Italiano per principianti – Dogme#12 PDF 
di Fulvio Montano   

Riproposto in occasione della rassegna Dogma e dintorni, che il Museo Nazionale del Cinema (Torino, Cinema Massimo 3, dal 9 al 17 settembre) ha dedicato al fenomeno, Italiano per principianti – Dogme#12 (Danimarca, 2001) sembra essere il punto d'arrivo del progetto inaugurato dal collettivo danese capitanato da Lars Von Trier e Thomas Vinterberg.

Nonostante l'Orso d'oro alla Berlinale del 2001 e l'etichetta di Dogma di seconda generazione, il film della Scherfig suona come titolo di coda (appena prima della parola fine) dell'esperienza Dogma. Parafrasando l'opinione di Von Trier a proposito della Nouvelle vague, essa sembra finalmente rivelarsi per quello che è, una semplice increspatura che va a morire sulla riva del cinema istituzionalizzato, solidificandosi in fanghiglia noiosa e inoffensiva.

Se i propositi iniziali del movimento, ispirato da quella RealTV made in USA che a partire dagli anni novanta ha invaso le televisioni europee (e gradualmente ha abituato il pubblico a immagini di bassa qualità e alla mano incerta del videoamatore), erano di nobilitare la sterminata produzione (parallela alla diffusione di videocamere sempre più pratiche ed economiche) di non meglio definiti filmini di famiglia, l'illusione di poter finalmente disporre di quella caméra-stylo teorizzata da Astruc nel 1948 sembra essersi definitivamente dissolta, in qualche modo riassorbita della grammatica cinematografica propria del cinema mainstream.

Dialoghi senza scavalcamenti di campo, leggerezza di temi e divertissement, fotografia non eccelsa ma comunque degna e attori brutti ma non inguardabili ci conducono con coscienza e furbizia all'immancabile happy end tutto baci e abbracci, in un'elegia funebre che sa di sconfitta, di resa. Sembra, insomma, di trovarci di fronte alla fine di un ciclo, alla tanto temuta chiusura del cerchio. Se dagli incerti (ma comunque sinceri) filmini in Super8 eravamo partiti, ai medesimi filmini siamo in qualche modo tornati, e agitare di proposito la camera tenuta a spalla altro non è che l'ennesimo trionfo della coscienza, con l'unica triste finalità di mascherare una cronica carenza di idee quanto di contenuti, anni luce dalle teorizzazioni anni Sessanta di Jean Rouch sul cinéma-vérité.

Diversi, dicevo, erano però i proclami iniziali.

"Oggi, imperversa una tempesta tecnologica. Il risultato sarà la democratizzazione suprema del cinema. Per la prima volta, chiunque può fare dei film."

Con queste parole Lars von Trier e Thomas Vinterberg, nel 1995 annunciavano con un vero e proprio manifesto di poetica, alla maniera degli artisti dei primi anni del secolo, la nascita di un nuovo movimento. Dieci regole (tra cui camera a spalla, illuminazione naturale, suono in presa diretta e divieto di fare film di genere) per un cinema tutto fondato sull'attimo e sulla possibilità, grazie ad una tecnologia sempre più maneggevole e sofisticata, di catturare la realtà affabulata del film nel suo farsi, così come si presenta all'occhio curioso del regista-osservatore.

Nel 1998 Dogme#1 (Festen di Thomas Vinterberg) è Prix du Jury a Cannes, mentre Dogme#2 (Idioterne di Lars von Trier) lascia la giuria interdetta. La pietra è comunque scagliata e molti registi (nessuno tra quelli famosi, che liquidano il manifesto come l'ennesimo capriccio del lunatico danese) chiedono alla Nimbus Film di Niels Vorsel la certificazione da apporre sul loro progetto Dogma95.

Implicita, ma non dichiarata nel manifesto, sembra essere la possibilità (o il dovere come ha frainteso qualcuno) che dà il digitale, di realizzare film low budget. Un PC dalla potenza adeguata, una scheda di acquisizione dati, una videocamera digitale ed il gioco è fatto, perché sembra giunto il momento di mettere in discussione il significato stesso della parola cinema, mostrando le reali potenzialità di una tecnologia sempre più alla portata di tutti.

