Guerra all'Iraq PDF 
di Fulvio Montano   

Improvvisa e agognata con trepidante attesa, roboante e insieme silenziosamente subdola, violenta e al contempo accattivante, la tempesta mediatica che ha accompagnato l'invasione dell'Iraq si è infine abbattuta anche sulle nostre povere teste di alleati non belligeranti, di amici che concedono il sorvolo e di paraculo che appendono bandiere alle finestre ma non si lasciano intimorire dalle piazze. Decisa a sfiancarci con tutto il suo peso di retorica e propaganda da tempo pianificate, l'informazione nazionale si allinea quasi interamente con gli scaltri tappetai del Pentagono e gli spietati falchi dell'amministrazione repubblicana statunitense, fedele al verbo del nuovo millennio: enterteinment, semplicemente.

Come ogni storia che si rispetti la Guerra in Iraq ha il suo prologo lontano da Baghdad, negli scintillanti palazzi di Manhattan, il faro del mondo occidentale sulle rive dell'Hudson. È qui che un paio d'anni or sono, un manipolo di fondamentalisti che non beve Cocacola e prega col culo per aria e il capo alla Mecca ha sferrato il loro spettacolare attacco al cuore dell'Impero. Sconcertati, imperatori e imperati hanno gridato vendetta, lanciandosi in una crociata che non si vedeva dai tempi di Innocenzo III e gettato il mondo intero nel terrore e nella disperazione.
Bush (l'imperatore dal volto umano, ferreo e spietato 'texano' sempre allegro e sorridente) trova il suo antagonista in Bin Laden (arabo dal passato misterioso, sempre trasandato e caratterizzato da una lunga barba grigiastra), ma questi si dà alla macchia, rifugiandosi tra le palme di Tora, Bora, Tora! per poi scomparire del tutto.
La vendetta, però, è un piatto che va gustato freddo ed ecco che l'Imperatore scaglia la sua Fatwa (passatemi il termine) sul pacifico, ma un po' sanguinario, dittatore dell'Iraq, terra dalle torride giornate e dal glorioso passato. Arabo anch'egli ma laico, Saddam Hussein veste sempre militare, parla mangiandosi le parole e porta due buffi mustacchi alla Stalin, Togliatti & Co.
Ma qui la storia, a mio avviso, inizia a fare un po' acqua. Troppe le comparse (sommariamente caratterizzate da fucili e mimetiche che mal si stagliano sul deserto sabbioso) che improvvisamente si moltiplicano a migliaia, troppi gli attori non protagonisti (privi di una dialettica autonoma che si distacchi dal "O con noi o contro di noi" gridato ai quattro venti dall'Imperatore) ed eccessive le acrobazie cui gli autori sacrificano l'intreccio, sfiancando lo spettatore con una successione davvero esagerata di colpi di scena da cui risulta impossibile districarsi.

Premesso che la televisione è per sua natura incapace di rendere la magia del cinema (soprattutto per chi, come me, non possiede un ultrapiatto 16:9), il film è una cagata.
Se è per certi versi lodevole che la produzione abbia rigettato il cachet milionario richiesto da De Niro per la parte dell'Imperatore e di Accorsi per Saddam, inspiegabile rimane la scelta di affidare il ruolo del protagonista al regista stesso, un esordiente poco più che cinquantenne e quasi sempre in imbarazzo sia davanti che dietro la macchina da presa.
E che dire dei generali, bambole di cartapesta che non hanno nulla a che fare con il lugubre colonnello Kurtz di Apocalipse now? E dei soldati, asessuati e ben rasati travestiti alla Tom Cruise di Top Gun? Dove sono finiti i berretti verdi alla John Wayne, alla Rambo, alla Chuck Norris, che, soli, sterminavano un intero esercito?
Non ci credo! Non posso credere che Hollywood possa ridicolizzare così impunemente cinquant'anni di cinema imperialista!
Tornando al film, altra pataccata è la fotografia, che con grande abuso del digitale e di squallidi effetti alla Adobe Première, cerca di compensare l'esiguità delle battaglie campali, nel tentativo di riprodurne la drammaticità con poche inquadrature fisse da Real TV.
Capisco risparmiare sulle scene in campo lungo (alla fin fine quelle più costose), ma ridurre la guerra ad un esercizio formale stile Natural Born Killer, mi sembra davvero troppo!
Di dubbio gusto anche gli intermezzi rappresentati dai talk show televisivi e dai telegiornali, che, nel probabile intento del regista, avrebbero dovuto fare da contraltare alla drammaticità del campo di battaglia. Faziose mise en abîme dello spettacolo nello spettacolo, queste sequenze, soprattutto quelle con il giornalista pulcioso che gioca a Risiko insieme alle fotomodelle, non vanno oltre l'autocitazione: la propaganda della propaganda.
Insomma, se di operazione commerciale si tratta è un'operazione riuscita male che ha fortemente scosso il pubblico italiano e non solo. L'incasso globale del cinema è infatti calato del 13% rispetto al week-end precedente l'uscita del film e che già aveva subito un calo di oltre il 31%.
Rispetto a 15 giorni fa dunque l'incasso globale si è quasi dimezzato, passando da 9 milioni 434 mila 694 euro a 5 milioni 645 mila 202 euro.

Continuando a scherzare mi torna alla mente una vignetta apparsa sul Manifesto qualche tempo fa, poco dopo il crollo delle Twin Towers, che Vauro titolava Come in un film. Tra le rovine fumanti di Ground Zero, la morte in persona (con tanto di falce e cappuccio), tra una pausa e l'altra, si dà al bagarinaggio spicciolo: Patatine, panini, Cocacola!

 


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