Eyes Wide Shut PDF 
di Barbara Rossi   

Ma ora - dolci signore - con esattezza, dove mi state portando?". "Dove finisce l'arcobaleno". "Non le interessa vedere la fine dell'arcobaleno?". "Certo, ma dove finisce l'arcobaleno?". "Lo cerchiamo insieme no?". Durante la festa che costituisce il prologo di questo film due avvenenti ragazze invitano l'altrettanto avvenente protagonista maschile Bill (Tom Cruise) ad abbandonare la splendida moglie Alice (Nicole Kidman) per partire con loro alla ricerca dell'arcobaleno, o meglio, della sua fine; "Rainbow Fashions" è il nome del negozio di costumi - piattaforma dalla quale Bill partirà per vivere una notte che non sarà facile dimenticare.

Può apparire un dettaglio insignificante, ma colpisce questo velato, sfuggente rimando ad un concetto quasi metafisico in un'opera invece così carnalmente legata alla rappresentazione del nostro mondo e della sua passione intesa come sofferenza; l'arcobaleno è infatti il simbolo di un qualcosa che appartiene all'universo fenomenico e contemporaneamente lo trascende, come il monolite nero di "2001. Odissea nello spazio" (1968). In quella pellicola il riferimento è a un divino che si pone a fondamento e insieme a coronamento della parabola umana, in "Eyes wide shut" invece si può pensare all'arcobaleno come a un generico Altrove, territorio del mistero ultramondano da cui forse Kubrick si sentiva istintivamente attratto, data l'imminenza della morte (e gli "incontri" con essa nel film sono frequenti); oppure - sempre a causa della sua natura "altra" - come un'allusione all'eccessivo viaggio compiuto dai coniugi Harford nel film, nei pericolosi spazi ai confini del lecito, agli estremi margini dell'amore e della sua manifestazione più fisica, il sesso.

Molto, forse troppo, si è detto di quest'opera, uscita sugli schermi postuma alla scomparsa di Kubrick: l'affanno, in quanto parabola finale di un maestro del cinema, è stato quello di classificarla, di farla rientrare almeno parzialmente in un genere e il problema sta proprio qui, perché "Eyes wide shut" non è facilmente definibile, anzi può venire interpretato a più livelli. Si è parlato di psicodramma, ricordando che il regista ha ricavato il soggetto dalla "Traumnovelle"(1926) di Arthur Schnitzler, in Italia nota con il titolo di "Doppio sogno"; è opportuno comunque ricordare che, nonostante le origini letterarie, un film rimane pur sempre - causa primaria la specificità del mezzo cinematografico - un discorso autonomo e ciò è ancora più pertinente quando si parla di un autore come Kubrick.

Del resto il film pare segnato da una certa doppiezza interpretativa sin dal titolo (difficilmente traducibile in italiano), che possiamo leggere nella sua astratta concisione come un riferimento alla continua alternanza fra realtà e sogno che lo attraversa; e poi - prima ancora della sua distribuzione - dall'immagine che ne è stata data, quella di un'opera estremamente sensuale, uno sguardo scandaloso e indiscreto sulle pratiche sessuali di una giovane coppia, ancor più attraente per la curiosa (e forse voluta) coincidenza arte - vita che lega i due attori protagonisti, marito e moglie non solo nella finzione.

In realtà il sesso in questo film più che una presenza effettiva (soprattutto visiva: la maggior parte degli interni - porte, pareti, tavoli - e degli arredi - tende, tappeti, divani, cuscini - sembra dominata dal colore rosso, simbolo della passione ma anche del sangue e, nell'antichità, riservato al culto dei morti) è un'ossessione, un fantasma della memoria che aleggia implacabile e distruttivo nella vita di una coppia il cui erotismo è soltanto immaginato, sospettato, ricordato o desiderato, mai esplicato, mai vivo. L'unica scena di seduzione fra i due, davanti a uno specchio che diventa un altro simbolo di doppiezza, con quel lento avvicinarsi della macchina da presa in primo piano sul volto di Alice e sul suo sguardo inquieto, dura pochissimi secondi; mentre la tanto discussa rappresentazione dell'orgia in una misteriosa villa - su cui torneremo - non li coinvolge. Per il resto, e trascurando le personalissime, ammiccanti carrellate del regista sul corpo vestito e nudo della Kidman, novello oggetto del desiderio, il sesso esiste solo nelle fantasticherie private - proiettate verso una schiera di possibili "altri" - di ciascuno dei due coniugi, rendendo il tradimento un fatto puramente virtuale ma pur sempre indicativo di un disagio vissuto dalla coppia.

