Speciale TORINO CITTA' DEL CINEMA - Torino nel cinema: l'identità imperfetta PDF 
di Paolo Bertetto   

C'è una retorica della città che il cinema riprende e sviluppa in forme macroscopiche. La città è la variabilità infinita degli stimoli, la simultaneità delle determinazioni, la velocità dell'evento, la molteplicità delle energie, la compresenza dell'eterogeneo. È un sistema dì funzionalità e dì fascinazioni che presenta analogie significative con il meccanismo di produzione di emozionalità proprio del cinema.

Le grandi metropoli della modernità costituiscono lo sfondo logico delle avventure del cinema, l'oggettivazione materiale delle sue istanze fondanti. New York e Los Angeles subentrano progressivamente alle metropoli europee della modernità e dell'avanguardia, a Parigi, a Berlino, per costruire un immenso tessute di eterogeneità energetiche e seduttive in cui si dispongono le articolazioni infinite della narratività filmica.
Per il cinema l'orizzonte urbano è un insieme di intensità, un quadro mobile di forze visive, dì figure dinamiche, di entità comunicative. E' una partitura di potenzialità visive ed emozionali, un sistema di attrazioni, un patrimonio da utilizzare e da rielaborare. È un materiale rappresentativo, un segno da interpretare e da manipolare, un possibile qualificante estetico.

Nella messa in scena cinematografica può diventare una sorta di anomala "musica del paesaggio" (per usare una formula eisensteniana), magari aritmica, dissonante, atonale. Può avere una forza diversa nell'ordine della rappresentazione e dell'espressione, dell'emozione e dello spettacolo. O può al contrario caratterizzarsi sul piano dell'anonimità e della serialità.
Le firme di oggettivazione della città nel cinema sono quindi estremamente varie, non sono necessariamente connesse alla sua struttura di metropoli moderna, e possono al contrario sviluppare altre figurazioni e altre retoriche.

Il cinema italiano in particolare ha lavorato più sul pittoresco di Roma e magari di Napoli che sulla modernità della città. Le metropoli italiane dello sviluppo urbano e dell'industrializzazione, come Torino e Milano, hanno suscitato un interesse minore nel cinema e la loro presenza nella rappresentazione filmica è molto ridotta e quasi sempre esattamente finalizzata. Non a caso il cinema italiano dal secondo dopoguerra a oggi ha operata più sulla rappresentazione della bellezza del paesaggio naturale, sulle architetture del passato e sugli spazi di colore, costruendo immagini omogenee alla tradizione iconografico-turistica più ovvia. Le cartoline di Roma hanno costituito il décor preferenziale del cinema italiano, realizzando un'integrazione funzionale delle componenti paesaggistiche nell'ordine specifico della spettacolarità nazionale.
In questo quadro è logico che Roma - non solo per questioni di economia produttiva - rappresenti la dominante essenziale del visibile filmico italiano e che Torino sia al contrario una presenza secondaria e quantitativamente poco significativa La figura simbolica di Torino nell'orizzonte delle città italiane è infatti caratterizzata dalla preminenza nella produttività industriale e nella tecnologia: una determinazione strutturale piuttosto lontana dai modelli di spettacolo e di narratività propri del cinema italiano.

Così Torino - come Milano - è rimasta sostanzialmente estranea alla costruzione dell'immagine dell'Italia che il nostro cinema ha realizzato. E forse sino alla sequenza di deambulazione di Jeanne Moreau nella periferia milanese ne La Notte, nessuna immagine di spazi e di architetture ipermoderne era comparsa nel cinema italiano.
D'altronde le stesse caratteristiche urbane e architettoniche di Torino hanno in parte giustificato la disattenzione del nostro cinema. Torino infatti, mentre ha organizzata le strutture e le infrastrutture necessarie dell'industrializzazione, non ha invece realizzato uno sviluppo parallelo delle forme architettoniche della modernità. Se Torino ha quindi un'immagine esplicita di città produttiva, non ha invece un' immagine altrettanto esplicita di città della modernità. Inoltre, anche se Torino ha inventato il grande spettacolo cinematografico con Cabiria non è mai stata identificata come la città del moderno e del futuro e tanto meno come la città dello spettacolo: non a caso i futuristi esaltavano al contrario "la grande Milano tradizionale e futurista" come metropoli italiana della modernità e della complessità. Così Torino resta estranea - con l'unica eccezione di Omicron - alle non numerose immagini della modernità che il cinema italiano ha realizzato e perde quindi la sua chance più significativa per diventare una figura, strutturata e pienamente riconoscibile, dell'immaginario filmico.
Perde cioè la possibilità di inscriversi con una identità determinata e filmicamente produttiva nel visibile cinematografico e resta una variabile fondamentalmente generica del paesaggio cinematografico urbano.

