La terra dell’abbondanza PDF 
di Barbara Lorenzoni   

Con La terra dell'abbondanza Wenders scrive un nuovo capitolo del suo ormai lungo e contraddittorio rapporto con l'America e con il sogno americano.
Tutto il suo percorso di autore si è definito ed è maturato nel tempo prevalentemente attraverso l'alternanza di film 'europei' e film 'americani' e il nucleo centrale della sua poetica ha preso forma entro i margini di una dicotomia che talvolta ha sfiorato la schizofrenia, continuamente in bilico tra due modelli culturali e soprattutto cinematografici, tra due differenti sistemi di riferimenti rappresentati, per semplificare, dal cinema come industria e dal cinema come artigianato. A partire da 'Alice nelle città', dove il paese del mito era astratto e irreale, dagli anni '70 fino ad oggi, l'America è stata identificata via via dal regista con il paese del cinema che più ammirava, con un paese in cui viaggiare, in cui vivere, in cui lavorare avendo acquisito una sensibilità visiva, da viaggiatore, che ha condizionato il suo punto di vista da regista, conquistato da personalità come Nicholas Ray e Sam Shepard, ma anche con un paese che non ha saputo mantenere le sue promesse, vista la disillusione lasciata dall'esperienza di 'Hammett'. Dopo la metà degli anni '80, con il ritorno in Europa e il recupero delle radici tedesche, gli Stati Uniti sono stati giudicati con maggior distacco, suscettibili di critiche e pieni di limiti, ma che continuano comunque a fornire dal punto di vista cinematografico spunti, stimoli e a suggerire nuove tappe nella produzione di Wenders.

The Million Dollar Hotel e L'anima di un uomo, prima dell'ultimo film presentato a Venezia, sono le prove più riuscite come dimostrazione del vivo interesse e della rinnovata curiosità di Wenders per la scoperta di nuove strade cinematografiche da percorrere in America, magari anche lavorando su idee altrui, come quella di Bono nel primo caso e di Scorsese nel secondo.
Quello che il regista tedesco offre con 'La terra dell'abbondanza' è uno sguardo sull'America che mai era stato così disincantato e critico, che mai prima aveva espresso così chiaramente giudizi politici. Forse una delle poche eccezioni, un raro caso di riflessione amara che contiene una sfumatura politica si trova ne 'Lo stato delle cose', quando Bruno dice: "Gli Americani hanno colonizzato il nostro inconscio". Ma 'Lo stato delle cose' è un film con cui Wenders, dopo il fallimento di 'Hammett', vuole principalmente rivendicare il suo status di autore come viene riconosciuto in Europa e insieme mettere in discussione i metodi delle case di produzione hollywoodiane, non essere critico con il governo americano.

Nel suo ultimo film, invece, già il titolo, che richiama la canzone omonima di Leonard Cohen, presenta nella sua beffarda ironia il senso che Wenders dà oggi al sogno americano, al paese che indebitamente si ostina a presentarsi come paese del benessere a portata di mano, che offre a chiunque la possibilità di diventare qualcuno. A ciò si aggiunge la presenza ripetuta nel film di diseredati, emarginati, homeless che tutto possono rappresentare tranne che l'abbondanza che l'America vorrebbe rappresentare. Anzi, il loro numero reale, citato nel film, stride pesantemente con la definizione del titolo. Un'anticipazione di questa America fatta di vagabondi e di stracci c'era già in 'The Million Dollar Hotel', ma in quel film era mediata da un'ottica grottesca e da un filtro rappresentativo che faceva dei personaggi quasi delle figure letterarie da 'corte dei miracoli'. Lo sguardo di Wenders si è ora fatto invece polemico e allo stesso tempo mesto su un mondo che non riserva più alcuna sorpresa e che, anzi non fa che ripetere stereotipi, pregiudizi, falsità. E' evidente che Wenders è rimasto deluso dalla risposta degli Stati Uniti all'11 settembre. Indignato come Moore nei confronti del governo Bush, Wenders preferisce la strada della fiction a quella del documentario per veicolare il suo punto di vista sull'attualità. Non vuole denunciare, non ha l'urgenza di informare un popolo che è quanto mai manipolato da mass media omologati, ma vuole piuttosto dare la sua interpretazione della fine del sogno americano, forte di una distanza intellettuale e morale che gli permette un'analisi ampia e lucida. Innanzi tutto punta il suo obiettivo sulla povertà, la povertà diffusa ma di cui nessuno parla come gli homeless di Los Angeles, i più numerosi tra le città americane.