Assistiamo dunque, nel leggiadro e quasi insignificante esordio del film, alle frizzanti civetterie di Alice alle prese con un insistente corteggiatore - il primo di una spesso grottesca galleria di personaggi secondari - nel corso di un lussuoso party di Natale: vola fra loro una frase sintomatica, "Sai qual è il vero fascino del matrimonio? Il matrimonio rende l'inganno una necessità per le due parti".

In un'altra parte della sala anche Bill viene "insidiato" da due belle ospiti: ma né l'una né l'altro sono poi in grado di cogliere le occasioni che si presentano loro come tanti diavoletti tentatori, in parte per senso della fedeltà coniugale, più spesso perché vengono interrotti (il "tête-à-tête" di Bill alla festa rovinato dall' "incidente" dell'amico Zigler, quello con la figlia di un paziente appena deceduto dal suono del campanello, l'incontro con la prostituta Domino dallo squillo del telefonino, mentre lo stesso dialogo - confronto fra Bill e Alice, che innesca le loro peripezie, è spezzato dal telefono, in un brusco ritorno alla realtà che - ovviamente - non potrà più essere uguale a prima).

Sesso come impotenza, dunque, ma non solo: in un episodio del film viene associato alla malattia paradigmatica dei nostri tempi (è il momento in cui Bill, tornato a casa di Domino per rivederla, scopre da una sua amica che è affetta da Aids), in altri due addirittura alla morte. Marion dichiara il suo amore a Bill e lo bacia proprio davanti alla salma del padre, che era suo paziente: l'effetto comico è scontato, ma amarissimo. Bill si reca alla camera mortuaria dell'ospedale dove si trova Mandy, la prostituta di lusso che ha conosciuto satura di eroina a casa di Zigler, e che lo ha "salvato" durante la misteriosa notte alla villa. L'atmosfera - come si conviene a un luogo del genere - è gelida, asettica, esaltata dal candore delle pareti, del pavimento, dello stesso lettino dove giace il rigido corpo senza vita di una donna affascinante, e quella morte che a Marion fa meno paura della sofferenza ("Io ho sempre avuto più paura di quel che avrebbe potuto soffrire che della morte stessa", dice di suo padre) suona come un insulto verso tanta bellezza sprecata. Di lei molto prosaicamente Zigler dirà - nel corso del colloquio chiarificatore con Bill sugli eventi di una notte - che "Era una puttana. E' questo che era"; e Bill, che sembra provare una necrofila attrazione per lei, o una morbosa forma di estrema gratitudine, si china a sfiorarle le labbra ma all'ultimo si ritrae, come nelle avventure non vissute di un gioco paradossale. L'oscurità non l'ha inghiottito completamente.

