Il figlio dell'altra PDF 
Monica Pentenero   

Da cosa dipende chi siamo e chi scegliamo di essere? In base a che cosa intraprendiamo una strada al posto di un’altra? Quanto conta il sangue che scorre nelle nostre vene e quanto l’esempio delle persone che ci crescono e che assumiamo come modello positivo o negativo? L’affetto si può dare e togliere a comando? Queste sono alcune delle domande che si pone Il figlio dell’altra, interessante produzione francese diretta da Lorraine Lévy e ben interpretata da un cast variegato. Sono interrogativi che sarebbero probabilmente sufficienti allo sviluppo di un progetto cinematografico, ma la vicenda presentata è invece molto più complessa e per nulla scontata.

Il punto di partenza non sarà originale, ma sicuramente è da incubo: uno scambio di persona scoperto quasi diciotto anni dopo la nascita dei due bambini coinvolti. A rincarare la dose, una grande distanza che separa le due famiglie coinvolte in questo errore surreale, dal momento che sono l’una palestinese, costretta a vivere in una sorta di ghetto in Cisgiordania, l’altra israeliana, di Tel Aviv, il cui capofamiglia lavora per il Ministero della Difesa. Il tema è quanto mai attuale ed è reso ancora più interessante dal modo in cui è trattato da Lévy, ossia in assenza, senza mostrare nulla dei conflitti che devastano quelle terre, ma concentrandosi sulle differenze evidenti fra i due stili di vita e fra i territori da una parte e dall’altra del confine. Davvero apprezzabile è la scelta di non presentare i ragazzi e le rispettive famiglie in maniera speculare, ma partendo da una, quella israeliana, per poi arrivare a quella palestinese attraverso un procedimento graduale che sottolinea quanto i due nuclei, che tutto vorrebbero tranne essere costretti ad interagire fra loro, siano inscindibilmente legati. A proposito della scelta dell’assenza è singolare anche la terminologia utilizzata dai personaggi: si contano col contagocce le volte in cui vengono nominati ebrei, arabi, Palestina e Cisgiordania. A parte i tempi morti, immancabili in questo filone del cinema francese - e che possono essere considerati funzionali o fastidiosi dal singolo spettatore -, Il figlio dell’altra propone una riflessione sulla diversità e sull’identità mai scontata, oltre a offrire numerose sfaccettature che si prestano a stimolanti considerazioni. Joseph e Yacine non si conoscono ma si sentono da subito molto vicini, il loro è un legame non convenzionale ed emotivamente ricchissimo; le mamme che li hanno partoriti e allevati instaurano da subito un rapporto che solo due madri saprebbero portare avanti con una tale intelligenza e delicatezza, mentre i padri vivono in maniera differente lo shock che sconvolge le loro famiglie e vorrebbero mantenere il rassicurante status quo nel quale hanno trovato rifugio sino a quel momento. Interessante il fatto che non ci siano valvole di sfogo, nessuno cui dare la colpa, poiché i due neonati si trovavano nella stessa incubatrice quando l’ospedale fu colpito da un bombardamento il 23 gennaio 1991 e nel caos seguito all’evacuazione dell’edificio qualcuno fra gli infermieri ha commesso l’infausto errore. Intollerante e intollerabile la reazione di Bilal, fratello di Yacine, che istantaneamente smette di considerarlo un membro della famiglia e vede in lui solo un nemico. Trova naturalmente spazio la religione, in particolare nella grottesca conversazione tra Joseph e il rabbino che l’ha seguito durante tutto il suo cammino all’interno della comunità ebraica, così come non restano esclusi riferimenti all’odio che separa ebrei e arabi coinvolti nella Questione Palestinese.

Il figlio dell’altra è giocato su forti contrapposizioni: religione, etnia, ricchezza/povertà, fermezza/spensieratezza, vena artistica/rigorosità scientifica, spiaggia e prati/filo spinato e muri di cemento. Queste dicotomie non vengono risolte con un finale idilliaco né con un exploit tragico (l’aggressione di Joseph è solo un pretesto per accelerare la situazione), ma affrontate con un percorso che presenta evidenti difficoltà, ma anche grandi possibilità di apertura, arrivando a un finale propositivo che fa ben sperare e, soprattutto, evita i cliché affidando l’ultima riflessione a un pensiero che Yacine rivolge Joseph, con una costruzione dell’inquadratura che associa la voce fuori campo di Yacine all’ultimo piano dedicato al solo Jospeh, alle cui spalle si stende Tel Aviv: è lui il personaggio che lo spettatore ha conosciuto e che quindi chiude in maniera circolare il film, come a circoscrivere lo spaccato di vita che Lévy ha saputo rappresentare così bene.

 


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