Habemus Papam: il più grande Papa della storia moderna PDF 
Umberto Ledda   

Della sovrabbondanza di Nanni Moretti nei film di Nanni Moretti, prima di Habemus Papam
Forse Moretti alla fine si è accorto che la presenza di Nanni Moretti nei suoi film era diventata pesante. Soprattutto dopo che aveva smesso di usare ironia su sé stesso e sul suo alter ego Apicella. All’inizio, un inizio che è durato fin verso il 1995, il suo cinema era una satira efficace proprio perché rivolta principalmente verso sé stesso, verso il suo universo culturale: l’autocompiacimento di quel cinema teneva benissimo perché conteneva al suo interno la satira dell’autocompiacimento dello stesso sistema intellettuale della sinistra altoborghese. Poi quel sarcasmo surreale era un po’ scemato, Moretti aveva iniziato a parlare di sé senza mettere in dubbio il personaggio che metteva in scena e lasciando che l’ironia andasse solo verso l’esterno. Era diventato non tanto un regista che si prende sul serio (Moretti ha sempre preso sul serio le cose che faceva, dev’essere nel suo carattere), era diventato un regista che prende sul serio la sua maschera, che originariamente aveva creato proprio per ironizzarci su, per svelarla in quanto maschera, per demistificarla. Insomma, aveva iniziato a far un po’ di casino a distinguere fra il suo alter ego Apicella e il Nanni Moretti personaggio dei suoi film. I risultati iniziavano ad essere un po’ irritanti. Poi deve averlo intuito, chissà. Per Il Caimano si è messo da parte, ma sembrava un mettersi da parte strumentale, solo per aleggiare sul film come un’ombra e poi comparire nella famosissima scena finale (che rimane comunque la scena migliore di un film che per il resto sembrava un ripiegamento verso la tradizione del cinema italiano: non che sia un peccato, però Moretti era evidentemente più bravo a far quello che faceva prima, per cui dispiaceva). Anche dopo aver tralasciato l’autobiografia reale o immaginaria, Moretti sembrava avviato al tipico percorso di vecchiaia dei grandi registi: film di rappresentanza, premi e coppe di rappresentanza, recensioni positive di rappresentanza, di quelle recensioni che si capisce che il film è così così, però è un grande regista, la zampata ogni tanto la butta ancora e poi siamo tutti affezionati, facciamo finta che sia bello davvero e chiusa così. Questo a partire da Aprile e fino a Il Caimano. Poi deve essere di nuovo successo qualcosa.

Habemus Papam è bello, è uno di quei film che non ha nemmeno senso cercare di inventarsi salti mortali per difenderlo, è di nuovo una di quelle cose che le guardi e non pensi poi a come farai per dire che funziona. Parentesi: c’è un po’ di pregiudizio sull’aggettivo bello legato alle opere artistiche, in generale. Dire che un film o un libro sono belli è generalmente considerata una cosa un po’ plebea, come se non si avessero gli strumenti per dire qualcosa di più accurato, preciso o profondo. Eppure ci sono cose che sono belle, che richiedono l’aggettivo più semplice. Habemus Papam sarà anche sociologicamente lucido e umanamente abissale, ma di fatto è bello. Fa piacere guardarlo, semplicemente. Chiusa parentesi. Rimanendo in campo morettiano, Habemus Papam è forse il suo migliore film di sempre, anche grazie alla caratteristica (non colta dai media) di spazzare via quei residui di militanza politica di sinistra su cui Moretti si era formato, e che fino a poco tempo fa avevano limitato non tanto la sua analisi sociale, quanto proprio il target: se lo filavano solo quelli di sinistra, tutto aveva un taglio più ombelicale, familiare, con dei confini precisi che non si potevano superare. Habemus Papam per la prima volta nella carriera morettiana potrebbe essere guardato da uno spettatore estraneo al ceto ideologico di Moretti (alta borghesia di sinistra, benestante, più o meno il target di Che tempo che fa e Repubblica, diciamo), senza che si senta fuori posto, a casa d’altri: c’è, sì, il personaggio di Moretti ateo, liberal e nevrotico come al solito (irritante e compiaciuto nell’autocritica come ai tempi migliori), ma è solo uno dei personaggi, non la lente che osserva tutto il resto. Oltre ad essere narrativamente pretestuoso: senza di lui il film comunicherebbe esattamente le stesse cose, al più perderebbe qualche scena surreale, per cui se uno odia Moretti può comodamente saltare le sue scene e il succo del film rimane al suo posto. Insomma, Moretti era riuscito a fare un film finalmente bipartisan proprio parlando del Papa, un film che poteva piacere anche a un pubblico di destra, a patto di non pensare in partenza che si tratta della porcheria di un comunista che sputa sul Papa. Questo in un mondo ideale. Nel mondo reale i media di destra hanno attaccato alla cieca e alla fine anche Habemus Papam se lo guardano e lo guarderanno  soltanto quelli di sinistra. Ma questo comunque non è colpa di Moretti.

