Il tempo che ci rimane PDF 
Michele Segala   

Il tempo che ci rimane mette assieme ricordi e ricostruzioni della vita del regista Elia Suleiman e del di lui padre dal 1948 circa ad oggi, giustapponendoli con il gusto della ripetizione paradossale e del sarcasmo spiazzante (si potrebbe dire) dello “sconfitto”. Ma è davvero poca cosa il plot in quanto tale, perché tutto il film sta nel suo saper mettere assieme tutti i pezzi del mosaico delle vite dei suoi personaggi senza mai cedere a pietismi o a cliché, ma dando voce piuttosto ad un’arte dell’arrangiarsi e della comprensione dell’assurdo della Storia tutta palestinese.

Vera dote e valore aggiunto del cinema di Elia Suleiman è però l’incredibile leggerezza con cui riesce a trattare una materia tanto delicata e seria: pur raccontando cioè di storie di vita e di convivenze nell’Israele degli ultimi 40 anni dal punto di vista di un arabo, lo fa con un sorriso beffardo ed infantile che si allarga via via a  tutto il film, giocando con situazioni e assurdità come un Jacques Tati, facendosi scherno delle ripetizioni e delle coercizioni cui sono, malgrado loro, oggetto i palestinesi, come se fosse un Chaplin che si diverte a ripetere la stessa scena per vedere che effetto faccia sul pubblico. Materia delicata, si diceva, perché, quale che sia l’opinione che ognuno di noi si può essere fatto del conflitto (sempre attivo e sempre dormiente) israelo­-palestinese, certo è che per riassumere il periodo che va dalla nascita dello stato di Israele ad oggi di tutto verrebbe in mente tranne che farlo con un film intriso di una comicità surreale e spiazzante. Ma in fondo, a ben pensarci, è giusto così per uno Stato che è ed è sempre stato un’anomalia geopolitica. Vengono in mente le parole del celebre fumettista Art Spiegelman (autore di una delle più belle opere d’arte sull’Olocausto, la graphic novel Maus), che tempo addietro ebbe a dire (lui ebreo) di Israele più o meno così: un paradosso, trattandosi di una nazione creata da chi era scampato al nazionalismo. E allora sì, forse è proprio questa assurda spirale della Storia, che ha coinvolto due popoli in una tragedia perenne, che sta alle radici di questo conflitto, ed è per questo che l’assurdo (e l’utilizzo che ne fa Suleiman) giustifica e rende particolarmente centrato questo Il tempo che ci rimane: perché i suoi personaggi non fanno altro che muoversi in un mondo schiacciato sotto l’enorme peso di un accumulo di assurdità. Si veda così la sequenza in cui, alla nascita stessa di Israele, soldati di una parte si mascherano da soldati dell’altra, o quella dove un vecchio palestinese non fa che ripetere se stesso e le proprie paranoie con sempre nuove (improbabili) teorie su come “risolvere” i rapporti con gli ebrei, oppure, ancora, un’altra sequenza, una delle più esilaranti, quella in cui un blindato di soldati israeliani gira per la città intimando il coprifuoco ma, non riuscendo questi soldati a farsi udire da alcuni ragazzi che ballano con la musica a tutto volume dentro una discoteca araba, si mettono a loro volta istintivamente a fare su e giù con la testa a ritmo …

Arrivato dopo il successo di critica del precedente Intervento divino (premio della giuria nel 2002 a Cannes), questo Il tempo che ci rimane conferma Suleiman come uno dei cineasti più bravi a descrivere lo smarrimento del nuovo millennio, seminando lungo la sua strada sketch visivi e fisici che rimandano a tanto cinema muto (Buster Keaton su tutti), e che, in particolare con quest’ultima pellicola, lo avvicinano anche ad un altro maestro d’ironia, il finlandese Kaurismaki. Infatti, il protagonista de Il tempo che ci rimane (interpretato dallo stesso Suleiman), come molti personaggi dei lungometraggi del cineasta finnico, è parco di parole  (mentre attorno a lui accadono incidenti di varia umanità) ed è dotato della seraficità di un Bill Murray ultima maniera (ecco un'altra pietra di paragone per questo regista che, non a caso, ha studiato cinema a New York: il Jim Jarmusch più minimalista). Padrone quindi assoluto, o quasi, di un cinema che riesce a raccontare con le chiavi della farsa persino i temi più spinosi e difficili, il cinema di questo cinquantenne arabo-palestinese è di fattezze rare e richiede certo un livello alto di attenzione e pazienza da parte dello spettatore (perché chi non fosse abituato al suo fare cinema ci metterebbe non poco ad entrare nel mood della pellicola), ma ripaga pienamente con il suo storytelling placido e la sua ironia ricca e sottile.

TITOLO ORIGINALE: The Time That Remains; REGIA: Elia Suleiman; SCENEGGIATURA: Elia Suleiman; FOTOGRAFIA: Marc-André Batigne; MONTAGGIO: Véronique Lange; MUSICA: Matthieu Sibony; PRODUZIONE: Francia/Palestina; ANNO: 2009; DURATA: 105 min.

 


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