Non ho l'età: Benjamin Button e la fatale ironia della vita PDF 
Gianmarco Zanrè   

In due certezze si può cullare l’esistenza di un uomo, tragica, leggendaria o assolutamente “normale” che sia: la nascita e la morte. Con tutto quello che esse comportano a rendere unico l’intervallo che le separa. Scott Fitzgerald, aura quasi mitica, pagine macinate e bicchiere spesso e volentieri in mano, tratteggiò, ormai quasi un secolo fa, l’esistenza straordinaria di Benjamin Button, neonato ottantacinquenne dalla crescita a ritroso, alla scoperta di un mondo, e di un corpo, che poteva conoscere come nessun’altro, e che allo stesso modo si avventurava fra le pagine dell’esistenza, vivendo gli amori di un uomo adulto attraverso energia e velleità adolescenziali, e scoprendo che, come e più delle persone comuni, proprio l’amore, in un modo o nell’altro, gli avrebbe riservato la solitudine.

Adattato da Eric Roth, già sceneggiatore del fortunatissimo Forrest Gump, il racconto di Fitzgerald approda al grande schermo, guidato dalla macchina da presa di David Fincher, regista talentuoso ma incostante, che proprio in questa sua ultima fatica pare definire completamente la sua dimensione di “variabile” nel cinema contemporaneo americano. Il curioso caso di Benjamin Button, infatti, soffre delle stesse lacune del suo direttore d’orchestra: ottimi spunti accanto a momenti di sempre troppo pronunciata e didascalica retorica, immagini ad effetto e completo asservimento alle regole del “mainstream”, ambizioni spesso non all’altezza dei risultati. Una pellicola che non è possibile bollare come perduta, ma neppure considerare il caso cinematografico di questo inizio 2009, o una sorta di versione aggiornata del già citato Forrest Gump, superiore, per ingenuità, messaggio e purezza a questo Button del nuovo millennio. Sebbene, infatti, i mezzi e il tempo siano tutti dalla parte di Fincher e della sua ultima creatura, il mestiere, registico ed attoriale, pende, e non di poco, dalla parte della pluripremiata pellicola di Zemeckis, che con il suo impareggiabile compagno di viaggio Tom Hanks tratteggia con maggiore coraggio, decisione e pura e semplice bravura un’esistenza vissuta attraverso la storia recente degli Stati Uniti: proprio in questo campo stimolante la pellicola di Fincher si perde inevitabilmente, lasciando il palcoscenico principale  alla storia d’amore che vede coinvolti Benjamin e la sua amata Daisy, che, pur offrendo spunti interessanti – l’incrocio delle età dei due protagonisti, la loro figlia e il suo incontro con un Benjamin ormai quasi coetaneo –, non riesce a colpire al cuore un pubblico ormai troppo legato a quell’ingenuo Forrest lanciato di corsa attraverso Paese e Storia.

