Dalla questione storica a quella intimista: trasfigurazioni di “stile” nel cinema di Angelopoulos PDF 
Nicolò Vigna   

Il percorso cinematografico di Theo Angelopoulos, regista tra i più rappresentativi nel panorama autoriale degli anni Settanta, può rivelarsi utile per comprendere le modalità con cui, determinate “marche di stile” – nell’accezione indicata da Christian Metz (1) - si evolvono e si trasfigurano attraverso gli anni, parallelamente all’evoluzione poetica e tematica di un regista. In questo breve saggio si cercherà di considerare il modo in cui Angelopoulos affronta il passaggio da tematiche storico-politiche a questioni di carattere “intimista” attraverso l’evoluzione di uno stile di regia che, come avremo modo di dimostrare, si rivelerà debitore sia delle nouvelle vagues europee degli anni Sessanta, sia del cinema classico hollywoodiano.

Affrontando il caso di un regista come Angelopoulos è necessario precisare che la questione dello “stile” si lega indissolubilmente con il tema della “modernità” nel cinema europeo. Infatti, come scrive Fredric Jameson, il cinema di Angelopoulos è “moderno” in quanto ha un particolare stile (2), che lo contraddistingue in qualità di “autore”, determinando il passaggio dal filmic world al filmic world-view (3). Parallelamente, il cinema di Angelopoulos si definisce “moderno” in quanto debitore (e continuatore) di quelle tendenze che già avevano caratterizzato il cinema degli anni Sessanta, e nelle quali lo “stile” e l’”autore” si rivelavano concetti assolutamente centrali. “Figlio” dunque della modernità europea, tanto da essersi guadagnato l’appellativo di “ultimo modernista” (4). Ed è con un film in particolare, La recita (O Thiassos, 1975), che il cineasta greco realizza quello che Goffredo Fofi definisce «il canto del cigno delle nouvelle vagues» (5), la cui complessità, sia sul piano stilistico-formale che su quello storico-tematico, ne hanno fatto immediatamente punto di convergenza delle ricerche “moderniste” di ambito europeo. All’interno di questo film così “stratificato” si presentano molte “figure di stile” che avevano caratterizzato (e che continueranno a caratterizzare) non solo il suo cinema, ma il cinema europeo “della modernità” in generale.

Un punto di arrivo, quello de La recita che si rivela anche “detonatore” di nuovi percorsi di ricerca (stilistica, formale, tematica) per tutti quei registi che, nel corso degli anni Sessanta e Settanta, avevano fatto del cinema della modernità -ed in particolare nella sua accezione “politica”- il loro oggetto di ricerca. Basti pensare all’”inversione di tendenza” di molti registi partiti da un “humus modernista” di stampo godardiano come Angelopoulos (penso a Miklós Jancsó, penso a Reiner Werner Fassbinder) che, esaurita la spinta storica o politica dei loro primi film, si interessano a questioni “altre” rispetto i propositi iniziali. E se da un versante c’è chi ha “assorbito” e (felicemente) riproposto un modello hollywoodiano classico (il mélo) attraverso soluzioni moderne (Fassbinder), concedendosi a tematiche meno “politiche” e più “intimiste”, dall’altro si è vista una radicalizzazione dello stile da parte di molti registi post-godardiani (oltre a Godard stesso, penso a Chantal Akerman, Marguerite Duras, Hans Jürgen Syberberg). In queste nuove “tendenze” del cinema della modernità europeo – che vedono, da un lato, la riscoperta del cinema classico e il passaggio dalla questione “politica” a quella intimista, dall’altro, un irrigidimento di una poetica dello straniamento (di derivazione brechtiana) – il cinema di Angelopoulos si configura in maniera abbastanza complessa. Sarà questo argomento, relativo alla collocazione dell’opera del regista greco nel panorama “dopo-modernista” europeo, il nucleo di analisi di questo saggio. In particolare, sarà analizzato in che modo alcune “marche di stile” proprie del regista, quelle cioè che hanno caratterizzato e reso famosi i suoi primi film, vengono riutilizzate dal regista stesso con diversi propositi.

