Il treno per il Darjeeling: what do we pray for, now? PDF 
Umberto Ledda   

ImageLa realtà parla troppo
Vista dallo sguardo di Wes Anderson, la realtà parla troppo. E a voce troppo alta. L'inquadratura tipica del regista texano/newyorchese, ormai diventata suo marchio di fabbrica, si esibisce invariabilmente in un tripudio di segni, simboli, immagini artefatte dalle simmetrie affollate, profusione di oggetti apparentemente insignificanti ma resi simbolici da una compulsiva ricorrenza geometrica. Anche le scelte cromatiche collaborano a questa sovrabbondanza di significanti: colori simbolici, puri e disposti in campiture ordinate, giocati sulla ricorrenza di temi e di accostamenti. Colori del genere non possono non essere lì per dire qualcosa. Si guardi la scena dell'aeroporto in The Darjeeling Limited: i tre protagonisti si muovono di fronte ad un muro disseminato di scritte e di avvisi. Tante, ognuna chiusa razionalmente dal suo cartello blu. I caratteri sono indiani: del tutto incomprensibili per il pubblico occidentale cui è destinato il film. Allo stesso modo, il pigiama di Jason Schwartzman porta il nome dell'hotel dove ha soggiornato per un anno prima dell'inizio della storia, l'Hotel Chevalier. Per comprendere la provenienza della scritta occorre aver visto il cortometraggio che a Venezia introduceva il film. Altrimenti rimane un elemento che dà la sensazione di dover significare qualcosa di importante, e non si hanno gli strumenti per leggerla. La realtà parla così tanto da dare la sensazione che abbia necessariamente qualcosa da dire, ma con la frustrazione di non poterne mai organizzare la complessità in un senso compiuto: ogni inquadratura presenta una quantità di elementi simbolici e significanti tale da non poter essere letta e decodificata prima che ceda il posto all'inquadratura successiva. Troppo da capire e interpretare, troppo poco tempo per farlo: maggiore il numero dei significanti, maggiore è la sensazione di totale inafferrabilità del significato. Anderson crea la sensazione di un senso sotterraneo nascosto nella realtà che allestisce davanti alla macchina da presa. Ma moltiplica gli stimoli fino a rendere impossibile l'individuazione di questo senso. Una dimostrazione per assurdo dell'impossibilità di far chiarezza sull'universo.

ImageIl cinema in forma di catalogo
La realtà di Anderson, per quanto incomprensibile, ha forma di catalogo. E del catalogo possiede le caratteristiche: rigore espositivo, freddezza della trattazione, geometria nella presentazione. Il tutto elevato ad uno standard maniacale. L'occhio di Anderson punta a catalogare ciò che mette in scena, con una propensione spiccata all'enciclopedismo. Collezionista di immagini, le inquadra come farebbe un ricercatore con i reperti che ha riunito. Dall'alto, secondo una precisa norma di perpendicolarità. In modo che la distorsione percettiva sia nulla, il rischio dell'errore di parallasse scongiurato. I suoi movimenti di macchina sono geometrici, spesso compiono spostamenti sull'asse di novanta gradi: spostamenti rapidi, panoramiche a schiaffo da una geometria all'altra. Anderson è un regista che preferisce dividere, separare, scandire, invece di associare e accostare: quando lo fa, utilizza carrellate lineari, semplici, senza generalmente contravvenire alla perpendicolarità dello sguardo. Usa l'obbiettivo con pretese scientifiche: come se si illudesse di non interpretare, di mostrare le cose come sono, come attraverso un microscopio, secondo una ferrea razionalità cartesiana. Le sue inquadrature sono costruite da linee, e le sue linee categorizzano, chiudono, creano insiemi e sottoinsiemi. Spesso costruiscono un casellario per l'abbondanza di oggetti ed elementi presenti nell'inquadratura. Creano un ordine all'affastellamento di significanti, allestiscono un ordine al disordinato tripudio di oggetti, simboli, scritte, campiture cromatiche, azioni. Se la realtà è molteplice al punto da disperdere i troppi segni che manda, l'occhio della macchina da presa intraprende un processo ossessivo di riordinamento, allo scopo di imbrigliarla in un senso organico, compiuto. Linee e schemi visivi, giochi di ricorrenze, strutturazione esasperata, sono modi per arrivare a ricondurre all'unità il magma di informazioni e messaggi. Un modo per riportare l'incommensurabilità e il fluire del reale ad una calcolabilità, ad un senso tangibile. Per convincersi che esista un senso dietro alla frustrante abbondanza di stimoli caotici.

