Nemico pubblico n°1 - L'istinto di morte PDF 
Gianpiero Ariola   

Nemico pubblico n°1 - L'istinto di morte di Jean-François Richet è il primo di un dittico. E a dircelo non sono soltanto le anticipazioni e i trailer, ma la sua stessa struttura narrativa. Infatti, dopo la prima scena, prende l’abbrivio un lungo flashback, che tuttavia non trova nel film la sua chiusura ricorsiva, lasciando in sospeso la risoluzione della sequenza d’apertura. Un esplicito rinvio a quel secondo capitolo che il regista ha voluto così vincolare al primo non come un semplice sequel, ma come un vero e proprio "secondo tempo". Operazione che ricorda da vicino quella tarantiniana di Kill Bill, concepito proprio in due volumi.

Un parallelismo che non si esaurisce qui, se si pensa ad un altro interessante punto di contatto tra i due film: quello della trasversalità di generi, intessuti finemente nella trama. Infatti, L’instinct de mort attraversa magistralmente le atmosfere polverose e bruciate del war movie, per raccontare il trascorso militare del protagonista, fino a quelle ventose e sconfinate del road movie, per seguire la fuga americana dei due amanti/criminali, passando ovviamente per gli ambienti notturni e fumosi del noir e per il fatiscente e angusto stile carcerario. Il tutto, poi, amalgamato con il frenetico movimento e la spietata violenza dell’action e del gangster movie. A differenza delle pellicole di Tarantino, tuttavia, Richet non ostenta, né esaspera, questo gioco di codifica extra-diegetica, rinunciando ad effetti di tipo parodistico. Il suo gioco con le connotazioni semantiche di genere è più teso a profilare il trasformismo di un unico personaggio che, pur avviluppato nell’affascinante mantello della finzione, necessita tuttavia di conservare la sua aderenza ad eventi realmente accaduti. Il carattere biografico (altra indiscussa connotazione di genere) trapela allora indiscretamente tra le pieghe della narrazione, configurandosi come un collante sovrastrutturale e direzionando psicologicamente le vicende storico-sociali.  Insomma, questo inanellare diegetico di stili cinematografici appare come un brillante (oltre che efficace) espediente per restituire, in tutte le sue sfumature, la travagliata vicenda del protagonista, nonché per dispiegarne la complessa personalità. Una personalità decisamente camaleontica che, disegnata attraverso la retorica fotografica delle categorie filmiche, acquista creativamente la capacità di evolvere, sia da un punto di vista diacronico, adattandosi al corso della storia (i cui riferimenti sono ben scanditi dalle immagini televisive che contestualizzano ogni nuova impresa di Mesrine), sia da quello sincronico, facendo in sé convivere atteggiamenti variegati e spesso contraddittori (si veda solo la cangiante sensibilità verso le donne amate). 

Un altro interessante aspetto del film riguarda la configurazione puramente visiva di alcuni frammenti narrativi, soprattutto quelli legati all’esercizio della violenza, o meglio quelli che innescano nel protagonista l’istinto spietato dell’assassino, del rapinatore o dell’estorsore, pur se giustificabili, in qualche modo, con reazioni ad eventi specifici. L’immagine allora subisce deformazioni non per pura pulsione estetizzante, ma per fare da risonanza ai mutamenti interiori di un uomo che sembra usare la violenza perché si sente costretto. Gli inneschi dei suoi gesti si collocano, infatti, sempre al limite di una necessità, e si delineano comunque, pur ricorrendo a mezzi moralmente discutibili, quali opposizioni a soprusi o minacce. Valga come esempio, tra tutte, la scena in cui Jacques scopre che Sarah è stata ferocemente picchiata dal suo protettore turco. I loro volti si intravedono attraverso una panoramica circolare, intrisa di riflessi moltiplicati e filtrati da una serie di specchi. Quando l’inquadratura si stringe sui loro volti, per rivelare chiaramente la faccia sfigurata della donna, il viso di Cassel rimane leggermente fuori fuoco, per poi riapparire, dopo lo stacco, con un’espressione assai più risoluta. È il prodromo di una vendetta certa, inevitabile, annunciata dalla sequenza precedente con chiari "allarmi" visivi. Nella medesima prospettiva di disvelamento del personaggio principale è da sottolineare l’uso dello split screen. Nella scena iniziale, infatti, l’accostamento di inquadrature sfasate prospetticamente (sia per l’angolazione di ripresa, sia per la tipologia dell’inquadratura), nonché la leggera de-sincronizzazione di alcune immagini, rivelano l’intenzione di sondare oltre che la psicologia di Mesrine il ritmo e la cadenza della sua esistenza. Lo spettatore, allora, può cogliere lo scarto spaziale passando da un frammento all’altro, che è già un flusso ritmico, e poi quello temporale che sembra ribadire, attraverso l’incalzare dell’azione su se stessa, quel clima di tensione mista ad autocontrollo. Si tratta di un’immagine, quindi, che viene forzata nelle sue coordinate percettive per diversificarsi il più possibile, offrendo non solo parallelismi di contemporaneità (visualizzando personaggi lontani nello spazio), ma anche ri-focalizzazioni di se stessa, che esprimono tutto l’interesse del regista nel volersi soffermare sulle capacità di orientamento e movimento del sofisticato criminale per tentare di sfiorarne l’enigmatica eversione.