Anticlericalismo, ateismo, agnosticismo, eccetera ...
Sì, nel film di Moretti c’è il Papa. E questo Papa, grande vilipendio, è ritratto come un essere umano e ha reazioni umane, prima fra tutte la debolezza, o la forza, del gran rifiuto, del dubbio di fronte a qualcosa di troppo grande. Apparentemente, quindi, sembra il solito film di Moretti che parla da sinistra e trancia giudizi sarcastici sui vessilli del conservatorismo, primo fra tutti il clero e il suo maggior rappresentante. E infatti i media hanno deciso che era il solito Moretti che faceva la predica sugli affari degli altri (Habemus Papam è uno di quei film di cui si parla più prima che dopo l’uscita nelle sale, ed è sempre un male perché poi si finisce col fare confronti cretini fra la storia che si vede e quella che ci si era figurati nella testa, che non esiste). Ma l’anticlericalismo di Moretti si ferma a dire che anche il Papa è umano. Difficile dire il contrario nel Ventunesimo secolo, in effetti. Ma non è solo il Papa, sono anche i cardinali. E la loro rappresentazione è forse sminuente se si parte dalla concezione di un drappello di venerabili e ieratici vecchi che hanno abdicato dall’umanità e dai difetti per farsi servitori di Dio, pura meccanica della religione. I cardinali di Moretti sono dei vecchi con passioni e difetti da vecchi. Ma se si guardano le cose dal punto di vista del realismo, la figura che ci fanno è tutt’altro che negativa. Sono vecchi bonari e di una saggezza dispettosa, immuni da altri difetti che non sarebbe stato strano riscontrare: la volontà di potere, la competizione, il calcolo, la battaglia per il dominio del branco. Sono difettosi se confrontati con la perfezione iperuranica che dovrebbero rappresentare; perfino idealizzati se comparati con la realtà della natura umana, di cui, fede o non fede, volenti o nolenti, fanno parte.

