Un evento magico in carne ed ossa: Ricky, l'amore e la libertà PDF 
Gianpiero Ariola   

Uscendo dalla sala, dopo la proiezione di Ricky - Una storia di amore e libertà, l’ultima pellicola del cineasta francese François Ozon, si rimane subito catturati da un dubbio, da una sospensione. L’apertura del film, infatti, aveva assunto un atteggiamento drammatico, lasciato poi irrisolto da un flashback non ricorsivo. Che fine ha fatto la disperazione iniziale di Katie? Perché non ve n’è traccia nell’epilogo? È ovvio, si tratta solo di un espediente per disorientare il pubblico e per suscitare svariate interpretazioni, come ammette lo stesso regista (1), una strategia psicologica efficace, che apre scenari di rivisitazione, a posteriori, della trama. Ozon, quindi, gioca d’azzardo, lancia provocazioni, dato che il crollo psichico della donna è assolutamente plausibile e l’apparente anacoluto non cela certo una defaillance, o un maldestro tentativo di acuire il senso di mistero. Tutto risulta previsto a livello diegetico e quella omissione nella sequenza degli eventi, quasi per non interrompere il flusso del racconto, è pura attivazione di link concettuali.

Addentrandoci nella storia, ciò che maggiormente colpisce è la configurazione dell’elemento fantastico, che pare crescere a suon di leggi anatomiche, si dispiega con colpi dolorosi, sanguina, perfino, insomma, si “sente” vivamente. È uno prodotto del corpo, delle sue ossa, dei suoi muscoli, dei suoi nervi, che scuote le sensazione endogene ed esogene e solo tramite esse arriva alla mente, solo unitamente ad esse si trasforma in magia del volo e solo nell’attimo conclusivo, per giunta caduco (quando Ricky vola per la prima volta all’aperto e sfugge alla madre), cattura l’emozione e la spensieratezza. Insomma, la crescita delle ali si dispiega attraverso l’anomala carnalità, decisamente poco romantica, della pelle nuda, degli ematomi sospetti, delle escrescenze deformi, delle protuberanze ricurve e appuntite, quali appaino le piume premature (2). Solitamente, il fantastico cinematografico fa immergere lo spettatore in una dimensione magica, lo solleva all’improvviso, senza che egli se ne accorga, è levità annunciata, sogno avvolgente. Ozon, invece, rende concreta la favola, la trivializza con note scabre, prive di lustrini, la fa vibrare sulla pelle in maniera ambigua, strappando sensazioni di sofferenza nuda e cruda, piuttosto che di leggerezza. Non c’è fatata opposizione tra forze morali, tutto si ricongiunge e si appiattisce nelle banali e tangibili vicende quotidiane, tutto si riconduce al ritmo lento e monotono di uno scorrere orizzontale. Ma allora a quale mondo appartiene questo bambino, che vediamo crescere così intensamente? Quale distanza crea la nuova piccola creatura tra la dimensione umana, in cui è nato, e quella singolare a cui dimostra di appartenere? A ben guardare, la sua natura si estende in una sfera ibrida, in cui realismo bizzarro e misteriosità terrena, concreta, si confrontano e si misurano. Ogni effetto propriamente fantastico viene così mitigato mediante germinazione da cellule di normalità, pur tendendo palesemente verso l’eccezionale e l’incredibile. Questo stridore di materia narrativa non produce tuttavia l’effetto di una fusione, ma nemmeno di una con-fusione. La storia presentata da Ozon non vira mai verso un’atmosfera fantasy, ne sfiora i confini, certo, ammicca alle sue caratteristiche, flirta con essa, ma non ne assume mai le sembianze, contribuendo piuttosto alla formazione di due mondi separati, che pur giocando a rincorrersi, finiscono poi quasi per ignorarsi. Ecco perché il piccolo Ricky vola via senza scomporsi, obbedendo alle necessità della propria natura, ecco perché il fantastico, lo straordinario, si dilegua così semplicemente come era apparso, ristabilendo quello scollamento abituale tra esseri aerei ed esseri terreni, tra creature notturne e creature diurne (3).

