Tre giorni per la verità PDF 
Gianmarco Zanrè   

ImageÈ un cinema di occhi e spunti quello di Sean Penn dall’altro lato della macchina da presa, di silenzi e frasi appena sussurrate, celate oltre il muro di un grido, o di un silenzio. Per la sua opera seconda Sean sceglie la via più complessa e coraggiosa, quella del doppio ruolo di scrittore e regista e, in qualche modo, protagonista, scegliendo di confrontarsi, per gettare ancor più benzina sul fuoco, con due pezzi da novanta quali Jack Nicholson e Anjelica Houston. Penn però è un tipo duro, e, almeno artisticamente, non teme certo la sfida, riuscendo nel difficile intento di incanalare l’energia del sempre istrionico Nicholson in un personaggio che pare scritto per il regista stesso, coadiuvato nell’operazione dalla sempre bravissima figlia di John Houston che, splendidamente sotto le righe, si cuce addosso un ritratto che è bilanciamento perfetto del suo partner di scena. L’appoggio ai protagonisti è poi fornito da due comprimari di lunga data, interpretati da David Morse - mai così convincente - e Robin Wright, la cui centellinata presenza nel corso della pellicola limita perlomeno i danni di una prestazione certo non all’altezza della Jenny di Forrest Gump.
 
A quest’opera che pare tutta attoriale si aggiunga poi il valore fornito dal grandissimo lavoro di Vilmos Zsigmond alla fotografia, da una colonna sonora di prim’ordine, e da una regia che bilancia bene intimismo ed improvvise esplosioni emozionali. Sean Penn, infatti, sia in fase di scrittura che nel corso del processo prettamente narrativo, ha il merito di affrontare - partendo da un avvenimento doloroso e dai rimorsi che ne conseguono - il tema della solitudine osservandola da tre diverse angolazioni, senza prendere mai una parte, ma piuttosto mettendo lo spettatore di fronte a differenti punti di vista: quello del colpevole e dei genitori della vittima, che, attraverso scelte radicalmente opposte, decidono entrambi di far fronte alla perdita negandone l’esistenza, ponendosi il primo dinanzi alla perdizione e i secondi a ciò che resta della famiglia, rappresentata dagli altri due figli. John Booth (Morse), più di cinque anni di carcere alle spalle in seguito all’incidente che ha causato la morte della figlia di Freddy e Mary Gale (Nicholson e la Houston), torna al mondo senza aver cancellato il rimorso del ricordo della bambina che lui stesso ha investito in stato d’ebbrezza e che, prima di morire, si è scusata per non aver guardato bene prima di attraversare la strada, ritenendosi un uomo “che è stato solo in grado di causare infelicità”. Freddy Gale, benestante, uomo di vita per vocazione e desiderio, affoga nei recessi di un dolore infinito che si manifesta nella sua stessa incapacità di visitare la tomba della figlia, e ammetterne così la morte, giurando vendetta nei confronti di Booth e dandogli tre giorni di vita prima di un’esecuzione che lui stesso è intenzionato (?) a portare a termine per riportare la pace non soltanto nella sua esistenza, ma anche in quella dell’ex moglie Mary, che affoga invece la sua tristezza nel silenzio raccolto di un gruppo di sostegno, dimenticando il passato attraverso la costruzione di una famiglia solo apparentemente solida, dove i due figli avuti da Freddy chiamano papà il suo secondo marito. Il confronto fra i tre personaggi, anche quando non avviene direttamente, è una danza di sguardi e silenzi, fondato sulle occasioni mancate - tolte, perdute - di una vita che pare avanzare per sottrazione, in perfetta sintonia con la gestione della sceneggiatura, che, dalla prima alla seconda parte della pellicola, trasforma i dialoghi in sensazioni, riducendo all’osso le interazioni tra i personaggi, come nella scena che vede l’amante di Freddy rimproverarlo gettando addosso al protagonista la rabbia di un’altra occasione mancata - quella di una storia -, mentre quest’ultimo, ubriaco, sta già dormendo.

ImageUn progetto coraggioso, dunque, riflessivo, ben diretto e realizzato. Eppure mai del tutto convincente, a tratti verboso, se non addirittura retorico. Ma cosa può mutare un parere che parte da un’opinione certo positiva degli ingredienti di questo dramma per poi giungere a una posizione tanto critica? Detto, fatto: il problema di questa pellicola di Sean Penn, così come una delle sue più grandi qualità, risiede nella sua non partecipazione, o forse nella sua partecipazione eccessiva. Penn, dirigendo attori nelle vesti di personaggi da lui scritti e che per lui stesso paiono essere stati tratteggiati, confonde infatti il suo punto di vista con gli sguardi che s’incrociano di colpevole e vittima e con la loro inversione di ruolo, creando non poche difficoltà nello spettatore che, per curiosità o semplice indagine psicologica, voglia scoprire l’anelito che ha guidato la mano dell’autore nel portare sullo schermo una storia così amara e, almeno sulla carta, sentita. E si giunge al secondo, grande difetto dell’opera: quanto è veramente sentita la vicenda dall’acclamato Sean Penn? È un viaggio nei meandri della solitudine e del rimorso alla ricerca della strada per il loro superamento - come pare suggerire Robin Wright nella sua battuta più significativa -, o un furbo escamotage per un’elite intellettuale che vive sperando di poter ripercorrere i passi, e rinverdire i fasti, di quella New Hollywood che nel corso degli anni ’70 scosse il panorama cinematografico d’oltreoceano abbattendo le ultime mura del monopolio delle grandi produzioni degli Studios?

ImageA ogni spettatore la sua interpretazione, rimanendo pur certi del fatto che il talento di Sean Penn, da una parte e dall’altra della macchina da presa, sia indubbio e, se coltivato nel rispetto e nell’esempio dei suoi maestri (Clint Eastwood su tutti), potrebbe riservare piacevoli sorprese nel corso del tempo. Se, infatti, la maturazione avverrà nella sua interezza, quando sarà il momento giusto, per Penn giungerà il lungometraggio che potrebbe a tutti gli effetti portarlo - lui che non nasconde di preferire una carriera come regista a quella di attore - nell’olimpo dei narratori americani dei prossimi decenni. E, guardandosi indietro, potrà considerare questo Tre giorni per la verità un piccolo passo, sia falso oppure no, all’interno di un percorso più lungo e complesso che l’avrà portato a non pensare di dover necessariamente stupire, o fare bella mostra del suo talento, per raccontare una grande storia. La retorica, cinematografica o più generalmente artistica, nasce spesso dal desiderio di essere i migliori.


TITOLO ORIGINALE: The Crossing Guard; REGIA: Sean Penn; SCENEGGIATURA: Sean Penn; FOTOGRAFIA: Vilmos Zsigmond; MONTAGGIO: Jay Cassidy; MUSICA: Jack Nitzsche; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1995; DURATA: 111 min.

 


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