Ma la fredda luce che batte crudamente su Mandy all'obitorio è anche quella che rende livide le notti di Bill, quelle che lui trascorre interrogandosi, errando sui propri passi per una città a tratti caotica di traffico e di riferimenti sessuali (le ragazze che si vendono agli angoli di strada, il gruppo di teppistelli che insultano pesantemente Bill), a tratti invece squallidamente vuota, desolato paesaggio onirico dove può capitare di venire seguiti da uno sconosciuto (o dai propri fantasmi?). La stessa luce che all'alba penetra azzurrina nell'appartamento di Bill alla fine - ma quanto reale? - di un incubo e svela senza pietà il volto disfatto di Alice dopo la sua "confessione"; una luce che all'occorrenza si fa scintillante, calda, falsamente rassicurante, trionfando dentro il lusso di dimore signorili, dove si celebrano gli immancabili riti del successo borghese, nei locali notturni e nelle vetrine dei negozi dove questo successo viene speso e - prima ancora che in altri luoghi - nella camera da letto degli Harford. Dove Alice si dibatte fra inquieti sogni straordinariamente simili al vero (di ritorno dalla sconvolgente esperienza della villa, Bill trova la moglie preda di un incubo in cui fa l'amore con parecchi uomini, ridendo di lui che la guarda) e fedifraghe fantasie erotiche: disinibita dall'effetto di uno spinello, oltre che dai giudizi presuntuosi del marito sulla loro situazione matrimoniale, gli rivela un episodio del passato - l'incontro con un ufficiale di marina e il desiderio che ha suscitato in lei, un tradimento tutto cerebrale - che in pochi attimi ha il potere di far crollare il fragile edificio di illusioni e false certezze che Bill, da maschio "comune", si è costruito. "Se invece voi uomini solo sapeste...", sibila Alice. Già, perché niente - e soprattutto nessuno - è quel che sembra. Il gioco delle luci (presente già in "Shining", 1980), l'alternanza di toni caldi e freddi sottolineano visivamente la doppiezza su cui si snoda l'intera pellicola, come il rifrangersi di specchi in un labirinto, come la serie di contrasti che domina la nostra vita: amore - odio, vita - morte, realtà - sogno. A occhi aperti - a occhi chiusi.

In questo grottesco e spesso assurdo balletto Alice riveste il ruolo della sognatrice, Bill semplicemente dello spettatore (ma uno spettatore particolare - un po' "voyeur" - e Kubrick, e noi, con lui), sia nelle rappresentazioni oniriche di lei sia in quella reale della villa. Conviene allora descrivere quest'ultima in dettaglio, per la sua emblematicità e per il fatto che da sola vale l'intero film.

Spinto dalla curiosità e da un certo maligno gusto per la sfida, Bill riesce a strappare all'amico Nick - musicista al "Sonata Café" e suo vecchio compagno di studi - l'indirizzo di una imprecisata villa di campagna dove tutti gli ospiti sono mascherati e dove - sempre a detta di Nick - circolano donne bellissime. Per accedervi Bill ha bisogno di due cose: un costume (che si procura nell'intermezzo satirico - grottesco con il "signor Milich" al "Rainbow Fashions"), e soprattutto la parola d'ordine, che si rivela essere "Fidelio", titolo di un'opera di Beethoven (ricordiamo a questo proposito l'uso intensivo della musica classica in molti film di Kubrick, in particolare della Nona Sinfonia di Beethoven in "Arancia meccanica", 1971).

La stranezza della situazione, le parole evocatrici di Nick contribuiscono ad accrescere l'inquietudine e l'attesa (di Bill e nostra) per ciò che ci attende all'interno. Giunto nel luogo indicato, e scandita la parola d'ordine a due uomini mascherati, Bill fa il suo ingresso in casa. I tappeti e i tendaggi dell'atrio sono rossi; la porta che si chiude alle sue spalle rimanda un suono cupamente amplificato, come di minaccia, mentre una strana musica, che a breve si qualificherà come diegetica - una sorta di lamento funebre -, si diffonde nell'aria, dapprima indistinta poi sempre più forte.

Bill, in cappa scura e maschera dorata, viene introdotto nelle forme di un composto cerimoniale in una vasta sala: la sua nera figura - visivamente affine alle raffigurazioni della morte - si staglia nel vano della porta, che già lascia trapelare uno scorcio di ciò che sta per mostrarsi ai suoi occhi. E' una visione vertiginosa: in ginocchio sul pavimento (rosso), a formare un cerchio intorno a quello che si direbbe il sacerdote (dal rosso mantello) di un rito misterico, al centro della sala, stanno undici figure incappucciate i cui movimenti sono scanditi al ritmo liturgico di ripetuti colpi di bastone. Una cortina di individui mascherati - esattamente uguali a Bill - le circonda. Il misterioso "sacerdote" sparge incenso nell'aria; tramite ampie e lente carrellate circolari la cinecamera si sposta dal cerchio più interno a quello esterno, seguendo una direzione ben precisa (da sinistra a destra e poi da destra a sinistra).

