa napoletana, un po’ satira dello showbiz visto dal punto di vista dello spettatore. Il nuovo status della televisione come divinità. La paranoia insita nei gesti di una persona che crede - forse non a torto - che la rappresentazione sia la vera realtà in un mondo in cui ogni comunicazione è mediata, appunto, dalle rappresentazioni e dalla messa in scena. La televisione è la realtà e la realtà è meno della televisione, insomma: roba già sentita. Però è roba già sentita ma ancora piuttosto vera, molto più vera adesso di quando il concetto fu formulato qualche decennio fa. E, fra l’altro, roba che in Italia non era ancora stata utilizzata. Ed è trattata non con l’intenzione di farne qualcosa di ammonitore o inquietante, ma nel segno di un umorismo malinconico, da cui trapela la passività nei confronti delle cose che dovevano avvenire e non si potevano evitare. Un sorriso amaro, fatalista, decisamente nostrano. E in ultimo - sempre in una prospettiva italiana - è, soprattutto, un film sul tracollo della qualità dei sogni, una storia dove non solo per il protagonista, ma per tutti coloro che gli stanno intorno, l’ideale supremo di vita si è assestato su di una rozza contraffazione della realtà, su di un mondo platealmente e orgogliosamente livellato sulla mediocrità - estetica, morale, etica, culturale - più squallida e gretta.

In generale, tutto il cinema italiano sta provando a riorganizzarsi. Dopo un sacco di tempo passato a campare su allori gloriosi ma ormai inutilizzabili, sta lentamente riscoprendo la necessità di filtrare davvero i problemi del presente attraverso codici formali diversi, meno didascalici e più affascinanti, più adeguati all’attualità, scrollandosi di dosso la polvere e l’abitudine per tentare di restituirci di nuovo la nostra immagine riflessa, così che noi la si possa guardare, si possa prender paura e ci si rifletta su. Ed è curioso che le soluzioni trovate da registi diversissimi, come nel caso di Ciprì e Garrone, abbiano delle tendenze in comune. E uno degli elementi che ricorrono puntualmente è proprio quello del grottesco, l’esagerazione, la deformazione, il ghigno. Un grottesco che compare spesso anche dove uno non se lo aspetterebbe, in maniera sottile (era grottesca la rappresentazione tragica e ridicola che Sorrentino ha fatto di Andreotti ne Il Divo, che fra l’altro è anche un esempio del vecchio cinema sociale italiano che si è stancato del tono saggistico-professorale e ha sterzato verso stilemi più mediati e compiutamente narrativi). Quello degli ultimi anni è un cinema molto più deformante di quanto non si vedesse da un bel po’ di tempo da queste parti, e si spinge più spesso verso territori raramente esplorati dal cinema italiano più classico: la metanarrazione, il gioco di specchi fra reale e immaginario, la confusione fra i piani di realtà e quindi la degradazione della realtà stessa a succedaneo delle forme finzionali (nella fattispecie italiana, a quelle più corrive). Reality, ma anche Happy Family di Salvatores, che prova a smontare la commedia all’italiana in un gioco di specchi di citazionismo estero e sguardi in macchina (e non ci riesce un granché, ma questo è un altro discorso), e pure, a suo modo, Boris, che proprio nel giochino comico del dietro le quinte dello spettacolo finisce con raccontare piuttosto bene il pantano in cui siamo finiti. Perfino i Taviani, con Cesare deve morire, utilizzano il gioco di specchi della finzione dentro quello che, sostanzialmente, è un documentario. Deformazioni, degradazioni, sarcasmo e umorismo nero da una parte, giochi di specchi e paradossi della realtà dall’altra, per descrivere una società grottesca, assurda e incomprensibile. Artifici barocchi, vagamente postmoderni, figli, come il barocco e poi il postmoderno, della sensazione storica che qualcosa non funzioni, che tutto si stia sgretolando, che non si riesca più a capire niente del mondo in cui ci circonda. Il che è esattamente quello che ci sta succedendo.

 


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