Un qualsiasi cattolico dotato di un minimo di conoscenza dei suoi simili dovrebbe considerare il favore fatto da Moretti alla Chiesa: per amore di un’atmosfera fra il surreale e il fiabesco, ha idealizzato i cardinali, rendendoli dei buoni vecchi pieni di carità, al massimo un po’ svagati, ma vicini, umani, di un cattolicesimo forse un po’ infantile ma radioso. L’anticlericalismo, se proprio dev’esserci, non è a priori, ma è consequenziale allo spunto di base: la crisi di un Papa che rinuncia al mandato divino perché non ce la fa è la crisi di un sistema che non ha trovato una strategia sostenibile per adeguarsi ai tempi complessi e sovraesposti del Ventunesimo secolo; è rimasto vittima della sovraesposizione mediatica e contemporaneamente indietro rispetto alla realtà dei tempi. Una posizione che non solo non mette in dubbio i fondamenti su cui si fonda il clero, ma non mette nemmeno in dubbio la struttura del clero, semplicemente ne esplora una debolezza possibile in un mondo che è diventato incasinato un po’ per tutti: sembra il discorso di un cristiano che suggerisce gentilmente che qualcosa non va, piuttosto che uno strale infuocato che dice che tutto fa schifo. Ma forse i laici non possono suggerire che qualcosa non va, è come criticare il piatto che mangiano gli altri (il che in effetti è molto da Moretti, che però non è mai stato così rispettoso). Così come c’è poco contro il clero, così c’è poco contro Dio. Anzi, c’è poco Dio. Tutti i discorsi sulla fede, Moretti li mette in chiaro fin dall’inizio con uno scambio di battute. Il neo-Papa: “Lei crede in Dio?”, e lo psichiatra più bravo di tutti che dovrebbe aiutarlo: “No”. Il neo-Papa (con un mezzo sorriso gentile): “Peccato”. Poi di Dio non si parla più, discorso chiuso, non è il tema del film. E il Papa non ha nessuna crisi di fede. Il suo crollo non è questione di fede, il discorso è meravigliosamente umano. Dio rimane inesplorato dal film, meraviglioso catalizzatore di serenità in chi crede in lui, che esista o meno. Dio è solo il simbolo di qualcosa di troppo grande e di troppo alieno alle logiche che regolano i suoi rappresentanti. E infatti il pensiero che sembra scorrere nel Papa Melville dall’inizio alla fine è la sensazione che sia un gesto di grande arroganza quello di porsi subito al di sotto di lui, con la responsabilità di guidare e salvare l’umanità intera.

La fede
Hanno detto che Moretti non ha capito nulla di quello che è la vita di un uomo di Chiesa, soprattutto ai piani alti della gerarchia, dove, si suppone, la vicinanza con Dio è maggiore e maggiore è il legame. Hanno detto che Moretti, da non credente, non può capire che cosa sia la fede. La prima affermazione è probabilmente vera, anche se non sembra affatto che Habemus Papam pretenda di capire qualcosa che in realtà non ha afferrato. Semplicemente, il discorso è un altro, e infatti la rappresentazione fiabesca dei cardinali sembra messa lì apposta per dire che qui non si parla di verosimiglianza sociologica nella rappresentazione di un alto uomo di Chiesa. Il discorso è, ovviamente, quello della responsabilità e della fragilità. È da questo che sembra venire la scelta del Papa come protagonista. Il Papato rappresenta una specie di responsabilità senza potere: un capo di stato il cui stato sono le anime di miliardi di persone, uno stato astratto, sfuggente, pesantissimo. Caricarsi sulle spalle milioni e milioni di anime, farsi carico della loro salvezza: responsabilità ben maggiore di quella di un qualsiasi capo di stato, perché spirituale, assoluta e trascendente, e non pragmatica.

Il fatto che Moretti, da ateo, non possa capire che cosa sia la fede è probabilmente vera solo in parte. Lo sguardo morettiano sul suo Papa è lo sguardo di uno che sa di che cosa si sta parlando. La serenità e la pace negli occhi di Melville (anche durante i punti più cupi della sua crisi o durante le sue sfuriate) sono un segno inequivocabile. Moretti capisce che cos’è la fede, capisce che cosa può dare a un uomo. La cosa che sembra davvero non capire, o non accettare, sono i codici simbolici della fede, la dottrina, il linguaggio perfettamente strutturato che dovrebbe sorreggere la fede. Quello che Moretti sembra davvero non capire, e che quindi non può trasmettere al suo Papa, è come, ad esempio, dopo l’elezione del conclave, effettuata da umani, qualcosa di divino entri d’ufficio nell’anima papale in una consustanziazione di fatto, sostenendolo e aiutandolo nel compito terribile. I cardinali glielo ripetono e straripetono, ma niente, la cosa non lo rassicura. È evidente che Moretti comprende e rispetta la fede, ma è altrettanto evidente che non riesce a fare a meno di pensare che alcune espressioni di questa fede sfocino in una forma superstiziosa che non fa onore alla fede stessa. E in questo senso, sì, il papa che Moretti mette in scena è di rara inverosimiglianza, come se avesse la fede, ma facesse a meno della dottrina e della liturgia.

