Cous cous PDF 
Viviana Eramo   

ImageIl regista Abdellatif  Kechiche, già autore dell’apprezzato La schivata, torna a raccontarci in modo straordinario il mondo degli arabi emigrati in Francia. Difficile capire se il merito stia nelle sue stesse origini, che lo portano a conoscere così da vicino ciò che narra, o se invece stia tutto in una lezione del neorealismo assimilata e rielaborata egregiamente, o ancora nella capacità di raccontare con leggerezza di toni, ma non di intenti, quel crogiolo di scontri e incontri di culture che è il nostro mondo. A Venezia Cous cous ha stregato tutti, compresa la giuria, che gli ha consegnato il premio speciale, riservando però a Lussuria di Ang Lee il Leone d’oro. E il film poi è diventato quel che si dice il vincitore morale dell’ultimo festival, suscitando polemiche tra chi lo avrebbe voluto veder trionfare. Vittoria mutilata o meno, siamo convinti che il film si meriti tutta l’attenzione e la curiosità che questo “caso” ha suscitato.

Siamo nel marsigliese. Il sessantunenne Slimane (Habib Boufares), arabo immigrato in Francia, viene licenziato dal cantiere navale nel quale lavorava da 35 anni. Decide allora di restaurare un vecchio barcone che giace abbandonato nel porto per farlo diventare un ristorante specializzato in cous cous. Lo aiuteranno nell’impresa tutti i componenti della sua famiglia allargata: la sua prima moglie, con tutti i figli, e la sua compagna attuale con la figlia sedicenne Rym (Hafsia  Herzi). I colori nitidi e brillanti della fotografia sono i colori di una comunità  che non rinuncia al proprio folklore, pur adattandosi a un contesto che originariamente non le appartiene. Kechiche lascia da parte gli stereotipi e i cliché e si attacca ai personaggi, li insegue senza giudicarli (neorealismo docet), ce ne presenta la quotidianità in tutte le sue contraddizioni e le sue debolezze. Gli attori sono non professionisti, ma la sceneggiatura è stata scritta a tavolino. Risultato? Dialoghi lunghissimi, a volte interminabili, molto lontani dai botta e risposta fulminei da commedia americana. Qui il tempo è come diluito e assomiglia a quello reale, come nella scena capolavoro di questo film: il pranzo familiare. Le macchine da presa sono incollate agli ospiti della lunga tavola ricolma di cibo, a registrarne le espressioni, le risate che scoprono bocconi pieni e a sottolinearne gli interventi. Si parla di tutto e niente, come sempre durante questi incontri familiari. Kechiche prende di forza lo spettatore e lo catapulta a questo tavolo come se fosse anch’egli un invitato, indugia sulle mani e sulle bocche avide di cous cous scoprendone i colori e la fattura. Il cibo qui è protagonista, come collante, depositario di cultura e tradizione, cibo come sinonimo di salute. Non è un caso che la bella Hafsia Herzi, ingrassata di 15 chili per questo ruolo, dica: ”Ho la pancia piena, di sicuro dormo bene stasera”. È un inno a quello che il cibo rappresenta in queste culture e che invece nella nostra fa sempre più fatica a raffigurare, coltivatrice e dispensatrice di una moda anoressica che solo negli ultimi tempi pare venga rinnegata. Il cibo come bene di valore primario, che costa lavoro e fatica: si pensi ai viaggi di Slimane per consegnare quel pesce argentato di cui abbiamo visto le interiora, e si pensi ai lunghi preparativi per il cous cous che riuniscono in una stessa stanza tutta una famiglia. Lo stesso cibo che tutti aspettano la sera dell’inaugurazione del ristorante e che tarderà ad arrivare.

Buttato fuori dal cantiere di sempre, Slimane decide che non è ancora ora di arrendersi e prova a realizzare un sogno. Ma aprire un ‘attività non è facile, figurarsi per un immigrato. Nessuno lo dice mai apertamente, ma il razzismo strisciante nelle battute dei burocrati e della gente che conta arriva forte e chiaro. La stessa gente che verrà invitata nel barcone messo a nuovo, pronta a degustare gratis le meraviglie che la tradizione araba può offrire. Questo film non è un pamphlet sulle difficoltà degli immigrati a convivere in un paese diverso da quello di origine, è più uno scatto fotografico da reportage capace di ritrarre una verità di superficie in cui affiorano qui e là  verità  più profonde. Kechiche mette in bocca ai suoi personaggi dialoghi di vita semplice, quotidiana, quasi conversazioni da condominio. Si parla dei prezzi dei pannolini, si prende in giro uno dei generi di Slimane perchè non sa una parola di arabo, si grida al malocchio come responsabile di tutto ciò che succede o non succede. Si innescano meccanismi di pettegolezzi e invidie nelle due famiglie del nostro protagonista, che tiene sempre gli occhi bassi e un’espressione silente. Non sono eroi questi personaggi, né vittime né paladini. È gente comune. Kechiche riesce nella complicata impresa di tingere di universale le piccole storie di questi uomini, pur rimanendo strettamente ancorato al quotidiano e al suo lavorio. E lo fa anche e soprattutto attraverso i corpi. I visi sono sempre ripresi da vicino, in un rapporto epidermico coi soggetti. La prova più eclatante è nella danza finale in cui Rym si lancerà per distogliere l’attenzione degli invitati dall’assenza del cous cous (e che le è valso il premio a Venezia come miglior attrice emergente). Il corpo qui è ebbro di sensualità e insieme di fatica. I tremori, il ventre rotondo, le forme accentuate e quello sforzo negli occhi, lo stesso affanno del patrigno che rincorre i tre ragazzini che gli han preso il motorino. L’ultima parte del film è un crescendo di suspense e aspettativa, fino al finale sospeso, che fa rimanere a bocca asciutta tutti gli invitati, spettatori compresi. Solo il barbone oggetto di carità da parte della prima moglie di Slimane ha potuto deliziarsi col cous cous. Il destino ha davvero il senso dell’umorismo, e pure il regista.

Consigliato a chi ha voglia di qualcosa di diverso. 


TITOLO ORIGINALE: La graine et le mulet; REGIA: Abdel Kechiche; SCENEGGIATURA: Abdel Kechiche; FOTOGRAFIA: Lubomir Bakchev; MONTAGGIO: Ghalya Lacroix; PRODUZIONE: Francia; ANNO: 2007; DURATA: 151 min.

 


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