TFF 26/Hunger PDF 
Giampiero Frasca   

Il film più interessante del Torino Film Festival, un’opera compiuta con uno stile personale e un gusto per l’inquadratura che ha del miracoloso. Un’opera prima premiata con la Caméra d’or a Cannes nel giugno scorso. Non sorprenda tutta questa personalità autoriale in un regista al suo primo lungometraggio, perché si sta parlando di Steve McQueen, videoartista londinese conosciuto per le sue apprezzate installazioni museali. La storia che racconta è quella di Bobby Sands, l’esponente dell’IRA che morì nel carcere di Long Kesh, Ulster, il 5 maggio del 1981, dopo 66 giorni di un consumante sciopero della fame con cui intendeva sensibilizzare l’opinione pubblica sull’ottenimento dello status di prigioniero politico, rifiutato dal governo dell’allora primo ministro, Margareth Thatcher. Non il racconto di una lotta, non un didascalico spaccato di oscura storia britannica, ma una pellicola che utilizza il soggetto come pretesto per lavorare sulla materia, sull’organico, sul corpo e sulla sua lenta ed inesorabile consunzione.

Il personaggio Bobby Sands è ridotto ad un principio, al quale si giunge dopo una serie di identificazioni progressive pronte tutte a condurre fuori strada dopo aver accompagnato lo spettatore quasi per mano. Le immagini iniziali portano lo spettatore, infatti, nella casa di un’austera figura che dopo aver immerso le mani consunte sulle nocche nell’acqua gelida, fa colazione e si prepara a partire con la sua automobile, aprendo il cancelletto del giardino di casa. L’uomo si fa circospetto, controlla attentamente la parte inferiore dell’auto stendendosi in terra, mentre la moglie lo osserva apprensiva dalla finestra. La macchina da presa si concentra sul nottolino d’avviamento dell’auto nel quale l’uomo sta per inserire la chiave. Tutto il resto rimane rigorosamente fuoricampo. L’attesa è relativa ad una possibile esplosione, ma l’uomo gira la chiave e si avvia senza problemi. Il criterio identificativo accompagna il personaggio fino all’ingresso nel luogo di lavoro, la prigione di Long Kesh, dove ripeterà lo stesso rituale delle mani dalle nocche tumefatte nell’acqua gelida, ma traslerà immediatamente dopo all’arrivo di un prigioniero, accompagnato e seguito fin dentro la cella. Si tratta, tuttavia, di un’ulteriore pista parallela. McQueen opta per la dislocazione, per la messa ai margini della centralità di un evento che non è mai tale perché il fulcro dell’attenzione non è l’accaduto, ma la trasfigurazione del corpo, la sua sofferta maschera – in sequenza – di coercizione, cattività, violenta sedizione, repressione, rinuncia alla vita e trasformazione in un nulla progressivo. Al centro di tutto c’è l’immagine, la singola inquadratura capace di divenire – da sola – simbolo, laddove il montaggio, inteso in senso tecnico e non nel suo più vasto insieme espressivo e narrativo, va inteso come veicolo di giustapposizione delle specifiche immagini, dei segni visivi che si materializzano sullo schermo e rendono conto di un cinema densamente organico.

Hunger è un modello di cinema capace di mettere a confronto la trasformazione del corpo con la soffocante chiusura di un agghiacciante ambiente inorganico. Buona parte del lavoro di McQueen si concentra sull’inconciliabile differenza tra organico e inorganico, tra la presenza urlante dei corpi e la mortificazione della gabbia, tra rabbioso idealismo e impietoso annichilimento. Hunger non procede secondo l’incedere di una narrazione, ma attraverso la sublimazione del simbolo, plasmando la singola forma e giungendo all’allegoria, brutalizzando l’accettazione scopica dello spettatore, rendendo putrida l’immagine e giocando sul susseguente, quanto impossibile tentativo di rendere organico l’inorganico. La carne lacerata, le piaghe purulente, il sangue e gli escrementi sui muri di una cella sempre troppo a ridosso di corpi esangui non rappresentano soltanto l’emblema di un corpo che ha smarrito ogni senso dell’umano, ma sono anche il tentativo di ribaltare l’inossidabilità dell’istituzione e l’arroganza di un potere che proprio in funzione dell’inorganico mostra la sua effigie più spaventosa. L’attenzione per il corpo di McQueen inchioda anche lo scorrere del tempo, arrivando a dilatare con esasperante fissità un interminabile long take della durata di circa venti minuti, in cui la scelta di morte, la sua ferma dichiarazione, oltre a contrassegnare decisamente lo spazio, anticipa un disfacimento graduale ed inesorabile, una continua ed incessante disintegrazione di quell’organico che era diventato veicolo di lotta politica e di ribellione. In un riconoscimento supremo che non è, né può essere, esaltazione del sacrificio, ma soltanto una condanna all’oblio e all’eterna invisibilità.

TITOLO ORIGINALE: Hunger; REGIA: Steve McQueen; SCENEGGIATURA: Enda Walsh, Steve McQueen; FOTOGRAFIA: Sean Bobbitt; MONTAGGIO: Joe Walker; MUSICA: David Holmes, Leo Abrahams; PRODUZIONE: Gran Bretagna/Irlanda; ANNO: 1998; DURATA: 96 min.

 


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