Così, nelle realizzazioni filmiche, Torino non diventa mai uno spazio formale, in cui tutto il visibile è strutturato in funzione compositiva, nè uno spazio organico, in cui le strutture dell'oggetto si fondono con quelle del testo: resta essenzialmente un insieme di determinazioni spaziali neutre, non eccessivamente caratterizzate, parzialmente plasmabili, che possono diventare funzionali alle differenti esigenze narrative. In fondo, alla Torino prodotta dal cinema manca un lavoro sistematico di trasformazione delle immagini urbane in spazio visivo costruito, in quadro strutturato e composito: manca un'attività e un impegno specifici di formalizzazione e di mise en scéne.
Al massimo le immagini di Torino sono inserite in intenzionamenti espressivi determinati, in processualità definite, legate alle articolazioni particolari della diegesi. Questa carenza di caratteri forti spiega l'episodicità delle immagini di Torino nel cinema, la loro frammentarietà che spesso ma non sempre vuol dire anodinia.

L'opzione per un tournage a Torino quando non è legata a esigenze economiche delle case di produzione torinesi è infatti determinata essenzialmente dalle fonti letterarie prescelte o dall'intenzione di rappresentare il mondo della fabbrica o la nuova realtà dell'immigrazione. Solo di rado intervengono motivazioni di tipo spettacolare o di figuratività specifica dell'immagine, o considerazioni di atmosfera o di tonalità particolari del visibile, magari in funzione di situazioni narrative singolari.
Pavese, Bersezio, De Amicis, Arpino, Tacchetti, Fruttero e Lucentini richiedono le immagini di una città determinata che deve essere Torino ma che al tempo stesso pare quasi sfuggire a più precise e più profonde caratterizzazioni. E infatti, mentre i romanzi ripresi sono spesso impregnati di una qualità particolare, di un senso e di un'atmosfera prodotti dall'intreccio organico tra una città e un insieme di rapporti e di stili particolari, i film sembrano illustrare la relazione eventi-città in termini più anonimi, più generici, meno motivati. Come se l'esperienza vissuta calata nel romanzo diventasse nel cinema mero riporto, semplice ripetizione non riattivata attraverso la scoperta di una qualità e di uno spirito particolari dello spazio urbani.

In Le Amiche (1955) come in Passione d'amore (1981), in La donna della domenica (1975)come in Amore e ginnastica (1973) o nell'inizio di Profumo di donna (1974), Torino è una città poco individualizzata, segnata magari da una dimensione provinciale, visualizzata più da strutture architettoniche di impianto seicentesco a ottocentesco, che da costruzioni novecentesche. E` uno spazio che puó contenere storie intimistiche, problemi d'anima, incontri e drammi esistenziali, più che relazioni segnate dalla dimensione metropolitana. È uno spazio estraneo al dinamismo del moderno, che sottolinea e sembra quasi favorire percorsi e rapporti tradizionali: un paesaggio urbano non aggressivo, connotato in forme leggere, non ridondanti, non spettacolari. Sembra quasi uno spazio accettato e subìto dai registi per mera fedeltà alla fonte letteraria, più che uno spazio ricercato intenzionalmente dal cinema per le sue qualità visive intrinseche. È più la Torino storica, ottocentesca, che la Torino moderna. E' la retorica della città "un po' vecchiotta, provinciale" (secondo le parole di Gozzano), di un mondo chiuso che pare arrestarsi alle soglie del moderno e trattenere i suoi abitanti all'interno di relazioni più tradizionali e magari meno ricche sul piano delle intensità esistenziali e delle invenzioni di comportamento: una retorica della particolarità ottocentesca di Torino, città sabauda e pedemontana, "ch'a la tristezza dì una stampa antica", aliena al dinamismo, ripiegata sulla ripetizione di formule e di modelli del passato.