Chi era, dunque, Jacques Mesrine? Il suo ritratto di fuggitivo rigoroso sembra davvero ossessionare il regista, che alla fine lo codifica come una singolare nemesi, sia nell’accezione semantica più recente di nemico (il titolo della pellicola ne conferma persino l’antonomasia), sia nel senso di indignato vendicatore che ubbidisce a moti di ribellione antisociale, sia ancora quale elemento notturno, oscuro e imperscrutabile. Proprio quest’ultimo significato sembra trovare una traduzione filmica particolarmente degna di nota. Il personaggio interpretato da Cassel, infatti, è solito scivolare nei punti ciechi dell’immagine, sfuggendo letteralmente alla vista. Nonostante l’occhio della mdp tenti di potenziare la sua portata, cercando di indugiare sui volti per penetrarli, il risultato finale è l’inevitabile fuga percettiva del soggetto. Il direttore del carcere lo cerca tra la folla, vuole tenere tutti i prigionieri sotto controllo, ma i suoi sforzi si vanificano perché Mesrine valica i confini del campo visivo, si nasconde nei coni d’ombra, nelle zone invisibili. E scappa anche nella scena dell’esecuzione del lenone turco, dove i primi piani, stringendo sul corpo torturato, lasciano il suo volto ai margini. Insomma egli pare sfruttare i limiti e insieme i potenziali di quell’occhio che proprio perché imperfetto riesce a essere creativo (una creatività che è statuto d’esistenza per il cinema stesso). Questo meccanismo di sortita dall’immagine metaforizza fortemente la fuga dalla prigione, raggiungendo infatti il suo apice proprio nelle scene relative alla detenzione. Infatti, tanto le inquadrature dall’alto, durante il periodo di isolamento, quanto la sorveglianza dei secondini, che avviene dal soffitto delle celle, enfatizzano quell’atto coercitivo di correzione adottato dal carcere canadese. Una politica che però fallisce, e il regista ce lo mostra marcando simmetricamente l’evasione, che appunto si verifica in basso, con la camera che rade il suolo per riprendere l’apertura della breccia nella rete di recinzione. Questa scelta di inquadrature avversate accentua ancor più il carattere rivoltoso di Mesrine, che ne esce come un ribelle in senso stretto, non solo arroccato contro la legge ma avversario di ogni angheria istituzionale e di ogni arroganza umana.

Eppure il nostro protagonista non vuole esattamente celarsi dallo sguardo, egli vuole giocarci, facendosi trovare solo quando vuole ed estremizzando la sua stessa apparizione (un esibizionismo mediatico che non può non ricordare quello di Natural Born Killers di Oliver Stone).  La cattura dell’attenzione pubblica, infatti, si manifesta con un’esplosione improvvisa, in cui le foto di Jacques e Jean si ramificano e si affiancano, sullo schermo, ai loro stessi volti, grazie al doppio effetto di freeze frames e picture in picture, che simula le illustrazioni da quotidiano. I viraggi, inoltre, funzionano come una rievocazione dell’evento storico, ma anche – e sopratutto – come una trasformazione/trasfigurazione delle loro immagini in documenti altri, da riprodurre, diffondere e far consumare alla stampa, ai media ovvero al pubblico.

Ancora una volta il film passa la parola alla seconda parte, il cui titolo, non  caso, è Nemico pubblico n°1 - L'ora della fuga. Allora, non ci resta che attenderla, rimandando a una seconda riflessione quel pubblico che vorrà farsi anche lettore.

TITOLO ORIGINALE: L'ennemi public n°1; REGIA: Jean-François Richet; SCENEGGIATURA:  Abdel Raouf Dafri, Jean-François Richet; FOTOGRAFIA: Robert Gantz; MONTAGGIO: Bill Pankow, Hervé Schneid; MUSICA: Marco Beltrami, Marcus Trumpp; PRODUZIONE: Canada/Francia; ANNO: 2008; DURATA: 130 min.

 


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