Quella sera dorata PDF 
Elisa Mandelli   

Tratto dall’omonimo romanzo di Peter Cameron, l’ultimo film di James Ivory ci porta nel cuore più suggestivo dell’America Latina. La storia è ambientata a Ochos Ríos, magnifica tenuta in Uruguay dove vive, quasi completamente isolato dal mondo, un insolito nucleo familiare. A tenerne insieme i membri, nonostante i contrasti e la profonda incapacità di comunicare, è la carismatica figura del defunto scrittore Jules Gund, suicidatosi proprio a Ochos Ríos dopo aver pubblicato un solo romanzo, La gondola. Adam (Anthony Hopkins), fratello di Jules, è l’ormai sessantenne primogenito della ricca coppia ebrea che anni prima, in fuga dalla Germania nazista, è giunta fino a lì con qualche gioiello e l’ormai leggendaria gondola acquistata a Venezia. Con lui vivono Pete (Hiroyuki Sanada), l’uomo che ama da una vita, e Caroline (Laura Linney), un tempo moglie dello scrittore, formalmente mai diventata “ex” ma nei fatti soppiantata dalla giovane amante Arden (Charlotte Gainsbourg), che da Jules ha anche avuto una figlia, la piccola Porzia.

Prigionieri di una memoria ossessiva e sacrale, avvinti dalla magica inerzia di un universo fuori dal tempo, i Gund trascinano la loro esistenza nel ciclico ripetersi di giorni identici, nella cui nebbia cercano di nascondere il logorio di una profonda decadenza economica, ma soprattutto morale. La loro instabile coesione è fondata sulla forza magnetica dell’assenza di Jules, su un vuoto ostinato e persistente, che si scopre però attraversato da un insospettabile quanto salvifico filo rosso: Omar Razaghi (Omar Metwally), laureato all’Università del Kansas, ha infatti vinto una borsa di studio per scrivere la biografia dello scrittore, per la quale deve ottenere l’autorizzazione dagli eredi. Di fronte al loro diniego, la fidanzata Deidre lo spinge ad andare fino ad Ochos Ríos nel tentativo di convincerli a cambiare idea. Sarà proprio lui, con la sua presenza timida e impacciata, a scuotere dall’interno il precario, eccentrico equilibrio dei Gund e a mettere in moto un sistema di forze che li aiuterà a liberarsi dalle maglie del passato, rendendoli finalmente capaci di immaginare, e di vivere, un futuro. Tuttavia, se la trama del film, così come quella del libro, è attraversata da un lento ma ineluttabile cambiamento, la sensazione che con più intensità si impone allo spettatore è quella di una incontrastabile indolenza, di una tenace immobilità che sostanzia sequenze lunghe e statiche, di certo ottimamente costruite, ma dall’impianto verboso e troppo rigidamente teatrale. Al punto che le scene finali, in cui il destino dei personaggi incontra una reale svolta, appaiono meccaniche e frettolose, del tutto fuori sintonia rispetto ai tempi lunghi e dilatati del resto della narrazione.

La vena più autentica e ispirata di Ivory emerge dunque nel descrivere un mondo immobile e come cristallizzato nella sua eleganza, nel tratteggiare caratteri tormentati e ricchi di chiaroscuri. Un universo in piena sintonia con quello del romanzo di Cameron, fedelmente trasposto con l’aiuto della sceneggiatrice di sempre Ruth Prawer Jhabvala (che lavora con lui dagli anni Sessanta). L’abilità nel tradurre le parole in immagini è impossibile da negare ad un regista che ha fondato la quasi totalità della sua produzione su adattamenti letterari (celeberrimi sono quelli da Henry James e E. M. Forster), eppure la rispettosa aderenza alle fonti sembra ormai essere una sorta di gabbia dorata di cui il suo cinema è rimasto prigioniero. Se davanti al film lo spettatore prova la soddisfazione di ritrovare in (bellissime) immagini il mondo che aveva incontrato sulla pagina scritta, si sente la mancanza di un altro tipo di piacere. Un piacere più sottile, più rischioso forse, ma certo più gratificante: il gusto dello scarto che si crea tra i due universi, letterario e cinematografico, il brivido di una distanza irriducibile per quanto a volte minima, la consapevolezza che è proprio in essa che si può scoprire il senso più autentico di entrambe le opere.

Un film di rara ricercatezza formale, in cui però il complesso della messa in scena, dai ben orchestrati dialoghi all’impeccabile recitazione degli attori, dall’elegante ricostruzione degli ambienti fino all’azzeccata colonna sonora, si dissolve dietro la patina della propria perfezione stilistica. Esattamente come accade nell’universo anacronistico ma ancora infinitamente seducente di Ochos Ríos, i film di Ivory si collocano fuori dal tempo, in un’esplorazione di temi (la ricerca di se stessi, l’assunzione della responsabilità del proprio destino, ma anche l’universalità dell’amore, al di là del rapporto uomo-donna, marito-moglie) di cui non resta che la facciata esteriore, un sorta di pallido elenco privo di vera sostanza. La forma trionfa, il contenuto (e le emozioni) sembrano invece scivolare via.

TITOLO ORIGINALE: The City of Your Final Destination; REGIA: James Ivory; SCENEGGIATURA: Ruth Prawer Jhabvala; FOTOGRAFIA: Javier Aguirresarobe; MONTAGGIO: John David Allen; MUSICA: Jorge  Drexler, Richard Robbins; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2009; DURATA: 117 min.

 


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