Film come Le miserie del signor Travet (Soldati, 1946), Amore e ginnastica (D'Amico) e in parte Passione d'amore (Scola) sviluppano proprio questo modello, non tanto perché rievocano la Torino dell'Ottocento, quanto perché simbolizzano la dimensione ottocentesca dl Torino come la sua forma essenziale.

Anche in Le Amiche, che pure presenta caratteri strutturali assolutamente diversi ed è un film dì ambiente contemporaneo, Torino è uno spazio sostanzialmente neutro, che fa da sfondo sobrio ai giochi dei sentimenti, alle passioni private piccole e meno piccole dei personaggi. E' un luogo grigio, anonimo, che inquadra vite banali, piccole ricerche di felicità negate. E' un paesaggio non espressivo, privo di intensità visive ed emozionali, ma che proprio per la sua banalità urbana risulta assolutamente omogeneo al mondo sentimentale ed esistenziale descritto: un gruppo di amiche che lavora nella moda e intreccia relazioni sentimentali ora riuscite ora drammattiche con giovani di diversa estrazione sociale. È uno spazio direttamente integrato ai caratteri specifici dell'immaginario del film: uno spazio funzionale non solo alla rappresentazione, ma anche alle sue qualità particolari, uno spazio che nella sua antiespressività diventa per antifrasi espressivo. Antonioni ha sempre sviluppato nel suo cinema una ricerca sulla qualità determinata del visibile e sulle avventure dello sguardo, trasformando spazi di scarsa caratterizzazione in paesaggi espressivi, eidetici, essi stessi attivi nella produzione del senso. Nel lavoro filmico di Antonioni il paesaggio del delta del Po, della bassa Padana, come la periferia moderna di Milano, o gli edifici e l'urbanistica dell'EUR a Roma sono diventati strutture produttive capaci insieme di qualificare la figuratività dell'immagine, di costruire il pathos specifico e di definire più organicamente l'orizzonte intellettuale del film.
L'operazione di Le Amiche è in fondo un pò meno complessa perché la ricerca dell'omogeneità tra dimensione dell'immaginario e qualità dello spazio è meno ricca e radicale sia sul piano figurativo che su quello eidetico: ma resta la retorica dello spazio-Torino come città di incroci privati, e di relazioni sentimentali difficili, città che limita i dinamismi esistenziali e le trasformazioni e richiude le persone in una rete invisibile di frustrazioni.

[...]