Ci sono due personaggi icone nel film, che rappresentano i due poli intorno ai quali ruota il significato del film. Sono due visioni del mondo contrapposte e rimandano alle posizioni politiche che in questi ultimi anni hanno separato in due blocchi il mondo occidentale; attraverso loro Wenders disegna uno scontro che prende i contorni di una parabola manichea in cui si ritrovano però tanti termini del discorso wendersiano. Uno è Paul, veterano del Vietnam che dopo l'11 settembre si è sentito richiamato alle armi, pur rimanendo in patria, il quale rappresenta la fine del sogno senza rendersene conto, incarna il fallimento dell'America, di ieri in Vietnam e di oggi con la guerra preventiva. E' il simbolo della parte peggiore dell'opinione pubblica americana, quella più ingenua e ignorante che ha accolto senza riserve od obiezioni la strumentalizzazione dell'11 settembre voluta dalla Casa Bianca. La sua posizione è assimilabile a quella di tanti paesi europei alleati di Bush nella guerra in Iraq, ossessionati dal pericolo che essi stessi hanno contribuito a ingigantire per farne una giustificazione alla guerra, cioè il terrorismo. Il morale di Paul è a pezzi: vittima della sua psicosi si muove convinto di aver diritto al ruolo di spia e vede nemici dovunque. Il suo unico scopo è quello di difendere il paese da forze oscure e infide che secondo lui si annidano ovunque. Utilizza strumenti tecnologicamente sofisticati per registrare la realtà e questa attenzione per strumenti affini alla macchina da presa è un elemento che torna in tanti film di Wenders, basta pensare alle foto digitali scattate da Lana nello stesso film per le strade di Los Angeles, alle polaroid di 'Alice nelle città', alla macchina che raccoglie ricordi di 'Fino alla fine del mondo', al microfono del rumorista di 'Lisbon story', solo per fare qualche esempio.

L'altro personaggio è la nipote di Paul, Lana. Vissuta al seguito del padre missionario in varie parti del mondo e infine stabilitasi in Medio Oriente, arriva in America per conoscere il paese in cui affondano le sue radici; abituata a confrontarsi con tanti popoli, con tante culture e religioni, è il simbolo dell'amore universale e per estensione di una parte d'Europa che nonostante tutte le incognite e le minacce del mondo attuale, rifiuta lo scontro tra civiltà, la guerra di religione, che cerca il confronto, la mediazione, che crede nell'utopia. Wenders condivide con Lana, è evidente, l'analisi del presente e le prospettive sul futuro. Ma anche l'immigrato pakistano che muore per strada, ucciso da un raid di teppisti, enuncia una dichiarazione di principio che è molto simile alla condizione di apolide assunta da Wenders e l'unica cosa significativa che riesce a dire a Lana: "La mia patria è un popolo non un luogo' è analoga ad una frase di Fritz in 'Lo stato delle cose': "Nessun posto, nessuna abitazione, nessun paese può farmi da casa', a sua volta ripresa da Murnau.

L'America rappresentata da Wenders non ha nulla di idilliaco, lo sguardo del regista è sempre lento e ampio, ma i luoghi non sono più per lui quelli del cinema, dei film western o comunque fissati dai ricordi cinematografici; sono diventati spogli, come dimostrano le immagini squallide della sperduta provincia, della cittadina in cui zio e nipote vanno insieme, l'uno soprattutto per indagare su un'industria di borace, l'altra per portare al fratellastro il cadavere del pakistano morto a Los Angeles. Gli spazi sconfinati non hanno più la connotazione struggente data dalla musica di Ry Cooder in 'Paris, Texas', sono una terra di nessuno, dimenticata, rifugio di immigrati, dove non arriva altra informazione se non quella compiacente con il potere.

Il racconto di Wenders ha il suo limite nella semplificazione del contrasto ideologico e nel tono patetico che affiora quando si intravede un punto di contatto tra i due protagonisti: la comune commozione per il ricordo dell'11 settembre, dopo che il castello di sospetti e supposizioni dello zio è crollato miseramente.

 


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