ImageL'ordine è un disturbo della sfera emotiva
L'universo che Anderson mette in scena è caotico. Il procedimento filmico attuato dal regista tenta ossessivamente di mettervi ordine. Di questa stessa ossessione sono schiavi tutti i protagonisti dei suoi film. Il Max Fisher di Rushmore è uno studente ossessionato dalla conoscenza e dal controllo razionale. I figli di The Royal Tenenbaums hanno trascorsi incredibili da enfant prodige fattisi da soli, a dieci anni, con puntiglio maniacale e ossessiva applicazione. Francis Whitman, il maggiore dei tre fratelli protagonisti di The Darjeeling Limited, soffre di una compulsione all'organizzazione e all'ordine ereditata dal padre. E così via. La caratteristica comune è una necessità compulsiva di ordinare un esistente che sfugge e presenta più stimoli di quanti non possano essere afferrati. Da questo punto di vista, Anderson sembra un regista formalista e freddo, con una propensione all'analisi saggistica e razionale del disagio della modernità. Indubbiamente lo è. La sua opera occupa un posto molto preciso nello scenario del postmoderno, disegnando un ritratto puntiglioso di un universo ingoiato e messo in crisi dalle sue stesse forme di comunicazione. Ma è altrettanto innegabile che il suo cinema lavori anche ad un altro livello, meno filosofico, più umano. I suoi film parlano di padri e di figli, vi si respira una disperazione autentica e un coinvolgimento emotivo sincero, difficilmente accostabili al formalismo. Il suo cinema parla di amore, di amicizia, di sentimenti. La costante ricerca dell'ordine messa in atto narrativamente e registicamente nasconde una doppia valenza: se da una parte porta con sé un discorso ontologico e, appunto, saggistico, dall'altra assume il significato più intimo di una incapacità emozionale, di una rinuncia all'aspetto irrazionale dell'esistente. Guardando i film di Anderson, la sensazione dominante è quella di un caos a malapena trattenuto. La compulsione catalogatoria è troppo esasperata per apparire naturale: l'ordine appare artificiale, disperato, un ripiego applicato con maniacalità paranoica. Dietro all'ossessione per il controllo del reale sembra nascondersi una debolezza nell'affrontarlo in altro modo. C'è qualcosa di profondamente grottesco nelle manie dei suoi personaggi, nelle loro regole bizzarre, nei loro rituali. Il loro è un mondo che evita qualsiasi forma di empatia a favore di un modello matematico, calcolabile, regolamentato: e c'è in questo evitare un elemento disperato di inadeguatezza. Sono persone incapaci di comunicare, che mascherano questa incapacità con un approccio freddo, razionale, ma che percepiscono il sostanziale fallimento della loro strategia. La volontà di ordine, in Anderson, è un disturbo della sfera emozionale. Il suo è un mondo di disadattati incapaci di affrontare l'esistenza, spaesati, condannati ad una razionalità arida e maniacale, incapaci di empatia nei confronti del mondo. Tutti, invariabilmente, sono infelici.

