Gocce d’acqua su pietre roventi PDF 
di Lorenzo De Nicola   

La capacità di François Ozon di cambiare registro ad ogni sua opera è veramente eccezionale. Se Sitcom, la famiglia è simpatica (1998) tendeva ad essere un film grottesco dai toni forti e Les amants criminels (1999) un noir sui generis, Gocce d’acqua su pietre roventi si propone - nella sua forte connotazione di kammerspiel – come l’ennesimo voltafaccia di un regista che sembra voler continuamente stupire.
Tratto da un’opera teatrale giovanile di Rainer Werner Fassbinder (“Tropfen auf heisse Steine”), mai allestita dal regista prematuramente scomparso, questa pellicola s’inserisce perfettamente nella poetica del francese continuando un cammino fatto d’ambiguità e provocazione. E, per proseguire nella medesima direzione, questa volta decide di omaggiare il maestro tedesco. Anzi, si potrebbe affermare che Ozon, con questo film, rivolga una vera e propria dichiarazione d’amore nei confronti di Fassbinder, un tributo personale e delicato che costituisce uno dei punti di maggiore interesse di quest’opera.

Il francese riprende il dramma di Fassbinder - incompiuto e con alcuni personaggi, come quello di Vera (Anna Thomson), delineati sbrigativamente - e lo fa suo potenziandone alcune parti e abbandonandosi ad un divertente gioco di citazione e rielaborazione personale. Il regista è consapevole che andare a disturbare un mostro sacro come Fassbinder può essere un’operazione se non proprio pericolosa, quantomeno controproducente. Per questo motivo rimane sempre sopra le righe rileggendo in chiave moderna le logore influenze di un teatro dell’assurdo cui era sicuramente debitrice l’opera del tedesco. Ciò potrebbe risultare in contraddizione con le scelte operate da Ozon che decide tanto di girare un film in costume (le splendide scenografie sono state curate da Arnaud De Moleron, mentre i costumi da Pascaline Chavanne), quanto di imporre al suo lavoro una pesante impostazione teatrale che non si traduce solo nella semplice divisione in atti, ma anche nel rigoroso lavoro della messa in scena che predilige la scrittura semplice e ripetitiva. Un insistente utilizzo di inquadrature frontali rimanda direttamente al punto di vista classico dello spettatore teatrale e il minimale utilizzo della location (unico luogo dove si svolge la scena è appunto la casa di Leopold) non fa che sottolineare la volontà finale dell’autore.

Ma si peccherebbe di ingenuità nel considerare le scelte di Ozon così unidirezionali. Al contrario, proprio per il suo gusto tutto particolare per l’equivoco e l’ambiguo, il francese adotta soluzioni polisemantiche. Così, se da una parte – come già accennato –, la casa di Leopold (Bernard Giraudeau) potrebbe essere trasposta interamente sulle assi di un palcoscenico, dall’altra, la sua dimensione costringente presenta valenze che si riferiscono direttamente alla messa in scena. L’appartamentino dove si svolge questo dramma a quattro inizialmente si connota come la soluzione di libertà per il tenero e ingenuo Franz (Malik Zidi), per poi trasformarsi subito in una vera e propria prigione, un acquario popolato da pesci rossi e squali famelici, un ring dove si sta combattendo un incontro impari. Non è un caso che sia il salotto sia la stanza da letto presentino ampie pareti a mattoni scoperti che, col progredire della storia, diventano indirettamente sempre più minacciosi.

Il delizioso appartamento di Leopold, atto dopo atto, assume le fattezze della tana di un lupo dalla quale non si può scappare. La stessa Vera non riesce ad aprire la finestra per aerare la stanza carica di morte: la donna ormai è in trappola e l’espressione lascia presagire come, dopo l’accettazione dalla morte della sua sessualità, si stia apprestando a seguire il povero Franz anche in quella fisica e spirituale. Sembra quasi che l’orco che aveva imprigionato nella capanna del bosco i due giovani fuggitivi ne Les amants criminels abbia deciso di trasferirsi in città, affinarsi e proseguire la sua attività.
Ma purtroppo Ozon non narra una vicenda di mostri e di demoni, ma le semplici e drammatiche dinamiche del rapporto di coppia. Questo è indagato come un gioco di forze contrapposte, una continua schermaglia nella quale uno dei due contendenti deve perire. Leopold, cinico e astuto amante, non impiega troppo tempo a legare a sé l’ingenuo pupillo e a ridurlo in un’imbarazzante condizione di schiavitù. A sua volta Franz cerca di mettere in atto il medesimo trattamento con Anna (Ludivine Sagnier), senza però riuscirvi a causa della sua debolezza. Non importa raggiungere la felicità, ciò che conta è sopravvivere a quel gioco perverso di prevaricazioni messe in atto dal vivere insieme la quotidianità. In amore non ci sono vincitori, solo sconfitti. In questo modo, ispirandosi, come egli stesso ha affermato a Il diritto del più forte (1974), il regista cerca di evidenziare i meccanismi che muovono le relazioni amorose dei suoi personaggi attraverso un attento lavoro di sceneggiatura e, al tempo stesso, un rigoroso studio dell’inquadratura. Non è un caso che lo specchio diventi un oggetto ricorrente nella diegesi, moltiplicando le figure dei protagonisti.

Ozon - di cui abbiamo già visto la sua quarta opera Sotto la sabbia (infatti Gocce d’acqua su pietre roventi giunge nelle nostre sale con un certo ritardo essendo stato presentato in concorso al Festival di Berlino 2000 e poi transitato lo stesso anno nella retrospettiva Orizzonte Europa del Torino Film Festival) - confeziona un’opera che dietro una ingannevole semplicità nasconde un lavoro attento e complesso. La ricerca formale si sposa con i contenuti in cui le relazioni interpersonali e interclassiste diventano l’oggetto di uno studio attento e spietato. Il regista francese continua pertanto a stupire proponendo uno stile elegante e al tempo stesso aggressivo.

 


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