Quando si deve recensire un film come La fabbrica dei tedeschi di Mimmo Calopresti, che ripercorre alcuni passi della tragedia avvenuta la notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007 alla Thyssenkrupp di Torino costata la vita a sette operai, la tentazione è quella di dimenticarsi dell’opera e raccontare l’indignazione e la rabbia per le morte di quei sette uomini. Forse sarebbe giusto usare anche queste poche righe e lo spazio sul web di una rivista per amplificare la denuncia, per evitare che una storia come quella dell’acciaieria di Corso Regina 400 venga dimenticata. Forse sarebbe giusto così, eppure molto è già stato scritto e detto. I TG hanno fatto la loro parte che, per definizione, è temporanea, legata alle contingenze, fatta di parole come tragedia, sdegno, allarme, commozione, frastuono e poi silenzio immediato, sollevato a tratti da qualche aggiornamento che sa di eco lontana, fino al nulla, “all’avanti un altro”, siamo un mezzo di servizio e c’è troppo da mostrare. La carta stampata ha fornito dati, ha spiegato che la Thyssenkrupp (il cui primo grande incarico fu quello di costruire cannoni per il terzo Reich) era una fabbrica in dismissione e che per questo le direttive sulla sicurezza, fornite alla ditta dagli organismi preposti nel 2006, erano sì stati recepiti, ma sarebbero stati messi in pratica solo nello stabilimento di Terni, quello destinato a mandare avanti la produzione. Ha raccontato che i familiari delle vittime hanno dovuto rinunciare a costituirsi parti civili nel processo per poter ricevere i 12 milioni di euro messi a disposizione dalla direzione della multinazionale. Pane in tavola per i figli o giustizia per i padri. Praticamente nessuna scelta. Ora è il turno della magistratura, che dopo sei mesi di indagini ha cominciato il suo lavoro nelle aule del tribunale di Torino. Il sostituto procuratore Raffaele Guariniello e i pubblici ministeri Laura Longo e Francesca Traverso provano a portare avanti un processo impantanato nelle udienze preliminari che deve definire l’ammissione delle parti civili e capire che tipo di rito chiederà la difesa (per il principale imputato Harald Espenhahn l’accusa è omicidio volontario). Linguaggi differenti, ognuno dei quali ha un suo differente vocabolario, un diverso grado di responsabilità ed efficacia.
In mezzo a tutto questo ci si è messo il cinema, quello di Calopresti ma non solo. Esiste infatti un altro film su questa maledetta storia, si intitola ThyssenKrupp Blues di Monica Repetto e Pietro Balla. "Credo che il cinema sia più potente della tv e della carta stampata. Il cinema ha una grossa qualità: elabora il dolore e cancella tutte le inutili polemiche politiche. Non è pensabile fermare la vita delle persone", dice Calopresti. Bisogna dunque credere alle intenzioni del regista, il quale riprende il dolore, mostra l’intera troupe mentre è intenta a costruire il film, fatto di primi piani strettissimi, di particolari, di occhi resi protagonisti da sequenze che li fissano sullo schermo per un tempo infinito. Nessuno spazio per didascalie, numeri e dati statistici, niente che somigli a una ricostruzione giornalistica o di indagine. La fabbrica dei tedeschi è un viaggio nel giorno dopo. Il suo spazio sono i cancelli della fabbrica, sempre chiusi, invalicabili, le periferie dove vivono le famiglie delle vittime, gli appartamenti pieni di foto incorniciate. Gli operai che oggi non contano più nulla, niente di più di un residuo del boom economico degli anni Sessanta. Quei pochi che escono dal lavoro a fine turno non fanno più paura, i loro cortei sono pieni solo per le commemorazioni dei morti, le questure ormai contano quattro gatti anche durante le agitazioni sindacali (un dato sulla quantità di soggetti impiegati nell’industria in Europa rivela una percentuale intorno al 20%). Uomini in dismissione come i capannoni nei quali lavorano. In mezzo la faccia dell’autore che prova a comprendere cosa succede a chi rimane, cosa passa per la testa e il cuore di quelli che hanno perso un pezzo vita o tutta la vita. È possibile dare un giudizio su tutto questo? Sì, il prologo del film sembra una pezza di lana cucita sulla seta, il bianco e nero con cui gli attori “famosi” mettono in scena gli ultimi attimi prima del disastro è un accrocco narrativamente inconcludente. E se anche quello fosse un contributo? Chi, domando, potrebbe ritenerlo superfluo? Nel finale del documentario Calopresti usa una canzone di Franco Battiato, Povera patri, musica e testo spaccano quel che resta della speranza, ascoltare le parole del cantautore siciliano è come leggere la biografia di un paese, il nostro. Ecco, in mezzo a tutto questo si è infilato il cinema e queste parole a margine che lo accompagnano. Serviranno a qualcosa? Torna il cruccio iniziale, forse andrebbe fatto qualcosa di diverso, di più efficace. Difficile dirlo, e a essere onesti chi scrive è poco ottimista al riguardo. Eppure quando si esce dalla sala buia con uno strano senso di impotenza bisogna reagire. Battere i tasti di un computer non basterà, vedere un film nemmeno. Qualcosa però va fatto, ognuno deve usare le armi a propria disposizione consapevole che, se pur non sarà sufficiente a cambiare le cose, è necessario a tenere la schiena diritta.
Post scriptum Sulla questione delle morti sul lavoro un ottimo mezzo per comprendere lo stato delle cose nel nostro paese è il sito: www.articolo21.info Sulla vicenda Thyssenkrupp è uscito il libro di Diego Novell, edito da Sperling & Kupfer: Thyssenkrupp. L'inferno della classe operaia TITOLO ORIGINALE: La fabbrica dei tedeschi; REGIA: Mimmo Calopresti; SCENEGGIATURA: Mimmo Calopresti, Cristina Cosentino; FOTOGRAFIA: Paolo Ferrari; MONTAGGIO: Raimondo Aiello; MUSICA: Riccardo Giagni; PRODUZIONE: Italia; ANNO: 2008; DURATA: 90 min.
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