Il passaggio “tematico”, nel cinema di Angelopoulos, avviene specificatamente attraverso due film: Alessandro il Grande (Megalexandros, 1980) e Viaggio a Citera (Taxidi sta Kythira, 1983). Il “tragitto” verso quella che Pino Viscusi definisce la «poetica del silenzio» (6) è segnato da alcune fondamentali “tappe”: il passaggio dal “gruppo di personaggi” come protagonista (di derivazione sovietica) al singolo attore; l’uso “emotivo” della musica extra-diegetica di Heleni Karaidrou; il fondamentale incontro con il poeta e sceneggiatore italiano Tonino Guerra. Questi passaggi sono importanti per comprendere il modo in cui Angelopoulos utilizza il proprio stile -maturato nei primi film politici- in un contesto diverso. Cerchiamo ora di mettere in luce determinate peculiarità dello stile di Angelopoulos, per meglio comprendere questo processo di evoluzione. Lo stile di Angelopoulos è caratterizzato, secondo Bordwell, da alcuni «obiettivi specifici» quali «dedrammatizzazione; espressività emotiva muta; sottile direzione dell’attenzione del pubblico; simultanea consapevolezza del processo visivo del film» (7). Questi modelli stilistici, come nota Bordwell (8), nascono nel cinema di Angelopoulos sul modello del cinema “dedrammatizzato” di Michelangelo Antonioni (l’uso dei silenzi, del piano-sequenza, del campo lungo, dei personaggi di spalle), mutandosi però in favore di un modernismo politico dai caratteri brechtiani.

E’ importante però considerare anche un’altra forte componente stilistica, presente nel cinema del cineasta greco, e che troppo poco sovente è stata fatta oggetto di interesse nello studio (e per lo studio) della sua poetica: l’influenza del cinema classico hollywoodiano. E’ effettivamente strano parlare di cinema classico nel caso di Theo Angelopoulos, eppure ci sono due modelli, di cui uno assolutamente centrale, necessari per poter discutere del suo “sviluppo” stilistico: il noir e il musical. Se per il noir ci possiamo riferire in particolare al caso di Ricostruzione di un delitto (Anaparastasi, 1970) – primo lungometraggio del regista –, che, come giustamente nota Bordwell, «rielabora le dinamiche narrative di Quarto potere (Citizen Kane, 1941) e I gangster (The Killers, 1946)» (9), il secondo caso, quello del musical, viene “assimilato” da Angelopoulos a tal punto da trasformarlo in una delle sue più rappresentative “marche di stile”. Infatti, l’utilizzo che il regista greco fa dei “gruppi di persone” attraverso la loro disposizione “pittorica” nel quadro; la fissità “ieratica” di certe inquadrature; l’uso della musica extra-diegetica che coinvolge e che, allo stesso tempo distanzia; l’uso “avvolgente” della macchina da presa, dimostrano chiaramente il debito di Angelopoulos nei confronti degli “inserti musicali” di Donen, Kelly, Sandrich e Minnelli. A ben vedere, sia la “scomposizione” narrativa propria del cinema noir che l’uso “marcato” della cinepresa all’interno del musical, sono elementi di “modernità” all’interno del cinema classico: in particolare, l’uso “evidente” della macchina da presa nel musical, che diventa “protagonista”, sovvertendo il canonico rapporto tra filmico e profilmico (le coreografie di Berkley), sono “eccessi di stile” che ben si adattano alle ricerche di Angelopoulos. L’utilizzo della macchina da presa “avvolgente” e la composizione pittorica del quadro sono infatti due costanti presenti sia nei film della sua prima fase “storica” (I giorni del ’36 [Meres Tu ’36, 1972], La recita, I cacciatori [I Kykighi, 1977]), sia in quelli della seconda fase “intimista” (da Viaggio a Citera in poi). E’ importante notare come queste “coreografie visive” abbiano sempre la stessa struttura: i personaggi entrano nel quadro; inizia un canto/una musica; questi iniziano a disporsi armoniosamente all’interno del quadro assecondati da una macchina da presa che si fa “avvolgente”; ma, nel momento di maggiore “coesione”, l’equilibrio viene “rotto” dall’inserimento di una figura esterna. Se questo procedimento, da un lato richiama “ideologicamente” il teatro epico di Brecht, al cui “stacco musicale” veniva data centralità assoluta (pensiamo all’Opera da tre soldi), “formalmente” Angelopoulos trova la propria fonte di ispirazione stilistica nel musical classico