Nel caso di Button, invece, occorre ripercorrere molto lentamente le tappe intraprese dalla pellicola, cercando di analizzare, o ritrovare, la strada compiuta dal regista e dalla sua troupe per ritrovarsi, come in un gioco di parole, con quest’incompiuta fra le mani. Eric Roth, ingegnosamente, sposta il baricentro del racconto di Fitzgerald dai tempi della Guerra d’Indipendenza al giorno in cui viene festeggiata la fine del primo conflitto mondiale, per accompagnarci idealmente fino alla disgrazia che rappresentò l’uragano Katryna. Una Nazione, e una Storia, racchiuse nella stessa città, vissuta attraverso decenni di cambiamenti e posta di fronte alla sua ora più buia proprio con lo spegnersi del proiettore. Eppure, nella stesura della sceneggiatura, l’autore pare dimenticarsi di avere uno scopo, una traccia, un percorso ideale: dall’inutile incipit legato all’orologio della stazione ferroviaria (completamente privo di senso rispetto alla trama stessa), che pare quasi suggerire l’idea di un tempo che scorre al contrario affinché non si possa morire, mentre il protagonista dell’intera vicenda pare indiscutibilmente vivere, ai facili riferimenti legati alla Seconda Guerra Mondiale, mal sfruttati, poco incisivi e troppo memori del lascito dato dal succitato Gump accanto al “suo” Tenente Dunn, fino al colibrì portato su pellicola ad uso e consumo delle più facili lacrime da schermo. D’altro canto, Roth conosce bene il suo mestiere, e nonostante le amnesie getta nel calderone molte idee interessanti, legate principalmente al progressivo ringiovanimento del protagonista, spunto di riflessioni a cavallo fra sentimento e ragione, psicologia e domande sulla natura stessa dell’uomo: il rapporto con la madre adottiva Queenie, accostabile a quello che un figlio ha rispetto ai genitori anziani, una storia d’amore che incrocia l’ideale adolescenziale e il risveglio della maturità – il momento più intenso della pellicola, incarnato da un Pitt da poco iniziato ai piaceri del sesso e dell’alcool e da una Tilda Swinton alla ricerca di nuovi stimoli di fronte ad una vita di ricordi –, l’amore vero consumato solo per una breve quanto intensa stagione dell’esistenza e il già citato incontro con la figlia quasi raggiunta per età. Riflessioni che, pur dovute in tutto e per tutto all’idea originale di Fitzgerald, vengono ben trasmesse al pubblico, così come suggerite, e volutamente non approfondite, dallo sceneggiatore, che riesce a conciliare il sereno invecchiamento di Benjamin alla sensazione di un’inevitabile caducità della condizione umana, tanto riuscita quanto in contrasto con l’idea (forse del regista?) di voler necessariamente far passare il protagonista per immortale.

Proprio quest’ultima riflessione porta all’analisi del protagonista stesso, e del suo interprete: confrontarsi, per un autore, con un personaggio potenzialmente più vecchio di lui (e qui si potrebbe riaprire una parentesi “d’analisi” riferita al percorso a ritroso di Benjamin) è sempre un rischio, dato che spesso, specialmente per uno scrittore, o sceneggiatore che sia, la possibilità di immedesimarsi per esperienza con le sue creature è necessaria come l’ossigeno per una storia che, pur fantastica, possa risultare credibile. Fitzgerald, in questo, riesce a calarsi nelle vesti di Benjamin non solo più facilmente, ma anche, e paradossalmente, in un ottica più sincera, dimostrata dall’effettiva impossibilità di poter vedere, nel vecchio Benjamin, i comportamenti tipici di un bambino di pochi anni. A poco servono i momenti passati con Daisy bambina – quasi inquietante, al contrario, la fuga notturna e il nascondiglio sotto il tavolo – e l’incontro con il padre naturale o il pigmeo spirito inquieto. Più interessanti le parentesi legate al progressivo ringiovanire e al rapporto con gli anziani inquilini della casa di Queenie, quasi fossero tutti “nonni”, o compagni di giochi, di Benjamin, ribaltando, all’inizio e alla fine della pellicola, le consuete età delle parti in causa. Un peccato non aver sfruttato, considerato il sempre più grande ruolo dei media, lo scalpore che una figura come Benjamin avrebbe potuto suscitare in una società regolata in gran parte dalla caccia alla notizia, ampliando sul piano sociologico le tesi che Fitzgerald non avrebbe mai potuto, per questioni di tempo, affrontare nei primi decenni del secolo scorso.

