La seconda guerra civile americana: gli stati parcellizzati e confusi di Joe Dante PDF 
Piervittorio Vitori   

“Se vuoi lavorare nell’informazione, pensa ai disastri ferroviari. Rottami di treni elettronici, solo che i treni sono persone come Farley e il Presidente. Noi non dobbiamo fare altro che metterli sullo stesso binario e lasciare che si corrano incontro”. È la deontologia secondo Mel Burgess, cinico produttore esecutivo dell’emittente NewsNet, sui cui monitor si susseguono le immagini della crisi che porterà ad una (effimera) seconda guerra civile americana.

È questo il titolo del film girato nel 1997 da Joe Dante e scritto da Martyn Burke (già specialista nel portare sullo schermo la politica proponendola secondo varie declinazioni: il thriller Power Play, l’action fantascientifico The Last Chase, il documentario The KGB Connection, il demenziale Top Secret!). Il regista di Gremlins, Salto nel buio e Matinée preconizza un prossimo futuro in cui il governatore populista dell’Idaho, Jim Farley, per cavalcare i malumori dell’America profonda decide di chiudere le frontiere del suo Stato proprio quando, a seguito di un conflitto nucleare tra India e Pakistan, un gruppo di orfani asiatici dovrebbe atterrarvi per trovare rifugio. Consigliata dal lobbista e consulente d’immagine Jack Buchan, la Casa Bianca reagisce con un ultimatum di 67 ore e mezza, la cui scadenza è pensata per non intralciare la messa in onda della soap opera più seguita (ne andrebbe del voto delle donne alle imminenti presidenziali). Da quest’ultimo dettaglio, non fosse bastata la citazione iniziale, è evidente il ruolo svolto nella vicenda dalla televisione, ed è paradossale che l’opera, pur passata al Festival di Venezia ed uscita in sala in diversi Paesi europei, sia una produzione HBO, realizzata in origine per il piccolo schermo. Un ruolo, quello dei media, ben diverso da quello ricoperto ad esempio nel più celebre Sesso e potere, pellicola coeva e tematicamente accostabile a La seconda guerra civile americana. Il film diretto da Barry Levinson (che del film di Dante, guarda un po’, è produttore esecutivo) parla anch’esso, infatti, di manipolazione dell’informazione, ma lo fa in maniera più lineare e mettendo in atto una dinamica più semplice. Lì è il potere che, per riprendere l’immagine che dà il titolo originale al film (Wag the Dog), “scodinzola il cane” dei media. Qui invece, come rileva il recensore di Variety (1), ognuno degli attori in scena ha una sua agenda, a partire proprio dalla redazione di NewsNet.

La scena iniziale è in questo senso emblematica, non solo per quanto riguarda il plot al suo livello più immediato, ma anche per quanto concerne la struttura dell’opera. Una struttura che, configurandosi come riflesso del contenuto proposto, diventa essa stessa palesemente un veicolo di senso. In apertura, subito dopo i titoli di testa, un piano-sequenza ci accompagna alla scoperta degli studios dell’emittente, dove l’adrenalinico Mel si agita come un burattinaio intento a reggere i fili degli eventi che si stanno dipanando in luoghi diversi. Si evidenza subito, attraverso l’insistenza sui monitor della redazione (da cui discende molta parte del montaggio del film), la collocazione spaziale dei diversi attori: Farley al Campidoglio di Boise, il Presidente alla Casa Bianca, gli orfani sull’aeroplano, più tardi le truppe federali e la Guardia Nazionale dell’Idaho al confine con lo Utah. Date queste premesse, il film inizia a sviluppare una doppia dinamica di parcellizzazione, che da una parte, nella sua manifestazione più clamorosa,  porterà alla frammentazione dell’Unione, dall’altra, in maniera più sottile, alle spaccature che si verificheranno in ognuno dei campi considerati. Se Farley patisce fin da subito una sorta di schizofrenia (la propugnata politica anti-immigrazione si scontra con la sua passione per la reporter chicana Cristina Fernandez e per le tortillas), il Presidente entrerà in conflitto con Buchan e nell’accampamento dell’esercito soldati statunitensi apriranno il fuoco su loro commilitoni. Né l’attore-informazione, presunto burattinaio, sarà immune da questa dinamica. L’errore di Mel sta nel fatto che i protagonisti della vicenda non sono, come egli crede, dei treni in rotta di collisione, ma piuttosto (prendendo a prestito l’immagine da De Gregori) dei bufali: la loro strada non è segnata, ma possono invece scartare di lato, cadere ed abbattersi nella redazione della tv, portando al suo interno il caos che c’è oltre le pareti. Quando il produttore, illudendosi di poter segnare ancora un confine tra interno ed esterno, causa ed effetto, sbotta: “Siamo qua dentro, mica là fuori!”, è proprio Caroline, la giovane assistente cui aveva rivolto la frase citata in apertura, a ribattere: “Mel, forse non te ne rendi conto … ormai è là fuori ovunque.”