Bill si confonde ormai fra gli altri, lugubri astanti: la sua identità è ridotta a una maschera inquietante e il suo essere altro rispetto al contesto in cui si trova è segnalato solo dalla rappresentazione del suo corpo, ai margini del quadro. Nell'atmosfera sempre più irreale le figure intorno al sacerdote lasciano cadere i mantelli, rivelando in una sorprendente nudità la loro natura femminile, mentre il conservare la maschera precisa il loro ruolo di semplici oggetti del desiderio e una volontà di anonimato condivisa da tutti i presenti nella sala. Come antiche baccanti, sacerdotesse di un culto nascosto - il braccio destro dell'una sul sinistro dell'altra - le donne si scambiano un bacio sulla bocca, a condividere un intimo patto gemellare.

Un colpo di bastone del gran maestro cerimoniere e ciascuna di loro si rialza, si allontana a percorrere la nera fila degli individui mascherati sino a sceglierne uno, sancendo con un altro bacio la novella unione. Una misteriosa donna dal copricapo piumato che pare conoscere Bill, dopo averlo baciato, lo conduce con sé oltre il salone, avvertendolo del pericolo che corre. Interrotto ancora una volta da un altro ospite, Bill - attraversando un teorema di stanze - si inoltra nel cuore della casa. E' questo un cuore pulsante, stupefacente - per la censura americana addirittura scandaloso - intriso com'è di erotismo, di accoppiamenti sfrenati, un "sabba orgiastico" (1) filmato da Kubrick senza falsi pudori ma anche senza il benché minimo sussulto emotivo, dando prova di eleganza formale e virtuosismo visivo (come nel resto della scena, interamente giocata sui contrasti cromatici fra il rosso e il nero), ma assumendo un punto di vista distaccato, come il gelido occhio del chirurgo nell'esplorare il corpo umano. Così lo sguardo di Kubrick è implacabile mentre scruta dentro le camere della villa, dove non è la gioia del sesso ma la sua malattia, la sua deformazione a venire celebrata, riflesso di una società moderna (e altolocata) splendidamente conformista di giorno e decadente la notte, in cui nessuno ha più il coraggio di mostrarsi per quello che è realmente; in cui perfino il brivido del proibito viene banalizzato, diventando un puro esercizio fisiologico.

La scena ha un'appendice nella scoperta della "vera" identità di Bill e della sua illecita intrusione al festino; significativo il momento in cui - mentre ritorna al salone centrale - attraversa una stanza dove uomini e donne nudi grottescamente danzano sulle note di "Stranger in the night", motivo - riferimento alla sua situazione contingente. Seguono il confronto pericoloso di Bill con le "autorità" della villa; il suo salvataggio da parte della donna piumata, che si offre in "sacrificio" al suo posto; le "indagini" diurne di Bill sulle tracce dello scomparso Nick, con tanto di scoperta di un possibile quanto mai verificato omicidio; il dialogo fra Bill e Zigler, il quale mette in dubbio la veridicità degli inquietanti eventi della notte precedente; infine, il riavvicinamento risolutorio di Bill ed Alice.

Si tratta di una parte del racconto non del tutto risolta, dove l'impressione che spesso si ricava dal film - quella di un assurdo movimento - è più forte; dove si respira un'atmosfera vagamente antonioniana - alla "Blow-up" (1967) - allorché la realtà sembra occultare addirittura un delitto, insieme ad un'acuta mancanza di senso (vedi la scena in cui Bill ritrova la propria maschera sul cuscino accanto ad Alice, e la conseguente commistione fra sonno e veglia, fantasia e verità). Espressione dell'inconsistenza e nello stesso tempo della tragicità dell'esperienza vissuta da Bill ed Alice è il loro dialogo finale all'interno del negozio di giocattoli dove hanno accompagnato la figlia Elena a comprare i regali di Natale. Alla domanda di Bill - "Cosa pensi che dobbiamo fare?" - Alice risponde: "Penso che dobbiamo ringraziare il destino per averci fatto uscire senza alcun danno da tutte le nostre avventure, sia da quelle vere che da quelle solo sognate"; e alla ulteriore domanda del marito se sia davvero sicura di esserne uscita indenne replica: "Lo sono solo tanto quanto sono sicura che la realtà di una sola notte, senza contare quella di un intera vita, corrisponde alla verità". Aggiunge Bill: "E nessun sogno è mai soltanto sogno", e si augura con la moglie di rimanere sveglio a lungo, anzi "Per sempre". Ma Alice sottolinea: "No, non usiamo quella parola, mi spaventa, Bill. Ma io ti voglio molto bene, e sai c'è una cosa molto importante che noi dobbiamo fare prima possibile..." "Cosa?" - domanda Bill - ed Alice: "Scopare".