Rimanendo ad ogni modo legati alla figura di Button un discorso quasi speculare andrebbe fatto rispetto all’interpretazione di Brad Pitt, candidato all’Oscar più per gli effetti speciali che non per l’effettiva presa di posizione rispetto al suo personaggio, poco credibile sia da vecchio che da giovane: nonostante lo straordinario lavoro di truccatori e costumisti, infatti, a livello interpretativo si ha sempre l’impressione di avere di fronte Brad Pitt, quasi la prima metà della pellicola fosse una sorta di inseguimento delle forme più perfette e vicine alla realtà sue così come di Cate Blanchett, in una rincorsa forzata alla “perfezione” incarnata da questi due belli dello stardom hollywoodiano. Incoronati gli aspetti più tecnici della pellicola, la discussione principale si sposta sulla direzione data da Fincher al film: se, infatti, nel suo precedente Zodiac il regista era riuscito a mantenere vive tensione ed attenzione garantendo ad un tempo un profilo così basso da apparire quasi sussurrato, ne Il curioso caso di Benjamin Button pare invece perdersi fra le pagine di quello che vorrebbe sembrare, per citare la pellicola stessa, un diario di memorie, finendo per trasformarsi in una sorta di caricatura involontaria di se stesso, soffocata dai colori seppiati ed offuscata nella sincerità delle intenzioni da un desiderio troppo programmato di stupire ed emozionare, così forzato da celare anche l’indubbio talento visivo dello stesso regista, sprecato una volta ancora – come fu per The Game o Panic Room – al servizio di inutili sensazionalismi. Una domanda, a fronte di questa confusa visione, pare quasi dovuta, rispetto all’operato di Fincher: abbiamo di fronte un regista dal grande talento ma dal carattere poco pronunciato, quindi spesso preda di produttori e confezioni, oppure un mediocre esecutore eccessivamente incensato? Entrambe le ipotesi paiono avere fondamenti e trovare riscontri nella filmografia dell’autore, capace di consegnare ai cinefili ingranaggi perfetti come Zodiac e Seven e, al contempo, di confezionare il peggior film della quadrilogia di Alien o l’inconsistente Panic Room. Eppure, proprio con i due prodotti di maggior successo – Benjamin Button, per l’appunto, e Fight Club –, entrambi interpretati da Brad Pitt, ed entrambi ispirati a due opere letterarie, pare evidente la risposta al quesito. Di fronte a produzioni che prevedono una pressione forse eccessiva, legata alle aspettative e al confronto con romanzi o romanzieri di grande successo, Fincher pare inesorabilmente indietreggiare, finendo per lasciarsi travolgere dal suo stesso operato, apparentemente intimorito dall’idea di scontentare pubblico, produzione, protagonisti e fan delle opere di riferimento.

