Proprio nel momento in cui la guerra di religione per eccellenza, quella tra israeliani e palestinesi, torna drammaticamente ad occupare le pagine della cronaca estera, a Berlino viene premiato Bloody Sunday un'opera basata sugli eventi di una maledetta domenica di trent'anni fa che sancì l'inizio della recrudescenza di un altro conflitto sanguinoso: quello tra cattolici e protestanti nello sfortunato territorio dell'Irlanda del Nord.
Autore di un film così coraggioso e difficile è Paul Greengrass, realizzatore anche della sceneggiatura, che affronta il massacro perpetrato dall'esercito inglese sulla folla di manifestanti riunitasi il 30 gennaio 1972 nella piccola cittadina di Derry con uno stile personale ed efficace.
In maniera intelligente sfrutta un fattore fondamentale, e cioè che la maggior parte del pubblico che sta assistendo alla visione del suo film è a conoscenza della conclusione; una sorta di focalizzazione spettatoriale portata all'eccesso. Il regista pertanto fa scattare un conto alla rovescia, un crescendo emotivo al quale corrisponde una tensione che permea la visione fin dalle prime inquadrature, divenendo sempre più oppressiva e soffocante. Al tempo stesso questo procedimento ridimensiona in maniera sostanziale proprio il pathos della scena del massacro. L'ineluttabilità dell'evento a cui si assiste, oltre a sottolineare la tragedia, prende anche le distanze dai facili toni lacrimevoli in cui questa pellicola poteva incappare.
Per aumentare la drammaticità della messa in scena, Greengrass opta per la camera a mano che segue in maniera insistente i propri personaggi su quello che si trasformerà in un vero e proprio campo di battaglia. Le inquadrature, rese glaciali dall'ottima fotografia di Ivan Strasburg, sono in una continua vibrazione che trova il suo apice durante lo svolgersi del corteo, momento nel quale spesso si presentano al limite della "leggibilità". Per aumentare la connotazione bellica dell'evento il regista segue la manifestazione dal quartier generale inglese, aumentando il senso della battaglia. Quella che lo spettatore vive in prima persona è l'azione militare di un esercito equipaggiato di tutto punto su un gruppo di manifestanti disarmati. Una soluzione che si rifà a tutta una tradizione del cinema bellico e che trova il suo rimando più prossimo in Black Hawk Down di Ridley Scott; per assurdo, infatti, si potrebbero confondere facilmente i movimenti e i comandi che vengono eseguiti dai paracadutisti britannici con la disastrosa spedizione operata dagli americani nel capoluogo somalo (attenzione, di fronte alla casa del giovane protagonista si proietta I magnifici sette, una coincidenza?).
Greengrass propone un resoconto rigoroso, senza sbavature, che non s'incentra solamente sull'assurdità di quella che da lì a poco sfocerà in una vera e propria guerra civile, ma che tende a evidenziare come tali eventi costituiscano la morte dell'amore, sentenziata senza mezze misure dalla ferocia dell'uomo. Non a caso il conflitto tra Inghilterra e Irlanda incide drasticamente sui rapporti amorosi di ben due dei tre protagonisti messi in scena (un predicatore protestante, un ragazzo "lanciapietre" e un militare dell'esercito inglese): uno verrà spezzato dalla morte del giovane, l'altro sarà per sempre incrinato dall'aver assistito in prima persona alla scomparsa del proprio ideale.
Non c'è speranza nel film di Greengrass, nel quale il buon senso e la convivenza pacifica vengono presto spazzati via dall'odio tra dottrine religiose differenti, da logiche politiche e da assurde dimostrazioni di forza. Un documento importante, un tributo controllato e doveroso che trova nell'omonima canzone conclusiva degli U2 probabilmente l'unica caduta di stile.
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