Gli elementi di qualificazione sociale e urbana di Torino sostanzialmente assenti nel cinema degli anni del neorealismo sono presenti nelle commedie d'autore di ambiente torinese degli anni sessanta e settanta, e magari in alcuni esempi molto italiani di film noir di serie B.
I nuovi soggetti sociali legati all'immigrazione sono infatti diventati personaggi importanti di un cinema dì commedia che si propone di registrare la realtà che cambia.
Torino diventa, insieme a Milano, la città cinematografica dell'immigrazione, lo spazio di una difficile integrazione. Oltre a Il frigorifero di Monicelli (episodio di Le coppie 1971), al pamphlet Trevico-Torino (1973) di Scola e a un noir all'italiana come Torino nera (1972) di Lizzani, Mimì metallurgico ferito nell'onore (1972) di Lina Wertmuller è la descrizione di un nuovo soggetto sociale contraddittorio e al tempo stesso l'analisi comparata di realtà regionali produttive e di strutture urbane spaziali differenti. La Wertmuller costruisce una storia di opposizioni e di contrasti che investono non solo l'universo del narrato ma anche i modi della rappresentazione. Nel film Torino è la città dello sviluppo economico e di rapporti sociali complessi ma lineari, della produttività organizzata e della lotta politica: è la città del lavoro, e anche di relazioni private più libere. Ma è insieme una città che la rappresentazione cinematografica della Wertmuller vede solo attraverso un filtro che annebbia l'immagine, la rende meno netta. L'impostazione particolare della fotografia degli esterni torinesi connota subiti la città in modo specifico, assumendo quasi una valenza eidetica. Il filtro grigio nella ripresa, la nebbia apparente, sono anche determinazioni semantiche che sembrano qualificare esplicitamente il carattere della città.
D'altronde nella prima immagine a Torino Giannini-Mimi appare al centro di un incrocio tra ampi viali nella periferia torinese, presumibilmente corso Agnelli e corso Giambone, nella nebbia, in un paesaggio urbano abbastanza desolato. II traffico lento, gli alberi spogli, i larghi corsi, le stesse riprese da lontano rendono il personaggio ancora più piccolo e abbandonato. E le aree urbane non sono neppure connotate sul piano del dinamismo ma sono spazi di solitudine e di smarrimento, di difficoltà di rapporti e di abbandono, di disagio e di freddezza: la metropoli produttiva sembra il luogo della perdita di sé, come il luogo dell'isolamento. Magari è poi vero che Mimì saprà crearsi all'interno della città una serie dì relazioni intersoggettive nuove, conflittuali, ma più positive delle relazioni sociali cui era costretto in Sicilia: ma la dimensione dell'isolamente resta il nodo più intenso della rappresentazione. Porta Palazzo come i viali di Mirafiori o il Valentino sono luoghi del lavoro subalterno e della distanza, di rapporti problematici e del grigio. Come se una mancanza radicale qualificasse le realtà stessa di Torino e la relazione del soggetto con la città. Come se Torino fosse una città che filtra ogni evento, ogni rapporto e pare quasi distanziarlo nell'orizzonte dell'inautentico. Sono retoriche della rappresentazione, ovviamente, e quindi interpretazioni, che tuttavia suggeriscono, più di altre determinazioni una lettura tendenziosa e singolare della città.

Con radicalità più aspra, ma anche con minore articolazione, Lizzani costruisce nello stesso anno, con un film noir all'italiana come Torino nera, l'immagine di una città di miseria, di piccola mafia, di zone di degrado e di case fatiscenti, una città abitata soltanto da immigrati e dominata dal sopruso e dalla violenza, una città-ghetto non dissimile dalle città del sud, privata dei quartieri più eleganti e tradizionali, e in cui anche lo stadio e la stazione sono luoghi di pericolo.
Ad una più specifica ma anche più generica immagine di Torino come territorio di un forte conflitto sociale fanno invece pensare film come Omicron o come Trevico-Torino che in chiavi diverse e con differente efficacia, eleggono Torino a figura simbolica del rapporto di produzione capitalistico e dello scontro di classe.

Omicron girato da Gregoretti nel 1963 in una chiave di fantascienza povera, senza effetti speciali, realizza una lettura ideologica dell'organizzazione della società contemporanea, con evidenti schematizzazioni didattiche. Inviato da Marte sulla Terra, Omicron, il protagonista, si trova a confronto con una città industriale modello come Torino-Subalpia. Le strutture della fabbrica, il lavoro operaio finalmente documentato, gli spazi aperti di periferia, i capannoni-deposito costituiscono le immagini di una città industriale qualunque ed esemplare nello stesso tempo. Gregoretti introduce poi nella rappresentazione della città una qualificazione ulteriore, cercando di presentare Subalpia come lo spazio urbano della modernità grazie al ricorso sistematico alle architetture appena costruite di Italia '61. II palazzo Vela appare fin dalla prima inquadratura del film per definire il paesaggio urbano con particolari disegni architettonici di vetro e cemento. E poi, durante tutto il film, ricompaiono le strutture di Italia '61, dal tracciato sopraelevalo della monorotaia al Palazzo del Lavoro, ad altre inquadrature di palazzo Vela, ripresa anche dall'interno con la sua immensa vetrata. Certo non sono strutture architettoniche paragonabili alle costruzioni delle grandi metropoli della modernità, ma sono pur sempre elementi, immagini che di fronte al panorama architettonico italiano così fortemente conservatore - fanno sistema e possono presentare Torino-Subalpia come la metropoli per eccellenza dell' industrializzazione e dello sviluppo. Così in Omicron Torino diventa un modello generale, assumendo un'identità esemplare e per questa via quasi perde il proprio profilo più articolato, ridefinisce e e schematizza la propria identità. In Omicron Torino diventa la città-fabbrica, la città catena di montaggio, la città dormitorio dei manuali della sociologia dell'industrializzazione, ma anche la città di una micro-innovazione architettonica.

