Siamo nella Basilicata dei primi anni Sessanta, in un paese sperduto e sonnolento. Salvatore (l’esordiente Matteo Basso) è un bambino di dodici anni con una forte passione per il cinema, talmente forte da spingerlo a sottrarre di nascosto dei soldi da casa per andare a vedere le proiezioni in una saletta di quinta categoria nel paese vicino. Suo padre però, uomo umile, fervente comunista, non lo capisce, non comprende il suo incanto, e anziché assecondarlo facendogli vedere i film con Maciste, lo obbliga a leggere e ad imparare a memoria i testi di Marx e di Engels. Ma i dogmi del comunismo mal si conciliano con la creatività del cinema e con i sogni di Matteo, che pur di avere una sala cinematografica in paese arriverà infine a rubare un proiettore. Pur di avere, insomma, il suo piccolo angolo di paradiso o, meglio, di “cinema paradiso”, lontano dalle difficoltà economiche della sua famiglia e dalle pressioni paterne. Un gesto, questo, che Matteo pagherà caro.
La citazione di uno dei capolavori di Giuseppe Tornatore, Nuovo Cinema Paradiso, non è affatto casuale. Perché Un giorno della vita di Giuseppe Papasso trae chiaramente ed esplicitamente ispirazione, nonché linfa rappresentativa, proprio dal film che il regista di Bagheria girò nel 1988, guadagnandosi poi l’Oscar per il miglior film straniero. Sono tante infatti le somiglianze fra le due pellicole, tanto che il Matteo di Papasso sembra quasi la versione cresciuta, personalmente modificata, del piccolo Totò di Tornatore: entrambi provengono da una famiglia povera, entrambi risiedono in un piccolo centro sperduto del profondo sud, ove tutto sembra perdersi lungo il corso principale, e in cui l’unico stimolo culturale sembra essere il grande schermo, ed entrambi si trovano a lottare per la passione per il cinema più che per qualsiasi altra cosa. Anche la storia di Matteo è, dunque, al pari di quella del Totò di Nuovo Cinema Paradiso, una storia di formazione: quella di un bambino e del suo sogno e, anche, dei cambiamenti che avvengono intorno a lui. Ma in quanto storia di formazione, Un giorno della vita non ha soltanto Nuovo Cinema Paradiso come riferimento stilistico e narrativo. Le corse in bicicletta che Matteo compie a perdifiato squarciando gli assolati campi di grano della Basilicata richiamano infatti da vicino le scorrazzate del Michele Amitrano di Io non ho paura. E la lotta personale che, più o meno legalmente, il protagonista affronta con l’obiettivo di infrangere il muro d’indifferenza della società circostante, così pettegola e banale, riecheggia di un altro grande maestro del cinema mondiale: il François Truffaut de I quattrocento colpi.
Tutto questo per dire che, malgrado la “passionalità” che traspare in ogni suo fotogramma, l’opera di Papasso è (troppo) platealmente derivativa e per questo poco consistente. Spesso non basta avere una buona idea e degli ottimi maestri per fare un buon film. E soprattutto per farlo originalmente. A maggior ragione se a complicare le cose contribuiscono anche una fotografia troppo mitizzante e una messa in scena comunque innaturale e televisiva.
TITOLO ORIGINALE: Un giorno della vita; REGIA: Giuseppe Papasso; SCENEGGIATURA: Giuseppe Papasso, Mimmo Rafele; FOTOGRAFIA: Ugo Menegatti; MONTAGGIO: Valentina Romano; MUSICA: Paolo Vivaldi; PRODUZIONE: Italia; ANNO: 2010; DURATA: 85 min.
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