Era mio padre PDF 
Marco Capriata   

Sam Mendes, alla sua opera seconda dopo lo straordinario successo di American Beauty – subito acclamato e ancora oggi considerato come uno dei migliori esempi di decostruzione del sogno americano, ma, per chi scrive, in realtà nientemeno che un’astuta opera visivamente accattivante, in cui il cinismo di fondo era frutto di un’abile costruzione registica messa in atto dal regista –, stavolta non ottiene l’attenzione critica e il successo sperati. Era mio padre è il titolo italiano, che rende fin troppo esplicito l’infausto esito per il protagonista Michael Sullivan (Tom Hanks), tradendo, come spesso, accade l’originale e linguisticamente più ambiguo Road to Perdition. Il film trae spunto da una graphic novel di Max Allan Collins, qui trasposta per immagini da Mendes, che si dimostra molto attento nella ricostruzione degli ambienti e delle atmosfere di un’America anni Trenta, dove a farla da padroni è una generazione di gangster irlandesi che ruota intorno alla figura patriarcale di John Rooney (Paul Newman). Ancora una volta una storia incentrata sul modello familiare americano, in questo caso sull’archetipo della famiglia malavitosa, con i suoi codici morali e le sue leggi, che alcuni critici superficialmente hanno accostato alle atmosfere de Il Padrino di Coppola. Ma ben lungi dalle intenzioni del regista voler riproporre un discorso di tal fatta.

Mendes punta nuovamente il proprio sguardo sul nucleo familiare, optando per un codice linguistico più classico, ovvero quello del dramma hollywoodiano, con l'intento di riscattare e rivalutare la figura paterna, quale unico referente fondamentale per tutti i suoi protagonisti, rispetto al padre depresso e in crisi di American Beauty, figura genitoriale massacrata dalla deformante maschera attoriale di Kevin Spacey. Il regista passa così da un furbo cinismo della prima ora ad una visione familiare decisamente accomodante e da cartolina, in cui si avvertono aspirazioni da tragedia. Ma questa volta il gioco si inceppa e Mendes riesce solo a regalarci immagini molto oleografiche e una fotografia impeccabile, il tutto condito da un’evidente mancanza di spessore tragico. È come se l'autore inglese non riuscisse a sfuggire da una predisposizione estetica in lui molto spiccata, che può soddisfare le esigenze dei produttori hollywoodiani, ma che non lascia il segno dal punto di vista dello spessore narrativo, riducendolo ad un regista fin troppo presto elevato sugli altari della gloria cinematografica.

Paul Newman, nel suo ultimo rilevante ruolo cinematografico, incarna la figura paterna per eccellenza, il padre padrone che dispensa vita e morte, e che si ritrova a dover coprire gli errori e le pazzie del figlio Virgil, un ancora ignoto Daniel Craig, pietra dello scandalo e motore della successiva tragedia che colpirà il sempre compassato Michael Sullivan, killer silenzioso la cui espressività può essere intesa come lavoro di sottrazione recitativa di Tom Hanks o, forse semplicemente, come mancanza di adesione con il personaggio da lui interpretato. Hanks, con il suo volto da buon americano medio, rappresenta il figlio ideale e idealizzato da Newman, il quale però saprà bene per quale figlio poi parteggiare nel momento delle decisioni drammatiche, forse perché i legami di sangue sono più forti di qualunque rapporto sublimante.

Mendes sembra voler cambiare costantemente le carte in tavola per tenere alta la tensione, mentre il rapporto tra Sullivan e suo figlio Michael Jr. (Tyler Hoechlin), che lo vede inconsciamente come il Lone Ranger delle storie da lui lette, si sviluppa e si alimenta  troppo retoricamente. Tutto sin dall’inizio appare prevedibile e scontato, dove persino la fuga stessa dei Sullivan è un anelare ad una salvezza che non può esistere in un luogo dal nome così nefasto come quello di Perdition. A contorno di tutta questa costante corsa verso la libertà, e allo sviluppo di un nuovo rapporto familiare, si pone la figura morbosa di Maguire (Jude Law), fotografo di morte e foriero della stessa, che appare come un antesignano di Wegee, ma con intenti meno cronachistici e più meramente voyeuristici, assoldato quale killer in caccia dei Sullivan. Personaggio luciferino che, come il diavolo di De Niro in Angel Heart, si diletta con giochetti di prestigio con la propria moneta porta fortuna, facendo risaltare le proprie affilate unghie demoniache, Maguire è l’anima nera del film, quale metafora piuttosto semplicistica e metafilmica del vampirismo del cinema mediante il mezzo fotografico, che cattura le anime dei defunti/vittime da lui stesso inquadrati.

Ed è forse il dramma dello stesso Mendes, regista accorto e formale nella costruzione delle inquadrature e nella scelta della fotografia dei suoi film, ma incapace d’infondere un’anima ai suoi drammi familiari.

TITOLO ORIGINALE: Road to Perdition; REGIA: Sam Mendes; SCENEGGIATURA: David Self; FOTOGRAFIA: Conrad L. Hall; MONTAGGIO: Jill Bilcock; MUSICA: Thomas Newman; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2002; DURATA: 117 min.

 


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