Vorrei a questo punto citare una sequenza, lontanissima per “contesto” ma, a mio giudizio, vicinissima alla soluzione formale appena descritta: questa sequenza è tratta da Sette spose per sette fratelli (Seven Brides for Seven Brothers, 1954) di Stanley Donen, e corrisponde più precisamente alla sequenza musicale intitolata Lonesome Polecat, in cui i sette fratelli cantano una malinconica canzone d’amore mentre tagliano la legna, in un solitario paesaggio avvolto nella neve. Si tratta di un piano-sequenza di circa tre minuti e mezzo in cui, un sentimento comune (il desiderio di poter amare qualcuno) si manifesta attraverso la musica, i balli e gli armoniosi movimenti di macchina che iniziano e si concludono in un inquadratura fissa (le sette figure immobili che compongono pittoricamente il quadro). Oltre all’idea di personaggio-gruppo, caro alle soluzioni “corali” di Angelopoulos, ciò che colpisce è la sua vicinanza formale a questi movimenti di macchina, all’uso della profondità di campo, allo scrupoloso interesse per la composizione del quadro e all’equilibro nella disposizione delle figure. Se però, come scrive Jacqueline Nacache, nel musical classico, lo stacco musicale costituisce un «agente di interruzione del racconto», in cui «canzoni e musiche dei balletti sono spesso organi estranei alla partitura del film» (10), nei film dell’Angelopoulos “politico” questi “stacchi” si inseriscono perfettamente nel racconto, tanto da esserne “momenti determinanti”.

Come già aveva fatto Jancsó in Salmo rosso (Még Kér a Nép, 1972), la Storia diventa rituale collettivo, che si trasforma cinematograficamente in coreografia, e nel quale il racconto non si “interrompe”, come nel caso del musical classico hollywoodiano, ma diventa parte integrante del film. Ora, il passaggio tra il gruppo-protagonista al singolo attore (come scrive Quintana, «Da Viaggio a Citera (…) gli attori iniziano ad avere un volto» [11]) si ripercuote profondamente sulla “figura di stile” appena descritta. Infatti, se formalmente, nei film più recenti del regista greco, viene confermato l’utilizzo del “momento musicale” (la variazione dello “stacco musicale” appena descritto), questo cambia radicalmente, sul piano contenutistico, riallacciandosi a quel significato che aveva nel musical classico. Da Viaggio a Citera in poi infatti la macchina da presa “abbandona” il personaggio protagonista e si concentra su fattori “esterni”, per poi ritornare al protagonista (solitamente ritrovando il personaggio che avevamo abbandonato in posizione di “spettatore”, ovvero di spalle). Questo provoca un “incorniciamento” del momento musicale che non fa “procedere la storia”, ma la interrompe, o, per meglio dire, la “contrappunta”. Esemplare per spiegare questo concetto è Paesaggio nella nebbia (Topio Stin Omichli, 1989). Giunti sulla spiaggia, i due bambini protagonisti del film incontrano, per la seconda volta durante il loro viaggio per la Germania, una compagnia di attori in procinto di provare un atto del loro dramma: la macchina da presa si stacca dal volto dei bambini, iniziando una lunga panoramica che prima inquadra gli attori uno per uno, e poi si fissa per dare il via alla prova teatrale (con tanto di sguardo in macchina e presentazione del dramma, come ne La recita). Ma un fattore esterno (un uomo che, giunto in macchina, avverte che la recita è saltata) rompe l’equilibro: la macchina da presa, a questo punto, abbandona la costruzione teatrale e ritorna sul volto dei due protagonisti.

Questo procedimento non sarebbe stato possibile nella fase “politica” di Angelopoulos, essendo “il gruppo” il vero protagonista. In questo caso invece, la macchina da presa si può “riagganciare” al protagonista (o, per meglio dire, ai due protagonisti), circoscrivendo la scena come “isolata” dal resto della narrazione. Anche nel successivo Il passo sospeso della cicogna (To Meteoro vima Tou Pelargou, 1991), forse il film meno “estetizzato” di Angelopoulos, sono presenti almeno un paio di sequenze che riutilizzano le modalità appena descritte. In particolare, la sequenza del matrimonio, che utilizza campi lunghi o lunghissimi (figurativamente prossimi allo Jancsó de L’armata a cavallo [Csillagosok Katonák, 1967]), che si caratterizza in quanto momento “lirico” e “musicale” del film, si trova “giustificata” attraverso l’ultima inquadratura che la denuncia in quanto “vista” dal protagonista. Ancora una volta questi momenti “aleatori” non servono necessariamente per far procedere il racconto, ma vengono “incorniciati” come situazioni “osservate”, esterne al “percorso” dei protagonisti. Un’altra sequenza, quella del matrimonio in L’eternità e un giorno (Mia Eoniotita ke mia mera, 1998) adotta espedienti abbastanza simili: la macchina da presa si “stacca” dal protagonista (Alexandros, interpretato da Bruno Ganz) per seguire una marcia nuziale, contrappuntata dal suono delle fisarmoniche che commentano i balletti dello sposo e della sposa. Da un piano totale si passa al campo lunghissimo, in cui i personaggi si dispongono, ormai usualmente, in maniere distinte e compatte, finché il piano-sequenza viene interrotto dall’intromissione di Alexandros, che “rompe” l’atmosfera “lirica” della sequenza.

