Il cuore e la retorica: il cinema di Oliver Stone PDF 
Aldo Spiniello   

Affondare le mani e gli occhi nel cinema di Oliver Stone rischia di tramutarsi in un’avventura senza ritorno, in cui le ragioni della testa e quelle del cuore sfiorano continuamente un corto circuito irreversibile. Personaggio complesso e contraddittorio come pochi altri, Stone, prima di approdare dietro la macchina da presa, vive mille esperienze. Figlio di un broker di borsa di origine ebraica, Lou Silvertsein (ribattezzatosi poi Stone) e della francese Jacqueline Goddet, William Oliver fugge dagli studi universitari per imbarcarsi alla volta del Vietnam, dove parteciperà a quel conflitto/incubo che sarà centrale nei suoi film. Più di un anno sul campo di battaglia, ferite e atrocità, una medaglia al valore. Quando ritorna in patria Stone affronta il dramma del reduce, tra alcool e droghe, e un arresto per possesso di marijuana. Un cammino borderline che in realtà si rivela “normale” per un’intera generazione: è quella malattia segreta della grande America, che sarà il tormento del futuro regista.

La passione per il cinema porta Stone ad iscriversi all’University Film School di New York, dove si diploma agli inizi degli anni Settanta. L’esordio alla regia è del 1974, con Seizure, un horror low budget: un inizio di genere, che già rivela quell’attenzione per i codici dello spettacolo che sarà la costante e forse anche il limite del regista. Horror sarà anche il secondo film, La mano (1981), assurda e patologica storia di un fumettista (interpretato da Michael Caine) che perde la mano in un incidente, per poi scoprire che il suo “pezzo” mancante riesce a vivere autonomamente. Il film è tratto da un romanzo di Marc Brandel, e anche qui emerge un’altra tendenza tipica di Oliver Stone: quel suo rifarsi continuamente ad altre storie, reali o immaginarie, cronache, biografie o invenzioni narrative, con l’ambizione di ricostruire e rinarrare, attraverso di esse, la grande Storia. Un cinema che guarda da subito al passato, vuole essere attento al presente, ma sembra precludersi del tutto la possibilità di immaginare il futuro, ridefinendo le coordinate dell’immaginario. In ogni caso, è proprio con le “storie” che Stone, da sceneggiatore, ottiene i primi successi. Nel ’78 firma lo script di Fuga di mezzanotte (che racconta, guarda caso, la vera avventura di Billy Haies). Nel 1983 riadatta il mitico Scarface di Howard Hawks e offre a Brian De Palma un’immensa parabola di ascesa e caduta, altro specchio deformante del sogno americano. Poco dopo, l’incontro con Michael Cimino, in cerca di una rinascita dopo la meravigliosa catastrofe de I cancelli del cielo. I due riprendono un romanzo di Robert Daley e danno vita a L’anno del dragone. La scrittura densa e potente di Stone trova una magica consonanza con il cinema oltre ogni limite di Cimino, che fa esplodere la struttura del poliziesco per attingere alla tragedia di un individuo e di una nazione, costantemente costretta a ripensare la ragione dei suoi miti originari. Ne viene fuori un film letteralmente stra-ordinario, che vive di derive e deviazioni, come un cuore malato, che si contrae e si espande in una dolorosa aritmia, fino a sanguinare senza sosta.

Per Stanley White il Vietnam è un ferita da tener sepolta, ma che non può far a meno di riaprirsi a ogni inevitabile crisi. Per Oliver Stone, comunque, la strada è segnata. I tempi sono maturi per affrontare, da solo, l’ultimo grande fantasma del passato, personale e collettivo: la sporca guerra. Nel 1986 esce Platoon, che trionfa agli Oscar portando a casa quattro statuette, tra cui quella per il miglior film (indice di un consenso ambiguo). Ancor oggi amato dagli appassionati, Platoon in realtà comincia a svelare la grande contraddizione del cinema di Stone: da un lato l’ambizione titanica e polemica del narratore, dall’altro il sostanziale rispetto di un codice spettacolare profondamente mainstream. Lontano dal delirio ormai metafisico di Apocalypse Now o dalla lenta e dolorosa smisuratezza de Il cacciatore, il film, pur nella sua ricercata complessità, sembra precipitare su una visione del mondo intimamente duale, emblematicamente raffigurata dal contrasto tra il Sergente Grolin/Willem Dafoe e il Sgt. Barnes/Tom Berenger. È come se il cinema stesso vivesse e morisse di questo dualismo, per cui sguardo e parola non riescono più a trovarsi e completarsi. Se Stone vuole raccontare e restituire l’agonia del sogno americano, le sue immagini sembrano sempre conformarsi all’esatto punto focale di una visione ordinaria (che è uno dei pilastri di quel sogno), non riuscendo mai a forzare i limiti di una forma standard, preordinata, per ridivenire sostanza e sangue. Stone non tenta la rivoluzione, anzi il suo stile, film dopo film, risponde pienamente a mode e tendenze “normalizzatrici”, con il suo montaggio frenetico, il ritmo rapido, tutto cose e fatti, l’uso travolgente della musica. È quel che, ad esempio, accade con Wall Street (1987), che aspira a stravolgere dalle fondamenta l’inferno dell’economia rampante del periodo reaganiano, in nome di una vecchia America fatta di sudore e giustizia, ma si appiattisce subito sul ritratto di uno yuppie “ancora vivo”, che rispecchia a pieno forme e aspirazioni di gran parte del cinema anni Ottanta. E ancora, nel decennio successivo, film come Natural Born Killers (1994) e U-Turn (1997) appaiono, a loro volta, “costretti” a cavalcare le nuove onde di un cinema (come quello di Tarantino) che prova a ripensare l’immaginario e verso cui la visione di Stone mostra una consonanza più esterna che intimamente avvertita.