Dunque, rispetto a questa sua ultima fatica, Fincher pare mettere a nudo tutti i suoi limiti di polso senza riuscire, nonostante gli evidenti sacrifici, a convincere pienamente almeno uno tra pubblico e critica, uscendo da grande sconfitto alla notte degli Oscar e raccogliendo più dubbi che consensi, nonostante gli incassi. Una ripartenza sotto le righe pare essere la medicina migliore per il cineasta di Denver, cui una piccola produzione priva di divi da copertina potrebbe fare da veicolo per una rinascita cinematografica simile a quella che lo riportò alla ribalta dopo il successo di Zodiac. Il curioso caso di Benjamin Button rappresenta dunque un esperimento non completamente riuscito, un tentativo di raccontare, se non un film dalla conclusione – cosa già fatta, peraltro impeccabilmente, da Christopher Nolan nel suo Memento –, una vita, un colloquio immaginario di ogni spettatore con il suo Io, o i suoi più prossimi parenti, vissuto in un momento diverso da quello che ci si aspetterebbe nel consueto susseguirsi di stagioni e accadimenti. Così, il suggerimento è quello di approcciarsi alla pellicola senza troppe pretese, lasciando che la vita singolare di Benjamin trasporti, anche nei momenti di stanca, evitando di pensare alla durata di un film, capace, specie negli snodi privi di una direzione precisa della sceneggiatura di stimolare il desiderio dei titoli di coda, concentrandosi principalmente sulla disarmante “ordinarietà” del campionario di sentimenti, vite, passioni, imprese, amori che ogni vita riserva al suo protagonista. Questa, a tutti gli effetti, pare essere l’intuizione più geniale di Scott Fitzgerald, solo parzialmente riportata da Fincher e Roth sul grande schermo: anche la più straordinaria delle esistenze, quella che permette di invecchiare ringiovanendo, vivendo il progresso e le meraviglie di una nuova epoca e del futuro con la forza dell’esperienza già alle spalle, non permette a nessuno, chiunque sia, di trascendere dall’esperienza stessa, dalle gioie e, più spesso, dalle sofferenze, che il suo bagaglio inevitabilmente comporta. La perdita, in particolare dei propri cari, e di chi, pur non entrando a far parte della nostra esistenza, la segna indelebilmente – esemplare, in questo senso, il ruolo della donna che insegna a Benjamin a suonare il pianoforte –, è l’anima dell’opera di Fitzgerald, e il salvagente della pellicola di Fincher, sommersa dall’eccessiva personalità di protagonisti e produttori, ma sincera nel raccontare il sentimento che coinvolge anche chi giurerà, da agguerrito critico, o cinico esemplare, di non aver avuto un moto di commozione di fronte al pensiero di perdere chi c’è di più caro nella sua vita, una regola crudele quanto inevitabile dello scorrere del tempo e delle nostre stesse esistenze. Anche in questo caso è curiosa la posizione presa dagli autori, e inevitabile l’associazione alla mancanza di carattere del regista, giunta per voce del capitano Mike in punto di morte e trasmessa attraverso una resa, nonché la scoperta di quello che sarà il mantra di Benjamin rispetto al Destino: “Puoi incazzarti e bestemmiare, ma prima o poi, quando arriva la fine, non ti resta che mollare”. Pare che, dunque, qualunque vita si sia vissuta, fatta di amori, successi, sogni ed incubi, amori e amanti, padri e figlie, Benjamin Button, e tutto il suo pubblico, siano destinati ad arrendersi, a mollare di fronte al cinema e alla vita, perché un giorno la natura è usa chiedere tributo per tutto il tempo passato su questa terra, in una forma, in un’età o nell’altra. Eppure, Fitzgerald, ucciso proprio all’uscita da un cinema, e il suo Benjamin, non paiono arrendersi, quanto adattarsi al Destino, come il migliore dei Forrest Gump con la sua scatola di cioccolatini: l’errore più grande che pare abbiano commesso gli autori rispetto a questa pellicola incompiuta è proprio questo. Mollare, quando si crede di essere arrivati a destinazione, o si pensa di avere indiscutibile talento, o di essersi affidati ai più belli e ipnotici interpreti della Hollywood dei nostri giorni, significa perdere non solo la stima della critica, ma anche la fiducia del pubblico: un pubblico che, da par suo, non va sottovalutato, ma neppure circuito con parabole eccessivamente prolisse sull’esistenza. Non fosse altro perché, in quello, ogni spettatore è primo interprete e indiscusso protagonista.

Un’opera, dunque, questa che narra Il curioso caso di Benjamin Button, per nulla uniforme e convincente, dalla grande potenzialità espressiva ed emotiva da un lato e dalla scarsa ironia dall’altro, condita da poco coraggio nelle scelte riguardanti produzione, approccio e direzione degli attori. Un’opera che potrà annoiare e stupire, guadagnarsi elogi sinceri e feroci critiche ad un tempo: se fosse una persona, questo Benjamin Button su grande schermo, sarebbe come lo stesso Pitt senza controllo di Seven, o quello reale e inesistente di Fight Club. E forse è proprio questo il problema principale de Il curioso caso di Benjamin Button: c’è troppo Brad Pitt nelle vicissitudini della creatura di Scott Fitzgerald, e troppo poco Fincher. Quello che ne risulta è una pellicola che non appare mai sincera e convincente, ma forzata e ambiziosa, come un attore senza talento in cerca di un’ambitissima statuett. Ad ogni modo, giusto che si gusti fino in fondo, per trarne la migliore lezione possibile. Il cinema è anche questo. E, al contrario di quanto regista e sceneggiatore suggeriscono, e subiscono, pare proprio che Brad Pitt non si rassegnerà a mollare. Quasi sapesse che, prima o poi, quell’ambita statuetta riuscirà a stringerla, in barba a registi e produttori a lui asserviti, e con buona pace del pubblico. Forse Benjamin Button, David Fincher e il capitano Mike dovrebbero prenderlo come un esempio. La prossima volta potrebbe andare meglio.

 


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