Biutiful PDF 
Giulia Palmieri   

Sussurri che rompono il silenzio, contro un buio denso che sa già di morte. L’ouverture di Biutiful ha qualcosa di onirico che rimanda a quell’Apri gli occhi che sorpassò Titanic al botteghino madrileno nel lontano 1997. Ma è una realtà violenta quella sradicata da una Barcellona irriconoscibile e sbattuta davanti allo sguardo impietoso di uno spettatore impotente, troppo abituato al frivolo per non rimanere scosso di fronte a temi tanto duri. E il regista questo lo sa. Ci prende, ci porta al largo e ci lascia lì, soli con le nostre paure, per vedere se ancora troviamo il coraggio di affrontarle. Eppure, dietro al pessimismo che ha lasciato perplessa la giuria di Cannes, c’è il desiderio di andare oltre le mura entro cui amiamo nasconderci, le stesse che, in certe situazioni, si restringono al punto da somigliare a quelle di una bara.

La prima sceneggiatura di Iñarritu senza l’ausilio del fedele Guillermo Arriaga dimentica il caleidoscopio di intrecci protagonista di Babel per concentrarsi sul dramma esistenziale di un solo uomo, Uxbal (Javier Bardem), intermediario tra immigrati clandestini ed occupazione in nero. Il cancro dell’illegalità che gli dà da vivere non è dissimile da quello patologico che lentamente lo sta divorando. Un parallelismo, quello tra malattia istituzionale e malattia terminale, che si sposa perfettamente con il tormento di un padre che ha poco tempo per sistemare tutte le questioni lasciate in sospeso: una moglie, Marambra (Maricel Álvarez), affetta da disturbi bipolari con la quale è tanto intenso quanto impossibile ricostruire un equilibrio famigliare spezzato; un fratello (Eduard Fernández) immaturo e bugiardo, incapace di costruirsi  una vita oltre il volgare recinto delle proprie pulsioni; due figli in balia di un mondo frammentato e ingordo, pronto ad ingurgitarli nella sua assurda spirale di cinismo; una coppia senegalese prossima all’espulsione da strappare ad una forza di polizia spietata e corrotta (incarnata dal Rubén Ochandiano di Amnèsia); una ragazza madre di origine cinese, costretta a lavorare diciotto ore al giorno per un mercato della contraffazione ormai saturo. Sono questi gli elementi di un puzzle impossibile da completare, poiché privo di due tasselli essenziali: la speranza e il riscatto.

In una pellicola in cui non vi sono vincitori, le emozioni trovano lo spazio per imporsi con violenza. Il pubblico in sala rimane basito davanti al susseguirsi di negatività che corrode una trama di per sé semplice, lineare, ma incredibilmente penetrante. È infatti questo il primo grande salto di Iñarritu: la rinuncia al ricorso macchinoso e maniacale di un montaggio che spesso, nei suoi precedenti lavori, e soprattutto in 21 Grammi, era volto a colmare un vuoto di sceneggiatura. La fotografia, invece, è rimasta la stessa: commovente e chirurgica, basterebbe da sola a raccontare le estenuate esistenze delle marionette che compongono la scena. Una scena che nel farsi fregio di una bruttezza generalizzata ricorda molto lo squallore degli ambienti di Come Dio Comanda, del quale riprende anche il tema del rapporto padre-figli: conflittuale, ma pur sempre problematico e proprio per questo infinitamente più potente. E ancora, la pulizia degli effetti sonori: il battito di due cuori che si intrecciano durante un abbraccio è una delicatezza che non siamo abituati a cogliere, così come la nitidezza dei bisbigli che aprono e chiudono il film, una rarità che consente un coinvolgimento immediato nel soggetto poiché proietta chi guarda all’interno di un’inedita intimità. La distorsione di un rumore che si trasforma in motivo centrale della colonna sonora, infine, è una raffinatezza cui solo un ex compositore poteva giungere.

E se a tutto questo si sommano due interpretazioni magistrali si fa in fretta a parlare di “opera della maturità”. Interessantissimo il personaggio di Marambra, amabile mostro dalle infinite, meravigliose imperfezioni. Una donna capace di abbandonare il proprio figlio dopo averlo malmenato, pur rimanendo in grado di cogliere l’anormalità di un simile atto. Un’altalena di umori, insomma, che prima muove a pietà chi guarda e dopo lo induce a condannarla senza remore, in un’estenuante rincorsa alla contraddizione. Anche il lì per lì fastidioso ex equo di Bardem con il nostro Elio Germano, per il premio alla miglior interpretazione maschile della scorsa edizione del Festival di Cannes, diventa più facile da accettare. Una recitazione che non scade mai nello stereotipo, nonostante la presenza di alcune tematiche di natura tradizionale, come il trauma derivato dalla mancanza di una figura paterna, il senso di colpa, il delirio di onnipotenza e addirittura un piccolo spazio dedicato al sovrannaturale: Uxbal aiuta i morti a lasciare questo mondo, facendosi carico delle loro pene, perché spera così di sanare il proprio debito e salvare la sua anima. Un’anima anomala che, come suggerisce il titolo, è “biutiful”, ovvero bella, ma imperfetta. E non solo a livello ortografico.

TITOLO ORIGINALE: Biutiful; REGIA: Alejandro González Iñarritu; SCENEGGIATURA: Armando Bo, Nicolás Giacobone, Alejandro González Iñarritu; FOTOGRAFIA: Rodrigo Prieto; MONTAGGIO: Stephen Mirrione; MUSICA: Gustavo Santaolalla; PRODUZIONE: Messico/Spagna; ANNO: 2010; DURATA: 138 min.

 


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