Quello che avviene quindi, nel passaggio dalla fase politica e quella intimista, è che questa ricorrente “figura di stile”, che una volta serviva per creare “scontri visivi” tra diverse forze (gli scontri tra le fazioni “di destra” e quelle “di sinistra” ne La recita e ne I cacciatori, lo scontro tra il gruppo di partigiani e le forze armate ne Alessandro il Grande) ora diventa più che altro un “commento visivo” esterno al racconto; una “estetizzazione” del reale che, non più “vissuta” dai protagonisti, diventa semplicemente “vista”. Ciò ha inciso molto sul riscontro critico per Angelopoulos e per il suo cinema. Non è infatti un caso che dopo un acceso interesse per le prime opere del regista greco - in particolare per la “trilogia della Storia”- l’entusiasmo si sia “spento”, col passare degli anni, proprio a ridosso di questo passaggio “tematico”. Se il cinema di Angelopoulos del periodo “politico” veniva difeso grazie a quella “densità di significato” che attraversava ogni sequenza - in quanto, le composizioni musicali di cui abbiamo parlato, erano narrazione - oggi sovente, gli stessi vengono considerati “vuoti estetismi” (basti pensare alla fredda accoglienza con cui è stata riconosciuta la Palma d’oro a L’eternità e un giorno). Nei film “intimisti” del regista greco questi momenti restano come isolati: come abbiamo dimostrato, “commentano” più che raccontare. Forse è proprio qui che risiede il “limite” della ricerca stilistica effettuata da Angelopoulos: dopo aver creato un metodo unico per raccontare una storia (e la Storia) - una sorta di “musical modernista”, a metà strada tra Brecht e Minnelli -, confrontandosi con tematiche “esistenziali”, che vedono la necessità di avere un singolo protagonista, gli stessi espedienti perdono parte della loro peculiarità (ed originalità), restando isolati, esterni al racconto. E così una “figura di stile” sviluppata attraverso una ricerca modernista dai caratteri “politici” in parte “fallisce” in un altro contesto, in quanto “inclina” quel sottile equilibrio tra “forma” e “contenuto” che tanto avevano impressionato la critica.

Note:
(1) CHRISTIAN METZ, L’enunciazione impersonale o il luogo del film, cit., pag 181-184.
(2) FREDRIC JAMESON, Theo Angelopoulos:The Past of History, The Furure of Form in (a cura di) ANDREW HORTON, The Last Modernist: The Films of Theo Angelopoulos, ed. Flicks Books, Trowbridge, 1997, cit., pag 78-79.
(3) Ivi, cit., pag 81.
(4) E’ questo infatti il titolo del famoso libro monografico sul regista greco: The Last Modernist: The Films of Theo Angelopoulos.
(5) GOFFREDO FOFI, I grandi registi della storia del cinema, Donzelli Ed., Roma, 2008, cit., pag 218.
(6) PINO VISCUSI, Realtà e sogno: Suggestioni poetiche con Theo Anghelopulos, ed. Tecnograph, Bergamo, 2009, cit., pag 33.
(7) BORDWELL Modernismo, minimalismo, malinconia: Angelopoulos e lo stile visuale in P. M. MINUCCI (a cura di) Theo Anghelopulos, ed. Revolver, 2004, cit. pag 10-11.
(8) Ivi, pag 12.
(9) Ivi, pag 9.
(10) JACQUELINE NACACHE, Il Cinema Hollywoodiano Classico, ed. Le Mani, Genova 1997, cit., pag. 117-118.
(11) ANGEL QUINTANA, L’immagine simbolo: la poetica del cinema di Angelopoulos trad. it. di Giulia Canati, ora in in P. M. MINUCCI (a cura di) Theo Anghelopulos, ed. Revolver, 2004, cit. pag 33.

 


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