Meno divistica del solito – nemmeno l’aficionado George Clooney è stato della partita –, la 67esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia si è svolta in un clima da lavori in corso, dovuto al silente cantiere a cielo aperto per il nuovo Palazzo del Cinema, che ha inevitabilmente ridotto e compresso gli spazi per gli accreditati, oltre a segnare lo skyline del lungomare del Lido. La sala in meno a disposizione di pubblico e addetti ai lavori, quella che l’anno scorso era la cosiddetta Perla 2, si è fatta sentire, soprattutto in virtù di una programmazione densa che ha in definitiva imposto una scelta tra il concorso ufficiale e Orizzonti, sezione legata alle nuove frontiere della cinematografia mondiale a cui il direttore Marco Müller teneva particolarmente.
Questioni logistiche e organizzative a parte, che comunque identificano una seria problematica per il futuro della Mostra alla quale bisognerà – più prima che poi – fornire risposte adeguate, il livello dei film presentati, per quanto concerne l’esperienza diretta, quanto assolutamente parziale, di chi vi scrive, è stato decisamente buono. Rimangono le perplessità sulla vittoria di Somewhere di Sofia Coppola (vedi la recensione in questo numero, ndr), perché maggiormente convincenti sono stati il lirico Silent Souls del cineasta russo Aleksei Fedorchenko, vincitore dell’Osella per la splendida fotografia di Mikhail Krichman, che con i suoi due protagonisti di origini Merya, un’antica tribù ugro-finnica del lago Nero nella Russia centro-occidentale (tribù poi assorbita dalla popolazione russa), dà vita ad un racconto poetico sull’appartenenza, la memoria e l’amore, e il cileno Post Mortem di Pablo Larrain, già acclamato regista di Tony Manero. Nel film, uno dei più apprezzati dalla critica, si intrecciano il contesto offerto dalla grande storia, e nello specifico il colpo di stato in Cile del 1973 nel quale fu ucciso Salvador Allende, e la storia personale di Mario Cornejo (Alfredo Castro), anonimo funzionario che lavora all’obitorio dattilografando le autopsie dei medici forensi, coinvolto in un amore a senso unico con la ballerina di cabaret Nancy dalle conseguenze tragiche.
A far tirare il fiato sono state due commedie sui generis: innanzitutto l’italiano La Passione di Carlo Mazzacurati, l’agro-dolce parabola – non priva di momenti divertenti – di Gianni Dubois, regista in crisi di ispirazione interpretato da Silvio Orlando, che avrebbe la possibilità di rilanciarsi dirigendo una star della tv ma fallisce perché non riesce a trovare un’idea e che, oltretutto, si trova costretto a sovrintendere una sacra rappresentazione del venerdì santo in un paesino della Toscana per evitare di essere denunciato (la rottura di un tubo nell’appartamento che era solito affittare nel paese causa il deturpamento di un affresco del Cinquecento nella chiesa adiacente). Con un Giuseppe Battiston in stato di grazia, il film suscita molte risate, ma anche alcune interessanti riflessioni sul processo creativo, sul potere salvifico dell’arte e su diversi aspetti non propriamente positivi del nostro Paese. Altrettanto riuscito è Potiche di François Ozon, con una Catherine Deneuve in forma smagliante, Gerard Depardieu e Fabrice Luchini. Basato su una popolare pièce francese, il film è una farsa coloratissima che gioca con i generi ed è incentrata sulla presa di consapevolezza di una donna che, negli anni Settanta (ma gli echi sono senz’altro attuali), da elegante soprammobile senza obiettivi e identità (potiche appunto), diventa un’imprenditrice apprezzata anche dai dipendenti, acquisendo progressivamente sempre più potere e coscienza di sé.
Una delle rivelazioni del festival è senz’altro Incendies del regista canadese Denis Villeneuve, presentato nelle Giornate degli Autori e adattamento dell’opera teatrale di successo di Wajdi Mouawad, Incendi, che parte con un incipit folgorante: due gemelli, Jeanne e Simon, scoprono all’apertura del testamento della loro madre Nawal di avere un fratello di cui ignoravano l’esistenza e che il loro padre, creduto morto, in realtà è ancora vivo. Il loro compito sarà quello di ritrovare entrambi nel corso di una ricerca in Medio Oriente che si rivelerà sempre più dolorosa e violenta, anche se necessaria per ricomporre il mosaico rappresentato dal passato della loro famiglia.
Bellissimo e commovente è, infine, il documentario – presentato fuori concorso – che Martin Scorsese ha scritto e diretto insieme a Kent Jones pensando al suo maestro ispiratore Elia Kazan. Costellato da spezzoni di film, fotografie, letture dall’autobiografia di Kazan e dal suo discorso sulla regia letto da Elias Koteas, da immagini tratte da interviste ed eventi come la notte degli Oscar, A letter to Elia sorprende (ma non troppo, visti i precedenti) per il potere affabulatorio del grande cineasta americano che illustra, con annotazioni tanto personali quanto penetranti, gli elementi estetici, narrativi e filmici che più ama e apprezza in particolare in tre film di Kazan: Fronte del porto, La valle dell’Eden, pellicola di esordio di James Dean, e America, America. Attraverso la presentazione di un personaggio come Elia Kazan, Scorsese delinea al contempo un autoritratto sincero e appassionato: parlando, infatti, dei film del regista di origine greca che hanno influenzato profondamente la sua visione del cinema e del mondo, l’autore di Casinò svela anche molto di sé e della sua vocazione al cinema, toccando temi sempre affascinanti e ricchi di implicazioni come il processo creativo e il rapporto tra arte e vita.
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