In realtà, il cuore profondo della poetica del regista newyorchese resta questo desiderio di un racconto che ambisca a rifare e quindi a svelare la Storia, a ricostruire attraverso il lato “nascosto” del passato (prossimo e remoto) e dei personaggi (veri) la complessità contraddittoria del contemporaneo. Da qui l’attenzione sempre maggiore per l’evento cruciale e le ferite sanguinanti della nazione (il Vietnam di Nato il 4 luglio e Tra cielo e terra, l’assassinio Kennedy di JFK – Un caso ancora aperto, il cancro dell’interventismo americano di Salvador), e, conseguenza estrema, per un biopic che sia punto d’incontro tra realtà dei fatti e interpretazione (The Doors, Nixon, W.), sino ad arrivare alle radici profonde dell’Occidente (Alexander) e alle forme del documentario “interventista” (Comandante, Persona non grata). E, film dopo film, si riconoscono le tracce di un’intima maturazione che arriva al suo compimento in Tra cielo e terra (1993), espressione di una visione del mondo che ormai trascende il semplice dualismo per attingere a una spiritualità più elevata e a una comprensione più partecipe dei drammi individuali e collettivi. Eppure, questa rinnovata profondità dell’uomo non sembra mai dar nuova vita al suo cinema. E proprio Tra cielo e terra, nelle sue dinamiche narrative “canoniche”, nella superficialità smaltata e artificiale delle immagini, continua a denunciare i limiti di un cineasta, che non riesce né a incontrare la purezza dei classici né, d’altro canto, a ripensarne le ragioni e a forzarne le forme. A parte rapide e folgoranti intuizioni, come JFK, che davvero si mostra come un dramma teorico in cui le immagini, cioè il riflesso del reale, sono tese alla ricostruzione di una verità che appare sempre frammentata e irraggiungibile. Per il resto l’occhio non è mai capace trasformare la Storia in Mito, cioè in un’espressione e un racconto universali, ma si ripiega sulle “piccole” storie individuali e non permette al cinema di liberarsi dal peso di un’impostazione ideologica e precostituita e di un procedimento a tesi che si rivela sfibrante.

Eppure, a ben guardare, va riconosciuto a Stone un coraggio di non poco conto e che rende spesso più drammatico quel conflitto, di cui si parlava, tra le ragioni della testa e quelle del cuore. Lo testimonia il fatto che, in quasi tutti i suoi film, il regista riesca a ritagliarsi lo spazio almeno di un’apparizione fugace. È come se Stone rivendicasse con orgoglio la sua capacità di non nascondersi e di stare sempre sul campo di battaglia, dentro il film, con una passione viscerale, che a volte rischia di far perdere coordinate e direzioni, ma che sa restituire un’emotività potente, il senso di una partecipazione viva e attiva alle storie e agli uomini. A tratti, tutto ciò emerge con una carica impressionante, una pressione insostenibile, soprattutto negli spazi claustrofobici, nelle situazioni senza via d’uscita, come le macerie opprimenti del World Trade Center, in quegli istanti lunghissimi in cui si condensa la vita intera. Così come si concentra lo spirito confuso e commovente di un regista, che non indietreggia mai di fronte al kitsch (Gesù con la bottiglia d’acqua) e alla retorica politica (il marine invasato), resta saldo sulle sue posizioni, ma sa prendersi il tempo per delineare e accarezzare figure e anime.

 


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