Chi sperava in una docu-fiction sul personaggio più inquietante della storia politica italiana rimarrà deluso. Chi, invece, credeva che un film sul democristiano Andreotti non poteva che essere militante, ha completamente frainteso. Il Divo di Sorrentino è un’opera autonoma, senza timori reverenziali nei confronti del reale, coraggiosa nella finzione. L’intenzione del regista è già tutta nel sottotitolo: La vita spettacolare di Giulio Andreotti. Ciò che conta non è demonizzare il politico, ma rendere spettacolare la sua vita, la Democrazia Cristiana (“che spettacolare non era di certo”, come ha detto Sorrentino in conferenza stampa). E l’inizio del film tiene col fiato sospeso. Nei primi minuti sono concentrati molti avvenimenti italiani ancora oscuri: dal ritrovamento del cadavere di Aldo Moro all’uccisione di Pecorelli, dal suicidio di Roberto Calvi alla strage di Capaci. Un turbine di violenza e sangue a cui segue la terrificante tranquillità di Andreotti, chiuso nel suo studio e intento a lavorare al suo archivio privato. Interpretato magistralmente da Toni Servillo – immedesimazione senza parodia – Andreotti è l’emblema di un potere che non ha bisogno di mostrare i muscoli ma che si muove lentamente e silenziosamente nelle relazioni interpersonali. Quest’uomo curvo, con grandi occhiali e privo di mimica facciale crede nella Provvidenza Divina – “mi dicevano che sarei morto. Ma io sono ancora qui e, invece, loro sono morti” – fa lunghe passeggiate scortato, è continuamente afflitto da terribili emicranie. La colonna sonora, molto ricca, spazia dalla musica classica al pop italiano come a voler mostrare le sue due facce: da una parte l’Andreotti introverso, abile stratega che lavora nell’ombra, dall’altra l’Andreotti mondano, presenzialista per necessità elettorali. Il film è una galleria di scene da prima repubblica, ricco di citazioni che rendono bene la terribile ironia del senatore a vita e, soprattutto, l’album di famiglia della corrente andreottiana: O’Ministro, Limone, Il Ciarra, Lo Squalo, Sua Eccellenza, Sua Sanità. La grande capacità poietica (poiesis) di Sorrentino che avevamo già ammirato ne Le Conseguenze dell’Amore e ne L’amico di Famiglia trova nel vasto materiale intrinsecamente grottesco di aneddoti e vicende la sua fonte di ispirazione privilegiata. La ricostruzione storica, dal VII governo Andreotti a Tangentopoli e ai processi di Palermo e Perugia, non toglie spazio alle invenzione del regista. Una su tutte è la scena della confessione solitaria e vagamente onirica in cui Andreotti ammette la propria responsabilità, diretta o indiretta che sia, in tutte le stragi degli anni di piombo – “la strategia della tensione era una strategia per la sopravvivenza”- ed è dilaniato dal senso di colpa per la morte di Moro. È il momento di “umanità” del Divo Giulio rispetto all’immagine da uomo impenetrabile, che nessuno può dire di conoscere veramente e che ha attraversato tutta la storia repubblicana senza graffi. Ma è solo un attimo, prima di difendersi con le consuete armi ai processi dai quali uscirà assolto (prescrizioni a parte!). Il Divo, presentato all'ultimo festival di Cannes, ha vinto il Premio della Giuria e, insieme a Gomorra di Garrone, mette il fotogramma "fine" alle interminabili discussioni sulla crisi artistica del cinema italiano.
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