Su questa fulminante e beffarda battuta di Alice - cui Kubrick benignamente riserva l'ultimo, malinconico ed enigmatico suo sguardo (così come il primo) - il film si chiude, ritornando ironicamente con un piccolo sberleffo al tema iniziale - dominante di tutta l'opera, in una struttura perfettamente circolare; che tuttavia periodicamente mostra una certa irresolutezza, sia contenutistica che formale (pensiamo alla insistita ripetitività e alla frammentazione di molti dialoghi, all'implacabile lentezza di ritmo sulla quale vengono orchestrate le scene). Questa ambigua oscillazione del senso - e del sentimento - contrasta (ma solo in apparenza) con la rigorosa tecnica registica kubrickiana (2), dove il formalismo estetico, la geometria dei quadri rivestono di un glaciale ordine il caos sotterraneo.

Immersi fino al collo nel massacrante gioco degli opposti del film i due attori - coniugi Kidman - Cruise seguono con duttilità le indicazioni del maestro, che li plasma nella creta di un'umanità parzialmente tipizzata e a volte ridicola, lei sopra le righe e addirittura fumettistica nella prima parte (specie nella lunga, fondamentale discussione con il marito in camera da letto); lui inespressivo quanto basta per mostrare lo straniamento di un uomo "senza qualità", smarrito in un ossessionante labirinto mentale affine a quello - fisico e metaforico insieme - in cui si dibatte Jack Torrance, un altro degli emblematici personaggi kubrickiani. Insieme Bill ed Alice rappresentano la Coppia, con la sua attuale crisi ed infelicità: sono due antieroi il cui viaggio nel paradosso dei sentimenti non finisce neppure troppo bene (comunque con minor danno per la seconda), con un "happy end" ancora una volta solo apparente; in fondo - come ci insegna la miglior narrativa dell'orrore - certi fantasmi possono sempre tornare, prima o poi.

In ultima analisi, "Eyes wide shut" può intendersi come il capitolo conclusivo (non un capolavoro, ma comunque degno di nota) di "una riflessione riguardante l'uomo del Ventesimo secolo, gettato su una barca senza timoniere, in un mare sconosciuto", come ebbe a dire Kubrick stesso a proposito dell'intera sua opera; il ritratto di un'umanità lacerata da dubbi e acuti fantasmi interiori, duale e irrisolta nella sua congenita fragilità. ("La vita continua, fino a quando non continua più": è una frase lapidaria di Zigler, il facoltoso (e ambiguo) amico di Bill. Chissà se Kubrick - morto nel sonno il 7 marzo 1999 - condivideva quest'affermazione: certo è che fatalmente (ma non è un tema nuovo nella cinematografia kubrickiana) il film è attraversato da un tenace quanto opprimente senso di morte. Morte che quando non è fisica è metaforica; è morte della gioia del sesso, del sentimento amoroso, della capacità di comunicazione di coppia e collettiva in una società anch'essa in evidente stato comatoso. E' morte e frantumazione dell'Io, di un'identità che il cosiddetto "progresso" pare averci fatto smarrire.

"Eyes wide shut" si configura insomma come un ultimo valzer lento, a volte con l'andamento di un minuetto, e con quella coscienza del tragico e dell'assurdo che - secondo Kubrick - contraddistinguono le nostre vite.

1. P. Detassis, "Eyes wide shut", in "Ciak" n.8, agosto 1999, pag. 23.
2. A proposito di tecnica registica, notiamo qui l'uso frequente dei carrelli a precedere.

clicca qui per leggere la RECENSIONE di Lorenzo De Nicola su Eyes Wide Shut (da Effettonotte magazine, novembre 1999)

 


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