Spielberg: il fanciullino, l’alieno e il padre (alieno) PDF 
di Maurizio Ermisino   

Gli alieni, certo, ora sono cattivi, non sono più dolci e pacifici come E.T., e questo lo sapevamo. Ma per quanto li vediamo gli alieni sulla scena de La guerra dei mondi? Pochissimo, in una scena di qualche minuto. A Spielberg non sembrano interessare: a lui sembra interessare di più la dinamica familiare, come in fondo in ogni suo film.

Ma se anche gli alieni si facessero vedere di più, sarebbe Ray Ferrier, il padre dei due ragazzi protagonista del film, a nasconderli alla vista della figlia. Ray capisce che la piccola Rachel non deve vedere, è troppo piccola, può spaventarsi a morte. Durante la prima fuga, quella dalla casa di Newark, Ray le chiede di chiudere gli occhi e non guardare niente, qualunque cosa succeda. In un secondo momento, durante la permanenza nella cantina di un paranoico impersonato da Tim Robbins, le benda addirittura gli occhi, chiedendole di cantare una canzoncina per non sentire cosa stia accadendo.

Negare la vista, e poi anche l'udito, è il primo modo per isolare la figlia dal mondo circostante, per proteggerla (e pensare che Minority Report era basato sulla domanda "riesci a vedere?" con tutte le sue implicazioni…). Ray così prende coscienza del suo essere padre, e il pericolo alieno è la molla che gli permette di occuparsi dei figli. Fino all'attacco era un genitore divorziato, che il figlio maggiore non chiamava nemmeno "papà", ma solo "Ray" (un classico del dramma familiare); uno che se i figli avevano fame diceva loro di ordinarsi da mangiare; uno che non sapeva nemmeno che la sua bambina fosse allergica al burro d'arachidi. "E' una storia che parla di sopravvivenza, di un padre che cerca di portare al sicuro i propri figli", ha dichiarato Spielberg. "E' un film da dedicare ai nostri figli per tutto il bene che gli vogliamo. E a mio giudizio rivela bene i tuoi sentimenti di genitore, quando ti trovi a dover decidere cosa fare e fin dove spingerti per tuo figlio", gli ha fatto eco Cruise.

Ma in fondo non è stato così per ogni film di Spielberg? Quale sia stato il rapporto con suo padre e con la sua famiglia è a noi poco noto, ma dalle sue opere ci appare chiaramente come la figura paterna sia per lui una sorta di ossessione, di volta in volta qualcuno da raggiungere, da compiacere, da superare. La famiglia di E.T. era ad esempio una famiglia incompleta, in cui i tre bambini vivevano con la madre divorziata: il padre è già una figura inesistente, un vuoto che forse sarà colmato dallo scienziato che cerca di catturare l'extraterrestre; ma non potrà che essere una figura sussidiaria del padre, qualcuno venuto dall'esterno, estraneo e quindi "alieno". Cerca i genitori, in particolar modo la madre, perché con il padre non ha mai stabilito un grande rapporto, il piccolo David, il bambino "mecha" (cioè artificiale) di A.I. Intelligenza artificiale. Un bambino meccanico, ma paradossalmente dai sentimenti più forti di quelli degli umani (il suo amore è un programma, quindi è incondizionato). E anche suo padre è a modo suo "alieno", perché in realtà è lo scienziato che lo ha creato, impersonato da William Hurt. Anche qui, dunque, c'è un rapporto che sostituisce quello che dovrebbe essere quello padre/figlio normale; anzi, ce ne sono due, visto che per un certo periodo la sua guida è il mecha Gigolo Joe (Jude Law). La stessa cosa accade in Prova a prendermi: anche qui assistiamo a una famiglia che si sfascia all'inizio del film, una madre fedifraga, un padre che è un fallito, e la fiducia di un figlio nel mondo degli adulti che crolla da subito. E il rapporto che si instaura con l'agente FBI interpretato da Tom Hanks è ancora una volta la ricerca di un padre che gli manca. E anche il Viktor Navroski di The Terminal è pur sempre un figlio che cerca di raggiungere in qualche modo il padre, cercando di realizzare il suo sogno, quello di completare la sua collezione di autografi di grandi jazzisti.

Steven Spielberg ha sempre sviluppato una grande fantasia, e in ogni suo film traspare un'immaginazione da bambino mai del tutto cresciuto. Storie come E.T. e Incontri ravvicinati del terzo tipo sono viste con gli occhi innocenti e inclini alla meraviglia dei bambini. E in quest'ottica anche l'alieno non può che essere amico, gentile, un compagno. Come l'amico immaginario che ogni bimbo infelice, o semplicemente solo, si crea con la sua fantasia. La fantasia di Spielberg diventa così l'ancora di salvezza per dei personaggi soli e abbandonati, forse come lo è stato lui. E Peter Pan (Hook) non è forse il simbolo della fuga dalla realtà, di un bambino che non vuole crescere? Così il bambino di E.T. fa amicizia con un extraterrestre; il Frank Abagnale di Prova a prendermi basa la sua vita sulla finzione, su un eterno gioco. E il piccolo "mecha" David, moderno Pinocchio, cerca una creatura immaginaria, come la Fata Turchina, per farsi amare dai genitori.

Ma anche nelle opere apparentemente più "adulte" di Spielberg troviamo l'anelito a dimostrare al padre le proprie capacità: figlio di un ebreo, Spielberg vuole forse dimostrare al padre di non aver dimenticato le proprie origini, onorando l'Olocausto in Schindler's List. E dimostrandogli di poter combattere anche lui la propria Seconda Guerra Mondiale, come e meglio di lui, girando Salvate il soldato Ryan.

Ne La guerra dei mondi, però, accade un cambio di prospettiva, che avevamo già notato in Jurassic Park e Minority Report: il punto di vista da cui osserviamo la storia è quello di un padre, non di un figlio. E non a caso si tratta di un padre che rifiuta il suo ruolo, o ha compiuto dei gravi errori nell'adempierlo: in Jurassic Park il personaggio di Sam Neil dichiara da subito di odiare i bambini, salvo ricredersi alla fine della vicenda, facendo da padre a dei pargoli non suoi (ancora una figura sostitutiva); in Minority Report John Anderton è un padre che ha perso il figlio, che gli è stato sottratto da sotto gli occhi (che per una volta non sono stati capaci di "vedere"), e non sa darsi pace per questo (e a sua volta instaura un rapporto filiale con il creatore della pre-crimine, Max Von Sydow). Così anche il Ray Ferrier de La guerra dei mondi è un padre che fino a quel momento è stato assente, immaturo, inaffidabile. E ora ha la sua occasione di riscatto. E in questo senso anche la mutata visione dell'alieno, da amico ad aggressore, è sì figlia di un pessimismo acuito dai tempi che stiamo vivendo, ma soprattutto il bisogno, dopo quello di un amico immaginario, di un nemico che dall'esterno arrivi a unire, l'umanità, ma soprattutto la famiglia, a fornire al padre il pretesto per avvicinarsi ai propri figli, e da "alieno" diventare vicino, tornare a essere padre.

Forse questi tre personaggi che abbiamo citato vogliono rappresentare lo Spielberg che guarda se stesso, e oltre che figlio si rende conto di essere padre, e cerca di esserlo nel migliore dei modi. O forse sono la speranza che il proprio padre si ravveda, e si accorga di avere un figlio, un fanciullino (nell'accezione che usava Pascoli) sensibile, appassionato e pieno di fantasia.

 


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