Dice ancora Von Trier: "Il vero problema del mondo del cinema è che si voleva che ognuno credesse che fare film è una cosa difficilissima. Si tenta di far credere che per fare un film ci vogliano grandi competenze e mezzi costosi, il che non è vero. Si tratta solo di farli!"

Interessante è comunque allargare il discorso situando l'esperienza del Dogma95 in una prospettiva più ampia, all'interno della querelle ancora irrisolta tra cinema tradizionale e nuove tecnologie, condensabile nell'opposizione pellicola versus digitale.

Per farlo permettetemi però di riesumare il sempre illuminante scritto di Walter Benjamin L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, pubblicato a Parigi nel 1936, in cui il filosofo marxista rifletteva su come l'avvento dell'arte tecnologica avesse modificato la percezione della stessa da parte delle masse.

Per il filosofo berlinese lo sviluppo tecnologico che permette prima la fotografia e poi il cinema, la riproduzione infinita e perfettamente identica dell'opera d'arte, rappresenta la grande rivoluzione dell'età moderna. Privando la stampa originale di qualsiasi validità intrinseca, la tecnologia la alleggerisce irrimediabilmente di quell'aura di unicità che avevano le opere del passato, permettendo finalmente alle masse l'accesso diretto ai suoi meccanismi creativi. Ecco così che entra fatalmente in crisi il concetto fondante di opera d'arte fino ad allora inteso, quell'hic et nunc che ne stabiliva l'innegabile autenticità. Se autenticità e unicità trovavano un tempo il loro valore proprio nel rituale, oggi è come se la statua del dio fosse uscita dal tempio, privata di una qualsiasi identità con il soprannaturale e riprodotta in infinite e identiche copie accessibili a tutti.

Oggi, con l'avvento della tecnologia digitale, non ci si accontenta più di trasformare suoni e luci in semplici segnali elettrici, ma in un'astrazione ancora maggiore. Rinunciando alla registrazione analogica della realtà (arrendendosi, in qualche modo, alla sua immane complessità), codificandone i segnali in una successione di cifre binarie (che prese singolarmente risultano assolutamente prive di significato), ci si accontenta di una versione approssimativa, discreta e comunque light della stessa, mentre nuove generazioni di trasduttori abbandonano il concetto di fedeltà dell'analogico per il concetto di attendibilità che caratterizza il digitale.

Se nel cinema analogico e nella fotografia del '900 esisteva comunque e sempre un master (tutti sanno che è impossibile realizzare una stampa assolutamente identica all'altra, nonostante ci si arrivi con una più che soddisfacente approssimazione) e delle copie, nell'era del digitale l'arte entra nell'epoca della sua riproducibilità tecnica assoluta. Il cinema inteso come sfarfallio quasi impercettibile di pixel è riversabile in infinite versioni senza perdita di qualità, è compatto, economico e rende obsoleta l'idea di affidarsi ad un unico master soggetto all'usura del tempo. È, al momento, la grande rivoluzione che inaugura il nuovo millennio, tanto da influenzare enormemente, oltre alla percezione della realtà ed il situarsi dell'uomo in essa, qualsiasi possibile sviluppo della settima arte.

Scrive Benjamin: "Nell'Europa occidentale lo sfruttamento capitalistico del cinema impedisce di prendere in considerazione la legittima pretesa dell'uomo odierno di essere riprodotto. In questa situazione, l'industria cinematografica ha tutto l'interesse a imbrigliare mediante rappresentazioni illusionistiche e mediante ambigue speculazioni, la partecipazione delle masse."

Oggi per i consumatori medi l'accesso alle nuove tecnologie rappresenta in qualche modo il sogno dell'immortalità domestica, dell'eternità di un vissuto per lo più ordinario e restituisce parte di quel disincanto per il mondo spazzato via dal progresso fuori controllo della scienza.