La ridistribuzione e il ridimensionamento del rapporto realismo e magia sembra, pertanto, svelare non solo un doppio tributo ai due approcci diegetici, ma anche un rinvio ai generi coinvolti (commedia, fantasy, drammatico, grottesco e favola dark), rimestandoli in un rapporto relazionale curioso e volutamente ambiguo. Proprio in questa direzione di rivitalizzazione di schemi già collaudati, non è fuorviante richiamarne alcuni topos di quella forma artistico-letteraria che è il realismo magico, verso cui il plot di Ozon sembra essere attratto. Se si pensa a quale definizione ne dà Wendy B. Faris, ovvero come una fuoriuscita di elementi fantastici da una realtà che non sa più contenerli (4), non è poi arduo richiamare le immagini delle ali piumate di Ricky, che strappano via la carne per emergere e acquistare un libero movimento. Un altro elemento che appartiene palesemente a questo approccio narrativo, in particolare alla forma che assume nella produzione letteraria post-moderna (5), è la presenza naturale di una metamorfosi, percepita quale mutamento credibile (6). Il diverso, la delicata mostruosità, la si vede crescere, appunto, formarsi con fasi tutt’altro che celate o accennate (sembrano ali di pollo, come quelle che si trovano sui banchi di un macellaio). E gli effetti speciali sono totalmente assorbiti dal compito di esaltare la credibilità di tale trasformazione, piuttosto che suscitare sorpresa e incredulità. Ma da quale prospettiva questa metamorfosi è davvero credibile? Rispetto alle sue celebri rappresentazioni letterarie e cinematografiche, risulta infatti assente sia la componente introspettiva, sia la dimensione intimista (come accadeva, ad esempio, al protagonista de La mosca di Cronenberg ma anche al Gregor Samsa di Kafka). Non c’è oscura pesantezza che ottunde la coscienza, né dramma psicologico-sociale. Il climax confluisce, semmai, verso uno stadio infantile, lasciando spensierato il protagonista, incapace di percepire come drammatico l’evento che lo coinvolge. Ciò tende, con tutta evidenza, a fluidificare la drammaticità del racconto, facendogli assumere una naturalezza più consona al mondo animale, che a quello umano. Così le fasi della mutazione non ricordano tanto una mostruosità interiore da elaborare, quanto piuttosto un’inevitabilità esteriore da accattare, esattamente come accade per la crescita di una farfalla: dal bozzolo, alla crisalide, fino al dispiegamento delle ali e quindi al volo (7).

Se il piccolo Ricky assorbe tutta l’attenzione e la curiosità dello spettatore, la vera protagonista del film, quella a cui è richiesta la prova più ardua, rimane tuttavia Katie (interpretata dalla brillante Alexandra Lamy). Una mamma estraniata da un evento così intimo e insieme straordinario, che, tra orrore per la diversità e sorpresa per il meraviglioso potenziale, cerca di inventarsi una vera e propria “educazione al volo”. Katie tenta di escogitare un sistema per far sperimentare al bambino la sua mobilità speciale. Cerca di metterlo in sicurezza, come se dovesse invitarlo a gattonare o a camminare. Ci prova, ricorrendo ad espedienti pratici di protezione (il casco, i pezzi di spugna intorno al busto, le ginocchiere), ma tutto scivola facilmente nel ridicolo e nell’improbabile. Ciò che manca è un elemento fondamentale del rapporto educativo: l’imitazione. Ed è proprio questo impedimento materiale che destabilizza e disorienta l’atteggiamento materno del “prendersi cura”, sbaragliandolo e facendolo girare a vuoto. La capacità/possibilità di mostrare il gesto scivola in un’impasse senza soluzioni. Come innescare, allora, quel processo cognitivo, imbricato nell’azione corporea (8), senza poter esortare il bambino a ripetere il gesto, senza ali da mostrare in azione? Eppure, tutto avviene comunque, il meccanismo del volo si innesca spontaneo, la conoscenza del librarsi e dello sfruttamento delle correnti aeree è acquisita tutto d’un tratto, senza passare per troppe esitazioni né per la percezione di movimenti da iterare. Forse perché quello che si legge in questa storia è la spontanea predisposizione al volo, ovvero l’innato istinto alla libertà, incapace di rientrare in qualsivoglia schema pedagogico? Oppure svela semplicemente una delle tante tracce di qualche mistero imperscrutabile, che esiste nonostante la nostra avidità conoscitiva, e che prelude ogni possibilità di controllo, aleggiando indisturbato nei ripiegamenti delle nostre esistenze? L’unica certezza è che l’applicazione di un atteggiamento improntato alla cogente realtà qui non funziona, risulta grottesco, trascinando lo spettatore in un’oscillazione tra ammirazione pura e ilarità singhiozzante. Perché ciò che si vuole a tutti i costi controllare e capire (si pensi al tentativo di attaccare le premature ali con il nastro adesivo e poi quel cercare di misurarle o studiarne la natura anatomica) si inceppa in vicoli cechi, tanto sottili quanto ridicoli. E il regista sa bene che non c’è altra via d’uscita alla comicità, non v’è alternativa che possa sembrare accettabile, data la sua esigenza di disciplinare i fermenti della magia. Nella scena del supermercato, infatti, la scoperta del bimbo/uccello chiarisce subito quanto a volare è solo lo sguardo, è solo il desiderio di inseguire l’impressione inattesa, mentre la storia rimane ben ancorata al suolo, alla pesantezza del corpo, che si eccita e si sollazza verso quel fenomeno strambo. Sembra non esserci un granché di irreale (qualcuno grida che il bimbo è telecomandato) e l’unica preoccupazione è quella di catturare l’esserino ribelle. Perché, chi non è disposto a credere, chi non cede all’incredibile, non può che divertirsi con la concretezza delle proprie risate. In fondo, è solo la constatazione che la leggerezza della fantasia ha, inesorabilmente, bisogno di fede.