Il più grande papa della storia moderna
Fregandosene della verosimiglianza, Moretti ha scelto un cattolico primitivo come Papa: una psicologia che nel mondo reale difficilmente scalerebbe i gradini della gerarchia. Il suo è il cattolicesimo vecchissimo stile, un cattolicesimo istintivo e di sostanza, con poche sottigliezze. Un cardinale estremamente semplice, che solo l’approccio fiabesco riesce a rendere verosimile al conclave. Un Papa che non sa recitare la parte del Papa con tutte le sue complessità e le sue mosse e contromosse mediatiche, con le sue scelte a doppio taglio, con la sua sedicente infallibilità messa di fronte a una nuvola di scelte precise e delicate. Un Papa che sa, semplicemente, essere buono e caritatevole e comprensivo, come da precetto evangelico. Un cristiano di fatto, ma non nella teoria, che appare aliena alla sua figura, così come appaiono aliene a lui tutte le strategie necessarie per tirare innanzi dopo il primo Papa mediatico, Giovanni Paolo II. In altre parole: Papa Melville è un esempio e non un condottiero. La questione, molto laica, che sta alla base di un problema del genere è: il Papa, cioè una guida spirituale e non politica, deve essere un esempio o un condottiero? Il suo è un ruolo particolare, la politica non dovrebbe riguardarlo. Dovrebbe essere figura di Cristo e esempio di cristianità al massimo grado. Da questo punto di vista Melville è il migliore Papa possibile, fatto di uno sguardo che da solo lascia trasparire la bellezza della fede, uno sguardo che potrebbe mettere un po’ di dubbio perfino nel non credente e indebolire la sua razionalità. Per tutto il resto è un completo inetto. Tutte le strategie di marketing, l’attrezzatura mediatica, gli mancano. Non dovrebbero servire a un Papa, e invece servono, nel mondo attuale. Che a Moretti il punto stia a cuore è evidente da un milione di segni, a cominciare dall’attenzione continua all’esposizione mediatica, televisioni e giornalisti e commentatori che intervengono dall’inizio alla fine del film ad analizzare ogni singola espressione e comunicazione del Vaticano (e che vanno in crisi di fronte a questo imprevisto inaudito e devastante, questo evento senza motivi e senza scopo).

Il mondo attuale è un mondo in cui l’elezione del Papa è preda dei bookmaker, sondata, iper-ragionata, un mondo in cui, per sopravvivere, occorre avere un’innata predisposizione per il marketing (gli studi preliminari per lo stemma papale che vengono mostrati a Melville, in una scena che inevitabilmente finisce col somigliare alla parodia del briefing di un’agenzia pubblicitaria). Un Papa come quello interpretato da Piccoli finisce con l’essere del tutto incompatibile con la necessità del mondo odierno. Se uno è in grado di ascoltare e di comprendere e di perdonare l’altro, difficilmente sarà un così perfetto gestore e stratega della propria immagine, e nemmeno potrà accettare che la cura della propria immagine mediatica sia prioritaria. Il Papa e la Chiesa, per Moretti, sembrano quasi escludersi a vicenda. Il mondo cattolico ha bisogno di una guida che sappia traghettare le nave cristiana attraverso tempi alieni e quasi inconcepibili, ha bisogno di un condottiero dal timone saldo, un guerriero della comunicazione spirituale. Melville è solo un buon cristiano, forse il migliore esempio di cattolico che si possa immaginare, e allora non può davvero fare il Papa. L’unica possibilità è negare, mandare a monte le strategie, aprire una crisi non soltanto più in sé stesso, ma nello stesso mondo dei credenti, che ne ha davvero bisogno, di una crisi. Forse è un peccato che quella di Moretti, in fondo, sia solo una fiaba.

 


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