ImageWhat do we pray for, now?
Il cinema di Anderson torna invariabilmente sul tema della paternità. In particolare, l'evento che scatena l'azione ha sempre a che fare con l'invecchiare, e poi il morire, dei padri, di solito l'unico punto di riferimento nella palude esistenziale e comunicativa dei personaggi. Ne I Tenenbaum c'è un vecchio capofamiglia che si finge morente: alla fine del film, fra l'altro, muore davvero. Le avventure acquatiche di Steve Zissou ha a che fare con il declino di un padre e la tardiva conoscenza di un figlio. In un mondo dove i padri incarnano l'ossessione di Anderson  di imbrigliare il mondo in strutture razionalizzabili e regolabili, dove nulla è lasciato al caso o alla sensibilità, la loro morte, o il venir meno del loro rigido controllo, porta alla crisi di questo sistema e alla necessità, per chi sopravvive, di trovarne un altro. Fare i conti con le proprie emozioni, con la parte incommensurabile della vita. Tutti i film di Anderson sono storie iniziatiche. In particolare, The Darjeeling Limited è il culmine di questa tendenza, l'esempio più chiaro e compatto. C'è un padre morto, che non si vede mai. E ci sono tre fratelli, che cercano di elaborare il lutto. Un anno dopo la morte del genitore, ognuno in preda ad una feroce crisi esistenziale (il maggiore viene da un tentativo di suicidio che gli ha rovinato il volto, il secondogenito sta per diventare padre senza volerlo ed è di fatto scappato di casa, il terzo ha passato l'anno precedente chiuso in solitudine in un albergo di lusso), i tre organizzano un viaggio in India cercando di rimettere a posto i cocci delle loro vite, di ritrovare la madre ritiratasi nel frattempo in convento, di recuperare i loro rapporti di fatto troncati dopo il funerale del padre. Incapaci di elaborare il lutto, i tre orfani Whitman organizzano il loro disordine intorno agli oggetti che richiamano la presenza del genitore: le sue valigie, i suoi occhiali e il suo rasoio, di cui si disputano con ferocia il diritto d'uso: paiono fermamente convinti che il possesso degli oggetti sostituisca il possesso delle emozioni che questi oggetti portano con sé. Spaesati e incapaci di provare empatia per un modello di esistenza, quello orientale, a loro del tutto estraneo (il maggiore organizza momenti di preghiera che si risolvono in vacue e superficiali discussioni, nella convinzione che il pregare si risolva nella postura impettita e nelle mani giunte, che l'avvicinamento al segreto dell'esistenza possa essere ricondotto ad un manuale preciso di comportamento), si aggirano in un mondo che non comprendono e che non riescono ad afferrare. Comunicano secondo balletti di menzogne ed egoismi, in un continuo variare di alleanze che evidenzia la loro sostanziale solitudine. Sembrano convinti che un buon inventario delle emozioni li dispensi dal provarne. Sono litigiosi, egoisti, incapaci di fidarsi l'uno dell'altro. La loro caratterizzazione è grottesca. Come tutti i personaggi di Anderson, il loro aspetto esterno ricorda l'estrema bidimensionalità del fumetto, il loro comportamento è antirealistico, le loro azioni immotivate ed estreme. Come se fossero strutturati per essere macchiette esagerate e ridicole. Eppure, si tratta di un bidimensionalismo dotato di una profondità latente. La caratterizzazione esasperata e caricaturale nasconde psicologie complesse, e un senso di infelicità e di disperazione lacerante. Il loro atteggiamento costante di razionalismo puntiglioso è sabotato da una sotterranea necessità di empatia, di affetto, di fratellanza. Darebbero qualsiasi cosa per affidarsi a qualcuno e per potersi fidare di qualcuno. La religione appare come una sorta di miraggio che si nega, così come tutto ciò che appartiene alla sfera emotiva, irrazionale. Ad un certo punto, uno dei tre fratelli chiede agli altri: what do we pray for, now? Incapaci di prendere atto del definitivo venir meno di qualsiasi punto di riferimento esistenziale, cercano sostituti alla figura paterna un po' a casaccio, senza convinzione, con molta malinconia.

ImageFare i conti con la morte
Personaggi così non possono salvarsi da soli, e non attraverso ciò che credono possa salvarli. I tre sono partiti alla ricerca della madre, ritiratasi fra le montagne, e di un misticismo che lenisca il loro sbalestramento esistenziale. Ma sono inadatti alla preghiera e la madre di fatto scappa appena li vede: soltanto il tempo per una inutile e superficiale discussione che rivela come tutto il loro viaggio di maturazione interiore sia stato in gran parte un ridicolo tentativo di aggrapparsi a qualcosa, a qualsiasi cosa, pur di sopravvivere. Non è ciò che credono a salvarli, ma un fatto imprevisto e drammatico. Un avvenimento che ha a che fare con la conoscenza della morte, nella persona di un bambino che i tre non riescono a salvare dall'annegamento. Solamente assistendo ad un funerale in cui hanno necessariamente un ruolo (i tre proprio a causa delle loro ossessioni e delle loro manie avevano perso il funerale del padre, e il montaggio che accosta il flashback delle esequie paterne con quelle del bambino è uno dei momenti migliori del film) non possono più evitare di affrontare il lutto del padre. E solo grazie a questo imprevisto che la perdita di punti di riferimento, prima percepita come un incubo proprio per la disperata capacità di affrontarla, si trasforma in libertà. È la consapevolezza della morte altrui, e per traslato della propria e di quella del padre, che salva i fratelli Whitman, così come nella famiglia Tenenbaum era la presunta agonia del genitore a far esplodere gli assurdi equilibri dei figli, a farli uscire da un'empasse emotiva lunga anni, a spingerli ad affrontare seriamente le proprie vite. La morte ha un ruolo particolare nel cinema di Anderson: la sua presenza è discreta, quasi elusa, ma la sua presenza è sempre avvertibile. Si percepisce il suo ruolo, e la sua mancata percezione è la più drammatica delle mancanze dei personaggi. La morte è in Anderson il luogo dell'irrazionale, l'elemento non spiegabile, incommensurabile, dell'esistente. Ciò che non si può in alcun modo calcolare né organizzare, né prevedere: e la ricerca nevrotica di precisione può essere vista anche come un tentativo di evitarla, di esautorarla, inconsapevole del fatto che è una buona percezione della propria mortalità a garantire una consapevolezza interiore necessaria al vivere. Per personaggi che mascherano la propria incapacità con un approccio grottescamente metodico, la presenza della morte assume, una volta affrontata, la forma non di una minaccia, ma della possibilità di recuperare in qualche modo un rapporto sereno con l'esistente.

 


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