Cambiando ancora registro critico, si avverte, nella pellicola di Ozon, una sorta di contrazione del canale visivo, che veicola, parallelamente, l’attivazione di canali extra-ottici, tesi a confermare quanto la materia filmica, che racconta l’onirico e l’incantato, sia pervasa da quella carnalità succitata, ovvero da sensazioni fisiche essenziali. Si pensi, tra tutte, alla sequenza in cui Paco e Katie si incontrano, a cui segue la scena della toilette. Qui l’atto sessuale acusmatizzato relega all’immaginazione uditiva (si odono solo i rumori, al di là della porta, e la musica è assente) il compito di restituire la passione tra i due amanti. Cosa suggeriscono, allora, queste immagini, che stanno raccontando il concepimento di un bambino magico, nella squallida dimensione di un bagno pubblico? Cosa nasconde la visione, in questo cedere il passo agli stimoli uditivi e non solo? I rumori e i suoni senza dubbio rubano qualcosa all’immagine, mai in eccesso, anche grazie alle numerose ellissi temporali, che riducono al minimo il piacere della fruizione visiva (in pieno stile socio-relistico). Questo, tuttavia, non ha l’effetto di asciugare la narrazione, depauperandola. Al contrario, nel tentativo di suscitare atmosfere strettamente imbricate nella realtà, ovvero di esprimerla più immediatamente, si ricorre all’ausilio di percorsi sinestetici. A tale proposito l’appello è a quel percorso critico del testo, che concepisce la possibilità di valicare l’evidente statuto audiovisivo del film, richiamando la duttilità di un sistema interpretativo, fondato, da un lato, sulla differenziazione di “narrativo e sensibile” (9), e proteso, dall’altro, alla rivalutazione delle interazioni sensoriali, contenute nell’immagine cinematografica (10). Si ripensi, ad esempio, a come il regista mostra l’istintualità del sesso consumato nella toilette, che, ai limiti dello squallore, evoca sensazione di sporcizia dermica e repellenza endogena, fino alla scena del pranzo, in cui il consumo del pasto con le mani suscita non solo la stimolazione del gusto e dell’olfatto ma anche quelle tattili, che coinvolgono dita e bocca. Quest’ultima scena è poi una delle prime in cui compare anche il piccolo Ricky, intento nella suzione, inquadrato strettamente, parallelamente alle immagini del pasto. I rimandi alle pulsioni elementari, ai bisogni essenziali, coinvolgono, quindi, anche il futuro “angelo”, la piccola creatura notturna, a conferma di un’esistenza invischiata, fin dall’inizio, nella visceralità della terra, e che rimarrà contaminata con la sua natura aerea fino alla sua improvvisa sparizione. Quale prova migliore per ratificare questa sua dimensione ibrida, in bilico tra due mondi (e tra due stili narrativi), se non tale bisogno di alimentarsi, a cui seguono i sonori vagiti e i pianti, nonché gli escrementi maleodoranti, esibiti senza pudore? Confrontando, poi, Ricky e Otto donne e un mistero, si ha un’ulteriore conferma della dimestichezza del regista francese con l’espressività sinestetica. In particolare, la pellicola del 2002 reca un livello di voluttuosità esplicito, anche se delicato e disimpegnato (lo strappare elegante e vezzoso della brioche, da parte delle Deneuve, e l’assaggio furtivo e circospetto della marmellata sul dito, da parte della domestica), che dimostra la capacità con cui Ozon sa addomesticare gli elementi del sensibile alla sua poetica. In tutto il film, si trova una vera e propria pratica di esibizione sensoriale, da quello termico (la neve esterna, il calore interno sia a livello cromatico, sia a livello dermico quando si inquadrano le fiamme del camino come quinta del dialogo tra la cuoca e le due sorelle), a quello tattile (lo sputo, gli schiaffi sulle mani, l’afferrare i capelli, le carezze sulla pelle e sugli abiti), fino a quello acustico (del vaso rotto, degli strappi degli abiti durante la colluttazione, delle allusioni ai rumori notturni, dei passi sordi sul parquet), per non parlare delle scene da musical. Certo siamo su un piano diametralmente opposto a quello di Ricky, in cui le linee sensibili si avvolgono, non tanto a una dinamica di sensualità e passionalità, quanto piuttosto a tessuti emotivi di ben altra natura, come si è visto, che mettono in correlazione appartenenza erotica alla realtà, per un verso, e pulsioni oniriche di libertà, dall’altro.