Dal momento che la parcellizzazione non potrebbe spiegare da sola la deriva catastrofica presa dagli eventi, ci sono poi altri due fattori, strettamente legati tra loro, che concorrono a scatenare il dramma: la confusione e l’immagine. C’è un richiamo – anche qui strutturale – che funge da anticipazione di ciò che accadrà: lo si ha quando l’anchorman Matthew propone a Mel di riesumare lo storico inno umanitario We are the World a commento della tragedia degli orfani pakistani, arrivando a suggerire l’opportunità di un morphing tra i due video, con i volti dei cantanti montati sui corpi dei bambini o viceversa. Pur se in termini diversi, è un processo analogo a quello che impegna per tutta la durata della narrazione il personaggio del Presidente, un uomo (non a caso senza nome) costantemente teso a sovrapporre la propria figura a quella dei suoi predecessori, a costo di spacciare per citazioni di Eisenhower frasi in realtà elaborate su due piedi dai solerti autisti (tutti appartenenti a minoranze etniche) della Casa Bianca. Ma poco importa, perché tanto tutti ci cascano. Compreso Mel, che segue ammirato il discorso da un monitor: il manipolatore viene a sua volta manipolato, l’ingannatore ingannato, in una confusione (appunto) di ruoli possibile proprio perché, a monte di tutto, è l’immagine ciò che conta, come ripete con sicumera l’esperto Jack Buchan. La fattualità è sconfitta sia dall’immagine del mondo (i rifugiati ripresi con un obbiettivo piuttosto che con un altro, gli ufficiali che in tv appaiono “nobili” mentre in realtà si insultano …) che dal mondo dell’immagine (la fiction Figli, figli miei detta l’agenda alla politica). E le poche persone capaci di leggere ed interpretare correttamente le immagini si ritrovano ai margini: il tecnico Godfrey, in grado di gestire preziosi rilevatori a infrarossi ma relegato in uno scantinato della redazione, e, soprattutto, l’anziano giornalista Jim Kalla, in grado di decifrare le mostrine degli uomini della Guardia Nazionale e capire come al fianco dell’Idaho si siano schierati anche combattenti di altri Stati.

Jim, grazie in primis all’utilizzo della voce off (e poi al bonario carisma di James Earl Jones, ottimo come il resto del cast), si propone chiaramente come coscienza critica della storia. Curiosamente, anch’egli è caratterizzato nel segno della confusione, ma è una confusione di tipo positivo: quella di chi non rinnega il melting pot etnico nel nome di una frammentazione utilitaristica, come si vede nella scena del dialogo con il leader dei “Fratelli musulmani”, ma anzi lo rivendica come elemento di coesione e pacificazione sociale. Reduce delle marce per i diritti civili e sposato ad una donna ebrea, Jim è l’unico che ad un’effettiva conoscenza del passato unisce una chiara tensione verso il futuro (lo dimostra il discorso conclusivo, con l’umanità vista come opera d’arte incompleta). Entrambi elementi, questi, assenti negli altri personaggi. Il passato è oggetto di confusione (ancora una volta), come quando il Presidente scambia Franklin Roosevelt con l’omonimo Theodore, o di distorsione, come nel caso del tecnico di NewsNet convinto che ad Alamo Davy Crockett avesse sconfitto i Messicani. Del futuro meglio non parlare, giacché non ci sarebbe nulla da dire. Se è vero infatti, come detto, che ogni personaggio ha la sua agenda, è vero anche che ognuna di esse è priva di lungimiranza ed autoriferita. Mel si preoccupa di fare ascolto piuttosto che di informare; il Presidente di non sfigurare nel confronto con i predecessori piuttosto che di governare davvero; Farley della sua amante piuttosto che del suo Stato; la responsabile di “Give to the children” del ritorno d’immagine piuttosto che dell’incolumità dei profughi; gli ufficiali delle loro beghe personali piuttosto che dell’esito del confronto … “Ciascuno preferisce pensare ad altro, ascoltare altro, vedere altro rispetto a ciò che realmente conta; così che la combinazione di tanti piccoli errori e difetti di percezione personali conduce a risultati storici catastrofici” (2).