Dice ancora Benjamin: "Le nostre bettole e le vie delle nostre metropolitane, i nostri uffici e le nostre camere ammobiliate, le nostre stazioni e le nostre fabbriche sembravano chiuderci irrimediabilmente. Poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile ad un carcere; così noi siamo ormai in grado di intraprendere tranquillamente avventurosi spazi intorno alle sue rovine."

E più avanti: "Per secoli, nell'ambito dello scrivere, la situazione era la seguente: che un numero limitato di persone dedite allo scrivere stava di fronte a numerose migliaia di lettori. Verso la fine del secolo scorso, questa situazione si trasformò. Con la crescente espansione della stampa gruppi sempre più cospicui di lettori passarono – dapprima casualmente – dalla parte di coloro che scrivono."

L'uscita del moloc cinema dal suo tempio irraggiungibile ai più, genera paradossalmente le stesse dinamiche analizzate dal filosofo berlinese all'avvento dello stesso. Mentre stuoli di videomaker invadono con i loro (sicuramente discutibili) prodotti l'infinità di concorsi per cortometraggi che riempiono il mondo (vera e propria forma alternativa di circuitazione), la critica continua a non comprenderli e a giudicarli con i parametri di sempre, mentre il mercato pensa solo a sfruttare il fenomeno, regalando chances di visibilità solo alle 'paraculate' (The Blair Witch Project) ed ai lavori più commerciali e di sicuro successo, come il recentissimo Full Frontal di Steven Soderderg o l'Italiano per principianti da cui eravamo partiti.

Illuminanti a tal proposito le parole di Benjamin:"La massa è una matrice dalla quale attualmente esce rinato ogni comportamento abituale nei confronti delle opere d'arte. La quantità si è ribaltata in qualità: le masse sempre più vaste dei partecipanti hanno determinato nuove forma di partecipazione. L'osservatore non deve lasciarsi ingannare dal fatto che questa partecipazione si manifesti dapprima in forma screditate."
Con il video insomma si fanno al massimo i documentari, i reportage, la TV, ma non certo il cinema di cui si occupa la critica, che continua a esprimere giudizi di qualità con i parametri del gusto.

Di diverso avviso sembrava appunto il collettivo di Von Trier, che ha avuto il merito di cogliere per primo la portata della rivoluzione in atto con il bellissimo Festen - Dogme#1 di Thomas Vinterberg.

In breve tempo ha però fagocitato se stesso, riducendo l'uso della camera a mano e dell'illuminazione naturale a semplici alibi, nell'illusione di nobilitare lavori che rimanevano comunque scadenti.

A giudicare dalla maggior parte dei film che hanno seguito Festen, misurarsi con le regole del Dogma sembra più un gioco per principianti che una sfida con il modo solito di fare cinema, mentre il fronte della critica passa con indifferenza dall'elogio alla stroncatura, inventandosi differenze di poetica tra autori che sembrano prodotti in serie.

J. L. Godard ha dichiarato che se negli anni Sessanta avessero avuto il video, probabilmente avrebbero fatto un film al giorno, ma anche risparmiandosi il paragone con la Nouvelle vague, questi Dogmini fanno pensare ai danesi della Scherfig ed al loro italiano claudicante e senza futuro, incapace di cogliere sfumature e musicalità che esulano dal gran gioco dell'amore.
Scrive Benjamin: "FIAT ARS – PEREAT MUNDI, dice il fascismo, e, come ammette Marinetti, si aspetta dalla guerra il soddisfacimento artistico della percezione sensoriale modificata dalla tecnica. È questo, evidentemente, il compimento dell'arte per l'arte. L'umanità, che in Omero era uno spettacolo per gli dei dell'Olimpo, ora lo è diventata per se stessa. La sua autostraniazione ha raggiunto un grado che le permette di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim'ordine. Questo è il senso dell'estetizzazione della politica che il fascismo persegue. Il comunismo gli risponde con la politicizzazione dell'arte."

 


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