Viene, infine, da porsi un ultimo interrogativo: la prima parte ha forse una lunghezza ingombrante, rispetto a quella in cui fa la sua comparsa il prodigioso infante? Oppure è da lì che il regista vuole partire ed è lì che vuole ritornare, tramutando la breve parabola di Ricky in una parentesi ispiratrice, una metafora illuminante, che fa ripartire il ritmo della vita? La lettura rimane ancora una volta aperta. Ad ogni modo, risulta rilevante notare che, in varie occasioni, l’avvento del bambino sembra essere partorito dalla fantasia di Lisa, che tra l’altro gli dà il nome, lo confonde con il bambolotto (quando gli cura le ferite) ed è disposta a tagliargli le ali, quasi per rimorso verso un eccesso mostruoso della propria immaginazione. Anche la scena conclusiva, già vista, del viaggio in scouter verso la scuola, sembra mostrare una variazione non tanto nel cambio di accompagnatore (all’inizio la mamma, poi Paco), quanto in quel sorriso compiaciuto della ragazzina, come a sancire il raggiungimento di uno scopo. Chissà che non si tratti di un ulteriore riscontro di tracce real-magiche; in fondo Wendy B. Faris parla proprio di storie concepite da bambini, dotate di un punto di vista che non richiede particolari riflessioni, né messe in discussione (11). Probabilmente l’unica via per condurre lo spettatore al valore intrinseco della magia.

Note:
(1) Cfr. Ozon, F., Note di Regia
(2) L’inserimento di questi passaggi, che erano assenti nel racconto di Rose Tremain, da cui è tratto il film, in cui le ali crescevano all’improvviso, dimostra come il regista abbia voluto fortemente calcare sull’elemento fisicità.
(3) Ricky sembra appartenere, infatti, più che all’immaginario angelico, troppo patinato e mistico, a quello enigmatico e oscuro degli insetti. L’attrazione del bambino verso la luce e quello svolazzare intorno a lampade artificiali, tipico degli insetti notturni, sembrano richiamare il racconto originario, che ispira il soggetto, intitolato appunto Moth, Falena.
(4) Cfr. Faris, W. B., Scheherazade’s children. Magic realism and postmodern fiction in Parkinson Zamora, L., Faris, W. B, (a cura), Magical realism : theory, history, community, Durham, Duke University Press, 2005, p. 163
(5) Secondo la Faris, il nuovo realismo magico trova espressione in molti autori contemporanei, influenzando anche alcune opere cinematografiche, e trae ispirazione non tanto dalla letteratura latino-americana quanto piuttosto da Le mille e una notte. Ivi, pp. 163-165
(6) Ivi, p. 178-179
(7) Il riferimento è ancora alla falena del racconto di Rose Tremain, da cui è tratto il film.
(8) Ci si riferisce a quell’orientamento epistemologico che spiega la trasmissione culturale, così come il processo pedagogico fondamentale tra genitori e figli, mettendo in stretta relazione “pratica” e “cognizione”. Mediante il concetto di “educazione all’attenzione”, è possibile spiegare la trasmissione della conoscenza come un insieme di proposte per focalizzare la percezione, avanzate in ambienti opportunamente determinati e organizzati, ovvero “situati”. Nel film di Ozon è proprio la messa in crisi di tale sistema cognitivo ad alimentare i motori della narrazione. Crf. Grasseni, C., Ronzon, F., a cura, Pratiche e cognizione. Note di ecologia della cultura, Roma, Meltemi, 2004, pp. 41-58
(9) La costruzione di una semiotica specifica del cinema, che affranchi il sensibile dal narrativo, nasce con Epstein, con i suoi film e con i suoi scritti, ed è legata, in particolare, all’idea di fotogenia. Tale stimolante filone teorico sostiene la possibilità di una sintassi filmica di natura extra-narrativa, basata su una logica percettiva e non linguistica, ovvero su una prospettiva che invita a “sentire” il film, e non solo a “leggerlo”. Cfr. Pescatore, G., Il narrativo e il sensibile. Semiotica e teoria del cinema, Bologna, Hybris, 2001, pp. 1-23
(10) Sono vari gli studi inerenti all’interpretazione cinematografica attraverso i sensi. In particolare si veda la breve ma stimolante disamina di Karl Hansson, che pone la conoscenza del corpo alla base di una “visione multisensoriale”. Cfr. The Figural, the Haptic and Bodily Knowledge in Auteliano, A., Innocenti, V., Re, V., a cura, I cinque sensi del cinema, Udine, Forum, 2005, p. 271-276
(11) Cfr. Faris, W. B., 2005, op. cit., p. 177.

 


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