Bergamo Film Meeting 2003 - Panoramica PDF 
di Roberto Manassero   

Dal 15 al 23 marzo si è tenuta la Ventunesima edizione del Bergamo Film Meeting. Nessuna novità, solo conferme: il BFM è ormai una delle rassegne più importanti d'Italia e da anni porta avanti un discorso chiaro, preciso e coerente: solo grande cinema sui suoi schermi, quello degli autori che hanno fatto la storia del cinema e quello di chi ancora vi contribuisce.

È duro, puro e appassionato il BFM: pochi ospiti, pochi orpelli estetici (l'Auditorium dove si tengono le proiezioni è di un'austerità quasi minacciosa), film anche all'una di notte e pubblico che sa quel che va a vedere. Due decenni di educazione al cinema, dopotutto, sono tanti e, grazie anche alla fondazione Alasca, alla Federazione Italiana Cineforum e alla casa di distribuzione Lab 80, sono stati condotti bene: se alle tre del pomeriggio proiettano La ragazza del peccato di Autant-Lara, con Gabin e la Bardot amanti, c'è chi esce apposta dal lavoro e se alla sera passa Solaris di Tarkovskij in versione originale restaurata, non trovi posto neanche in prima fila.

Quest'anno l'evento principale era dedicato a Georges Simenon e ad una selezione dei film tratti dalla sua sterminata bibliografia: un'occasione per riflettere sul rapporto tra la pagina scritta dello scrittore belga, così intimamente "cinematografica", e il cinema giallo che ha cercato di renderne la stessa intensità drammatica. Grandi registi si sono confrontati con Simenon, da Renoir a Duvivier, da Autant-Lara a Tavernier, ciascuno cercando di dare un'interpretazione personale alle sue storie, ma lasciando la sensazione che, come hanno sottolineato gli ospiti dell'incontro "Il caso Simenon" Gianni Da Campo, Goffredo Fofi e Claudio G. Fava, nessuno sia mai riuscito ad eguagliarne la grandezza.

Meglio, allora, senza nulla togliere a film come La Nuit du carrefour (1932) di Renoir o La Vérité sur Bébé Donge (1951) di Henri Decoin, comprarsi uno dei romanzi dell'autore venduti nell'atrio, oppure godersi gli altri eventi: Perfidia (1945) e Il processo di Giovanna d'Arco (1962) di Bresson, il già citato Solaris (1972) originale, Schatten (1923) di Arthur Robinson, capolavoro dell'espressionismo tedesco proiettato con accompagnamento musicale dal vivo, i cartoni animati degli anni Trenta di Amedée van Beuren e, soprattutto, le retrospettive dedicate allo svedese Roy Anderson e all'americano Jack Arnold, le due vere sorprese del festival.

Roy Anderson, attivo fin dalla fine degli anni Sessanta, autore di soli tre film e di una miriade di divertentissimi spot pubblicitari, è praticamente sconosciuto da noi: la retrospettiva è stata dunque l'occasione per scoprire un autore dall'animo inquieto e dalla vocazione espressionista, esponente di una corrente anti-bergmaniana feroce e caustica, ironica e pessimista, della quale l'ultimo lavoro Canzoni del secondo piano (2000), presentato due anni fa a Cannes, è il migliore esempio.

Jack Arnold, al quale il BFM ha dedicato solo una parziale rassegna, è, invece, uno dei maestri della serie B anni Cinquanta, autore di capolavori dell'horror e della fantascienza come Destinazione terra (1953), Il mostro della Laguna Nera (1954) e Tarantola (1955). Un cinema, il suo, che in una forma ingenua ma elegante coglie le paure e le contraddizioni di un'epoca e, soprattutto, le potenzialità del cinema popolare di affrontare con pregnanza straordinaria il rapporto tra l'uomo e la scienza, tra l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo. Vedere, al proposito, Radiazioni BX distruzione uomo (1957), storia di un uomo che a causa di alcune radiazioni diventa sempre più piccolo, agghiacciante riflessione sulla vita e sul nulla.

Infine, in mezzo a tutto questo ben di Dio, il cinema del presente. Il concorso, vinto dal bel melodramma storico Me Thao, Thoi vang Bong della vietnamita Viet Linh e nel quale si segnalano anche Sur le bout des doigts di Yves Angelo, complesso legame tra una madre e una figlia accomunate dalla passione per la musica, e il rabbioso Wesh Wesh – Qu'est-ce qui se passe? del francese di origine algerina Rabah Ameur-Zaimeche, girato in un digitale sporco e nervoso che ben rende la tensione tra polizia ed emigrati nella periferia parigina. E poi, ancora, i film delle Regioni Motore d'Europa, quelli prodotti dall'ACID (agenzia per il sostegno dei film indipendenti) e l'esordio di sei giovani registi italiani nel film a episodi Sei pezzi facili.

Tanta carne al fuoco, diverse pellicole belle e apprezzabili, ma, spiace un po' ammetterlo, in un festival così ricco di gemme del passato, così attento a rivedere e riamare il cinema che è stato, le pellicole contemporanee, i vari concorsi e le anteprime (quest'anno era la volta di I lunedì al sole), sembrano campati per aria, forzature che spezzano quella coerenza cinefila che è la qualità più bella del BFM. Non un difetto, ma solo un appunto ad una rassegna che, in quanto a qualità, è più blindata di un rifugio anti-atomico.

 


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