Lo iato fra la Torino un pò provinciale e sabauda delle messe in scena tratte da fonti letterarie e la Torino schematica della città-fabbrica è naturalmente forte. E questa divaricazione radicale è il segno di una bipolarità, di una schizofrenia, di una opposizione di identità che forse non riguardano solo i modelli interpretativi, ma la struttura stessa della città.
D'altra parte, al di là dell'alternativa città sabauda / città fabbrica (o città dell'immigrazione), illustrata dai discorsi del cinema come della letteratura e del giornalismo la scrittura filmica propone anche altre immagini meno schematiche, meno riconducibili a una formula e più legate a opzioni espressive determinate. Sono letture di spazi urbani orientate in un'ottica particolare, elaborazioni scenografiche che producono tonalità visive nuove, costruzioni di intensità anomale. E' per un verso il caso di Dario Argento, che nella sua rivisitazione horror del whodunit classico sa sfruttare spazi urbani manipolati e non manipolati di Torino, in chiave fortemente emozionale e spettacolarmente aggressiva. E' poi, per un altro verso, la ricerca differente e articolata, ora interna, ora personale o allucinatoria realizzata in Torino e su Torino dal cinema indipendente, underground e d'artista torinese, che è un capitolo tutt'altro che insignificante della storia dell'altro cinema italiano.

Argento gira a a Torino varie sequenze del Gatto a nove code (1971) e di Quattro mosche di velluto grigio (1991), nonchè Profondo rosso (1975) scoprendo progressivamente le potenziali valenze terrorizzanti e demoniache delle architetture e degli spazi urbani torinesi. Argento utilizza sia esterni che interni torinesi riconoscibili, legati ad architetture particolari per costruire percorsi di tensione emotiva e di thrilling. La sua rappresentazione, che si avvale, com'è ovvio, soprattutto delle ore notturne, sa ora potenziare l'inquietante nascosto in strutture e spazi apparentemente neutri, legati a modelli razionalistici come ad esempio gli esterni nella zona della Galleria d'Arte Moderna, nel Gatto a nove code, ora costruire uno spazio fittizio sommando immagini di Torino, Milano e Roma in Quattro mosche di velluto grigio, ora trasformare in un arabesco visivo sempre più allucinante l'architettura esterna e interna di un capolavoro del liberty torinese come è la palazzina Scott in Profondo rosso. La palazzina Scott è insieme scandagliata dalla macchina da prese come in un documentario di architettura e trasformata nel luogo particolare di un thriller, nello spazio segreto dì un avvenimento tragico, che pare nascondere la violenza par farla riemergere con più tensione. Anche nella sala barocca del teatro Carignano, Argento insegue una celata presenze malefica invisibile che si sposta all'interno del teatro creando suspence e turbamenti grazie al lavoro specifico del linguaggio cinematografico. Ma è forse soprattutto nella messa in scena delle sequenze girate in piazza CLN che Argento realizza una articolazione di interventi nel profilmico e di opzioni filmiche, capace di trasformare un luogo urbano in uno spazio espressivo. Argento introduce nella scenografia urbana della piazza (ricostruita nel 1935 su un progetto di Piacentini) un bar a vetri molto illuminato ai confini dei portici. Per il resto, sfrutta la scenografia architettonica preesistente, facendo delle strutture geometriche imponenti del novecentismo piacentiniano una dimensione cupa ed enigmatica, dominata dalla suspense e dalla paura e legata al primo omicidio del film. Le stesse statue classicistiche di Baglioni diventano un elemento inquietante del paesaggio urbano, una presenza quasi irragionevole che dà una connotazione enigmatica agli eventi messi in scnea. Il buio e la penombra dominanti interagiscono con le strutture architettoniche squadrate. Argento non realizza giochi di ombre, non sfrutta irregolarità delle superfici, ma al contrario dà alle mura di granito verde una tonalità particolare di tensione, di oppressione: l'astratta geometria imponente del novecentismo segna insieme la distanza del dramma e il suo scenario innaturale e suggestivo.

