Un lento carrello segue la ringhiera su una terrazza affacciata sul mare di Napoli e, indugiando su dei fiori, le note di Dadaumpa scandiscono il tempo di un macchina da scrivere. Ticchettando su tasti, il film mostra il suo primo uomo, un idealista, puro fino all’utopia, che cerca di barcamenarsi tra il lavoro di insegnante e il portare a termine i romanzi di uno scrittore che ha perso la sua vena. Quando il ministro Botero lo cerca perché scriva i suoi discorsi, Luciano non può rifiutare e raccoglie idee, ascolta i silenzi, si guarda intorno senza sapere bene in cosa consista il suo lavoro.
Moralista, beffardo, sagace e rigoroso, uscendo un anno prima dello scandalo di Tangentopoli, Il portaborse si fa metafora della Prima Repubblica e racconta come coesistano, ripugnati l’uno dall’altro, idealismo e cinismo, utopia e pragmatismo, poesia e biechi discorsi politicanti. Lucida, esigente e disincantata, Luchetti mette in scena una regia tanto asciutta e rigorosa da ridursi all’assenza perché ne emerga una sceneggiatura ferrea e perfettamente scrupolosa, in cui i personaggi e i dialoghi che li accompagnano sembrino verità indissolubili, realtà tanto granitiche da reggersi da sole. “Io preferisco uomini brillanti ed estrosi anche se un po’ mascalzoni a uomini grigi, noiosi ma onesti perché alla fine il grigiore, la noia e anche l’eccessiva onestà faranno senz’altro più danno al paese”. Così, di fronte al discorso pubblico dell’uomo politico Botero, un occhio puro, idealista e un po’ sonnacchioso si risveglia quando l’uomo per cui lavora recita questa frase. E’ una regia morale quella di Luchetti, tanto cara a Moretti, in cui ogni elemento si misura con una scelta etica, in cui il principio regola i personaggi e le loro scelte private e pubbliche.
Nei manifesti che lo vedono tronfio e borioso, l’ultima scena in cui compare il politico corrotto sembra incontrarsi con un'altra scena finale di un film girato circa quindici anni dopo, Il Caimano, in cui ancora Moretti, qui regista di se stesso, pare rivolgersi direttamente a chi è seduto in sala, tanto da lasciare attoniti ricordando il film di Luchetti. Così arriva la fine e, nella sua teatralità e amarezza, la scena, guardando tutto dall’alto, racchiude i suoi personaggi, ora disillusi e rabbiosi mentre si scagliano contro la macchina di lusso regalata da Botero. Apparendo come un film necessario, intimo e credibile, emblema di un periodo recente, Il portaborse sceglie di ricorrere poco alla visibilità, mostrandone la sua assenza, come se volesse concedere ai rari movimenti di macchina di ritagliarsi lo spazio necessario ad incorniciare ciò che appare violentemente evidente, le parole, i visi che le recitano, la luce che si poggia sulle figure grottesche, beffarde, ironiche e incantate di Nanni Moretti e Silvio Orlando. Così come amava Truffaut, Luchetti sembra mettere in scena attraverso il cinema un piccolo atto d’amore rivolto agli spettatori, quella meravigliosa prosa poetica che sa raccontare al tempo stesso la bellezza, la tragicità e l’ironia della vita.
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