Italiana.doc del Torino Film Festival 2011 non ha rispettato le attese, forse. Da un lato va sottolineata la nota positiva per un gran ventaglio di documentari, notevolmente diversi uno dall’altro, per linguaggio, temi, metodi, ma dall’altro va ugualmente rimarcata l’impressione che siano mancate le opere forti, in un adeguamento degli autori al genere che solo in alcuni casi è stato “rielaborato” o “riscoperto”.
Per entrare nel vivo - e per smentire subito quello che abbiamo appena scritto - bisogna parlare di Un mito antropologico televisivo di Maria Helene Bertino, Dario Castelli e Alessandro Gagliardo: un patchwork di immagini tratte dall’archivio di una televisione privata siciliana tra gli anni 1991-1992. Le immagini usate e montate nel documentario sono quelle che la televisione non ha mai utilizzato: stacchi e dettagli, panoramiche, interviste “grezze”, momenti “vuoti” della realtà ma carichi di senso e di peso, proprio perché “vuoti”. Viene fuori un film ipnotico e magnetico, che incolla lo spettatore dentro un percorso sempre nuovo e sempre incerto, dove la storia di un paese siciliano si intreccia con la Storia d’Italia fra drammi privati e pubblici, fra scene post-sparatoria, funerali, polizie, feste e cori di bambini nelle scuole. Un mito antropologico televisivo è un blob-documentario, un film che sa unire il freddo linguaggio televisivo con quello più caldo ma anche più accogliente e misterioso del cinema. Una vera rivelazione, un film capace di raccontare con leggerezza, e al contempo di mostrare con ferocia la faccia dell’Italia di oggi.
Il premio però è andato a L’orogenesi, un confuso intreccio di parole, immagini e suoni di Caldwell Lever. Il film ripercorre epoche e miti attraversando il centro Italia e richiamandosi al genere “film di montaggio” o film-saggio poetico, ma rischia sempre di cadere nell’estetizzazione del visibile fine a se stesso. Ferrhotel di Mariangela Barbanente (premio Ucca Venti Città) è un interessante viaggio dentro una comunità somala di immigrati che vivono dentro un vecchio albergo di Bari, occupato e autogestito. Il film racconta diversi drammi con una costruzione rigorosa ma mai artefatta, e si avvicina alla realtà dell’immigrato con lo sguardo dell’osservatore curioso e discreto. Curioso e indiscreto è invece lo sguardo di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti nel film Il castello, che documenta un anno di “backstage” nell’aeroporto di Linate. Freddi controlli e vite sospese vengono raccontate con uno sguardo imparziale e al tempo stesso attento, fino ad indagare quelle realtà a noi nascoste, come ad esempio i controlli sui cibi importati, o sui viaggiatori “sospetti”.
Bad Weather di Giovanni Giommi e El arbor de las fresas di Simone Rapisarda Casanova sono due film che potremmo considerare “etnografici” per la documentazione di mondi lontani, con riflessioni e sguardi su vite sospese aldilà degli oceani. Bad Weather racconta la vita di donne prostitute nel Bangladesh in un insolito isola-bordello sospeso tra cielo e acque, mentre il film di Rapisarda Casanova recupera il materiale (puro e crudele nella propria violenta bellezza) girato anni prima in un villaggio cubano, ora scomparso a causa di un nubifragio. (S)comparse di Antonio Tibaldi non va oltre il backstage dell’ultimo film di Crialese (Terraferma), mentre Land of Joy di Laura Lazzarin perlustra il veneto contemporaneo alla ricerca di una identità molteplice e caotica, che rischia di confondere lo spettatore. Si tratta di una prova comunque interessante per uno sguardo che, con distacco e rigore, racconta un pezzo dell’Italia di oggi. Infine, Freakbeat di Luca Pastore costruisce con intelligenza filmica una storia che in realtà è solo un pretesto per parlare di generazioni, con il bellissimo finale che sovrappone 3 età diverse dell’Italia (gli anziani nonni, Freak Antoni e la figlia adolescente) nella stessa immagine sulle note di 29 settembre dell’Equipe 84, del genere “di come il documentario sconfina nella fiction e viceversa”.
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