Così nei film di Argento Torino diventa lo spazio del male, il décor adeguato all'espressione di una volontà omicida. L'immagine di Torino magica o di Torino satanica, diffusa dalla pubblicistica esoterica e poi dal giornalismo, è rielaborata da Argento in una chiave dì thrilling, che non cancella il demoniaco, ma al contrario lo riproduce filmicamente in forme nuove.

[...]

Un'ambiguità di altro tipo segna invece il rapporto con la città realizzato dal cinema indipendente e d'artista torinese: un cinema che ha spesso cercato nel tessuto torinese le immagini di un'avventura creativa in cui lo spazio urbano è sussunto in fantasie anomale, riplasmato in una ricerca sperimentale o, ancora, riportato al suo grado zero. Tonino De Bernardi passa dalla figurazione di uno spazio anomalo all'utilizzazione dei luoghi della normalità cittadina come sfondo di confessioni e di avventure dell'interiorità. In Il mostro verde (1966) realizzato con Paolo Menzio nel periodo di massima influenza in Italia dell'underground americano, una lunga sequenza è girata in un' ampia discarica torinese. È uno spazio degradato e allucinante in cui De Bernardi e Menzio situano alcune azioni di improbabile violenza urbana, visitate palesemente in sovratono. La metropoli è diventata un agglomerato di rifiuti, di oggetti consumati e scartati, di residui inutili, una grande distesa di immondizie, è diventata il proprio scarto, l'insieme dei propri rifiuti. Nei film più recenti invece (e soprattutto in Donne, un film di dodici ore del 1980-1982) il paesaggio torinese è integrato alla confessione del personaggio, l'accompagna, ora costituendone il quadro di naturale oggettivazione, l'ambiente che avvolge la sua avventura verbale, più spesso diventandone invece il contrappunto aspro, il contrasto negativo io cui si inserisce. Le inquadrature della città, delle piazze, delle strade, dei quartieri segnano i contorni di una città più brutta che anonima, ingrigita e disumanizzata dal lavoro e dalla precarietà delle relazioni: una città ancora una volta ostile.

Ancora più attento alla scoperta delle immagini variegate della città e alle infinite varianti della piccola comédie humaine popolare e anche mediocre, è invece il cinema di Daniele Segre, che forse con più pervicacia di tutti insegue i volti e gli spazi della Torino periferica, della banale mediocrità metropolitana. Con una crudeltà morbida, con un'attenzione dilatata, Segre perlustra gli spazi desolati dei quartieri popolari, i casermoni dormitorio, le aree dell'immigrazione cogliendo i rituali e le manie dei nuovi soggetti collettivi. Soprattutto nella serie Torino cronaca (1981-1982) delinea, al di là delle microstorie dei personaggi, lo spazio urbano che li circonda e li tiene prigionieri: una città che si è agglutinata caoticamente, in cui le case sembrano essersi assommate le une alle altre sino a schiacciare gli abitanti.
Completamente diversa è invece la figura e la funzione di Torino nel cinema di un artista come Ugo Nespolo. Nei suoi film la città è lo spazio del gioco, della sperimentazione ludica, dei meccanismi della scomposizione ironica del vivente nella sarabanda new-dada di Il cavaliere dal lieto volto. Le immagini della città diventano un mero segno intercambiabile, privato della propria particolarità e riplasmato, reso veicolo di divertimento grazie alla tecnica dello scatto singolo e al lavoro di montaggio. Altre immagini di divertimento compaiono in Il Supermaschio, in cui cerimoniali ambigui si mescolano con la descrizione del Carnevale in piazza Vittorio Veneto e dello spettacolo popolare delle giostre. E ancora in Buongiorno Michelangelo Nespolo insegue Pistoletto che attraversa con un'enorme palla di cartone le vie del centro di Torino sottraendo gli spazi urbani all'abituale funzionalità e piegandoli al gioco anche assurdo e alla libertà dell'invenzione. Così nel cinema di Nespolo Torino diventa uno spazio di gioco, di microdivertimento, di fruibilità differente, come se lo sguardo e la pratica dell'artista potessero riscattare il mondo dal suo grigiore e dalla sua pragmaticità per farlo diventare un meccanismo inutile e ludico, libero e dissennato.
Uno spazio fortemente formalizzato è anche quello selezionato e costruito da Alberto Signetto In Weltgenie (1988), singolare riscrittura filmica di una grande poesia di Gottfried Benn dedicata alla follia di Nietzsche a Torino (Turin, I). Nel film, risolto con un unico carrello in avanti di quattro minuti, le ampie superfici di un enorme spazio al primo piano del Lingotto diventano il luogo di una concentrazione simbolica degli eventi e delle situazioni torinesi legati alla tragedia di Nietzsche evocata da Benn. E allora l'enorme spazio della fabbrica scandito dai pilastri geometricamente disposti, diventa una rappresentazione simbolica di tutto il tessuto della città, come un immenso vuoto di rapporti, e insieme una estensione di equivalenze in cui la metropoli finisce per somigliare al suo azzeramento.