È forse proprio questo il lato più amaro e disperante della farsa ordita da Dante e da Burke: il ritratto impietoso di una nazione irrimediabilmente incapace di individuare la giusta direzione, sviata com’è dall’individualismo e dalla ricerca del piccolo profitto. Può darsi allora, come sostiene Christopher Varney (3), che l’accumulo di personaggi e situazioni sia il limite del film, soprattutto se confrontato con l’asciuttezza e la linearità del citato Sesso e potere. D’altra parte è però difficile non vedere un chiaro disegno degli autori dietro al composito mosaico di un popolo estremamente conservatore per convenienza più che per convinzione (Farley che passa dall’essere liberal allo slogan “L’America come dovrebbe essere”, il governatore cinese del Rhode Island che vuole chiudere a sua volta le frontiere a nuove ondate di Cinesi …) ossessivamente attaccato a ciò che ha (come le famiglie dei paramilitari, lanciarazzi in casa, sfiducia nel governo e timore di perdere il posto di lavoro) e senza idee credibili per gestire una crisi e, più in generale, per progettare il futuro.

Alla luce di questa descrizione, non può stupire troppo il fatto che una dozzina d’anni fa il clima evocato dal film abbia portato molti, in Italia, ad elaborare un paragone con le vicende di casa nostra. Ora, invece, per una curiosa coincidenza temporale, le fresche notizie provenienti da oltre Atlantico ci permettono di ricontestualizzare meglio la vicenda. Secondo un recente studio dell’Onu, infatti, entro quarant’anni la popolazione Usa aumenterà di 100 milioni (con un incremento del 33% rispetto ai 300 milioni attuali), e ciò quasi interamente grazie all’immigrazione e all’elevato tasso di natalità delle minoranze etniche già residenti sul territorio (4). E se c’è chi, come Farley nel film, cavalca l’aspetto potenzialmente allarmante di questi dati (in Arizona è passata per referendum una dura legge anti-clandestini, peraltro già portata in tribunale dal Ministero della Giustizia per incostituzionalità), la speranza poggia sulla ragionevole prospettiva che altri attori si comportino diversamente rispetto ai loro omologhi di celluloide. Al posto della NewsNet e di Mel Burgess c’è la Fox di Rupert Murdoch, che per una volta appare propenso ad offrire una sponda al governo federale nel segno di un no a possibili derive xenofobe. E, soprattutto, al posto di quell’imbelle Presidente che sembra “la réclame del dopobarba” ce n’è uno che riassume in sé il melting pot in maniera analoga a quella del personaggio di Jim Kalla. C’è da sperare che Barack Obama, che ha dichiarato la sua apertura a politiche di legalizzazione, ne condivida anche l’umanità e la lungimiranza.

Note:
(1) cfr. Ray Richmond, The Second Civil War (www.variety.com, 14/03/1997)
(2) Enrico Danesi, My Own Private Idaho, Duel n. 54, 10/97, pag. 24
(3) cfr. Christopher Varney, The Second Civil War (www.filmthreat.com, 19/10/2000)
(4) cfr. Federico Rampini, USA. 100 milioni di nuovi americani, la Repubblica, 01/07/2010, pag. 33-35

TITOLO ORIGINALE: The Second Civil War; REGIA: Joe Dante; SCENEGGIATURA: Martyn Burke; FOTOGRAFIA: Mac Ahlberg; MONTAGGIO: Marshall Harvey; MUSICA: Hummie Mann; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1997; DURATA: 97 min.

 


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