La relativa indeterminazione dell'immagine di Torino spiega d'altra parte anche il numero assai ridotto di film non italiani girati a Torino. Per un film come Colpo all'italiana (Italian job) di Collinson la scelta di Torino come luogo dell'azione risulta in fondo scarsamente motivata. Torino è lo spazio di una rapina difficile e di un lungo e caotico inseguimento nel traffico cittadino: un insieme di elementi dalla caratterizzazione molto limitata, che finiscono per diventare pure equivalenze urbane.
Più significativa è invece la scelta di Rouch che con L'enigma (1985) realizza una singolare operazione di un film inventato e girato a Torino con un gruppo di giovani collaboratori, e in diretto rapporto con la strutture e il patrimonio culturale e simbolico della città. Rouch elabora un percorso articolato nello spazio urbano, tentando di delineare e interpretare le immagini di Torino e gli elementi di enigmaticità che sembrano attraversarla. Torino è per Rouch una città che oscilla tra la sua immagine concreta e le sue stratificazioni simboliche ed esoteriche accumulatesi nel tempo. In L'enigma Torino è ad un tempo la città della metafisica di De Chirico e la città magica (di cui la matematica esoterica della Mole Antonelliana è l'immagine architettonica più rilevante), come è la città della follia di Nietzsche. Una città misteriosa, in cui la razionalità e la magia, la logica pragmatica e l'irrazionale si intrecciano inestricabilmente.

E proprio l'eterogeneità e l'ambiguità delle immagini di Torino sono forse l'aspetto più significativo delle rappresentazioni della città prodotte dal cinema: un insieme di determinazioni molteplici e contraddittorie che se non giunge a definire una forma forte, al tempo stesso non si chiude mai in una ipostatizzazione rigida, ma presenta una somma problematica di figure diverse. Nei film su Torino non c'è in fondo nessuna operazione metodica di riconduzione di tutte le componenti urbane a una visione coerente, né la costituzione di uno spazio organico o di uno spazio formale ipersignificanti. Gli elementi visivi della città tendono piuttosto a costruire percorsi difficili, identità deboli che da film a film si contrappongono e magari si smentiscono attraversando uno spazio semantico indubbiamente articolato e sfacettato. E infine la figurazione di Torino realizzata dal cinema risulta più una sequenza differenziata di interrogazioni e di ambiguità che un insieme articolato di risposte, più un percorso di identità difficili che un quadro coerente di immagini organiche.

(estratti di Paolo Bertetto, Torino nel cinema: l'identità imperfetta, in L. Mazza - C. Olmo (a cura di), Architettura e urbanistica a Torino 1945-1990, Torino, Allemandi, 1991)

 


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