Le Idi di marzo: la fredda parabola di Clooney sul potere PDF 
Piervittorio Vitori   

“Desiderare il potere è già in sé una forma di corruzione”, sostiene il Presidente USA interpretato da Lee Tracy in L’amaro sapore del potere (1964). “Non ci sono mr. Smith a Washington. Mr. Smith è stato comprato”, sembra fargli eco - riferendosi alla favola progressista di Frank Capra - il reporter arrabbiato di Giancarlo Esposito in Bob Roberts (1992). A quasi cinque decadi di distanza dal film di Schaffner e a due da quello di Robbins, l’incipit di Le Idi di marzo ci presenta un protagonista, il giovane e ambizioso esperto di comunicazione Stephen Meyers, che non ha appreso appieno la lezione: pragmatico e privo di scrupoli nell’uso dei mezzi, è ancora idealista nei confronti del fine (il candidato alla presidenza Mike Morris). Un caso più unico che raro, e non solo tra gli attori impegnati sul campo di battaglia delle primarie democratiche.

È stato detto - ed è vero - che la quarta prova dietro la macchina da presa di George Clooney non dice granché di nuovo sulle dinamiche della politica, e in particolare su quelle delle campagne elettorali a stelle e strisce. È però fuorviante fare di questa constatazione il fulcro dell’analisi della pellicola, adottando così un’ottica limitante dalla quale discenderebbe un giudizio quasi inevitabilmente negativo. Se assumiamo - e buona parte della critica l’aveva già fatto all’indomani di Good night, and Good Luck - che i modelli cardine del regista siano da ricercarsi principalmente nel cinema civile della New Hollywood, apparirà chiaro come da Clooney non si possa pretendere una particolare originalità quanto a struttura narrativa. Non sembra questo, in effetti, ciò che gli interessa, considerando come fin dal titolo vengano date allo spettatore precise indicazioni su quello che dovrà attendersi dallo sviluppo della vicenda.

La pièce teatrale Farragut North (nome di una stazione della metropolitana di Washington DC) era stata elaborata dallo scrittore Beau Willimon all’indomani della campagna elettorale del 2004, che lo aveva visto impegnato nello staff del contendente democratico Howard Dean e che gli aveva fornito i principali spunti per la vicenda. Il successo sui palcoscenici di New York e Los Angeles aveva portato all’interessamento di Clooney e del suo co-sceneggiatore Grant Heslov per una trasposizione cinematografica, a cui avrebbe collaborato lo stesso Willimon. Il progetto, inizialmente in cantiere per il 2008 e quindi rinviato perché ritenuto non in sintonia con l’atmosfera di entusiasmo suscitato dall’elezione di Barack Obama, viene riesumato e concretizzato tre anni dopo, in un clima certamente segnato da una forte disillusione.

Il cambiamento più significativo in sede di adattamento è la presenza fisica nel film di Morris, che a teatro veniva solo citato dagli altri personaggi. Questo suggerisce, tra l’altro, un raffronto tra la figura del governatore di Le Idi di marzo e quella del senatore McCarthy così com’era stata proposta in Good night, and Good Luck. Entrambi assolvono principalmente la funzione di oggetto dell’azione del protagonista (in quel caso l’antagonismo di Murrow, in questo l’iniziale complicità e il successivo antagonismo di Stephen), ma è interessante soprattutto il fatto che siano al centro di operazioni di elaborazione figurativa di segno opposto. Qui Morris, con un escamotage utile per agganciare il pubblico alla storia e rendere più credibile la fascinazione esercitata sul protagonista, guadagna il corpo e il volto di Clooney, chiaramente sempre più a suo agio nei panni di colui che “metà dei liberal che conosco vorrebbero […] come Presidente dei loro Stati Uniti ideali” (1); nel film del 2005, invece, a McCarthy veniva negata la fisicità data dall’interpretazione attoriale, con la conseguente rinuncia a un surplus di drammaticità. La scelta adottata in Good night, and Good Luck andava dunque nella direzione di una consapevole limitazione della temperatura emotiva della narrazione; un obiettivo perseguito in realtà anche nella pellicola qui in oggetto, sebbene con altri mezzi. Con la sua epifania, infatti, Morris si fa sì figura, ma rimanendo al contempo più prossimo allo statuto di simbolo che a quello di personaggio a tutto tondo. Ne è una dimostrazione la radicalità delle istanze politiche che sbandiera: l’assoluta liberalità quanto a scelte religiose, le posizioni pressoché estremiste in materia di ecologia, l’apertura alle unioni omosessuali… Nell’attuale panorama politico statunitense, un candidato così caratterizzato risulterebbe, in buona misura, letteralmente incredibile.

Ecco allora che Morris si configura in primo luogo, come detto, quale cavallo di Troia per far avanzare e muovere all’interno della vicenda gli altri personaggi. Al parallelismo con la filmografia di Clooney e la sua seconda opera da regista se ne può a questo punto aggiungere un altro, volgendo lo sguardo al cinema americano del passato. La figura che viene in mente non è tanto quella di Robert Redford ne Il candidato (Michael Ritchie, 1970) - associazione eventualmente favorita dal corrispondente rimando tra Good night, and Good Luck e Tutti gli uomini del presidente - quanto quella di Henry Fonda nel citato L’amaro sapore del potere e, ancor di più, nel precedente Tempesta su Washington (Otto Preminger, 1962). In entrambi i casi l’attore interpreta un politico che, alla vigilia di una potenziale nomina di primissimo piano (candidato democratico alla presidenza nel film di Schaffner, segretario di stato in quello di Preminger), si trova costretto a difendersi da accuse che risalgono a un passato imbarazzante. Ma se ne L’amaro sapore del potere Fonda è indiscutibilmente il protagonista, in Tempesta su Washington assolve a un ruolo analogo a quello di Morris in Le Idi di marzo, con la scelta che lo coinvolge a fungere da innesco drammatico per l’azione di chi gli sta intorno. Caratterizzato da una spiccata coralità - tanto che è difficile indicarvi con certezza un personaggio che nell’economia della vicenda si stagli nettamente sugli altri -, il film di Preminger lascia sul campo una messe di sconfitti, senza che sia possibile individuare un vincitore. A salvarsi, al limite, è la dignità (ma non la posizione pubblica) di Leffingwell/Fonda, che trova una forma di eroismo dichiarando l’intenzione (ignorata dal Presidente) di rinunciare a una carica che reputa incompatibile con il disonore delle sue azioni (2). Tutto il contrario di quanto accade in Le Idi di marzo. Qui, almeno per quanto attiene al livello discorsivo e agli obiettivi esterni, vi sono due vincitori: Morris, che ottiene la nomination democratica alle presidenziali e, conseguentemente, Stephen. Allo stesso tempo, viene a cadere ogni forma di dignità o di eroismo, tanto che il film è curiosamente privo di una figura nella quale lo spettatore possa identificarsi.

Non si può a questo punto non spendere qualche parola sul cast, oggetto di elogi pressoché unanimi. Detto della scelta quasi ovvia di Clooney (che ancora una volta dimostra di prediligere ruoli secondari nei film che dirige) e delle buonissime performance di Marisa Tomei e Evan Rachel Wood, l’elemento interessante è dato dal confronto tra Ryan Gosling (Stephen) da un lato e la coppia Philip Seymour Hoffman (Paul Zara) e Paul Giamatti (Tom Duffy) dall’altro. Questi ultimi, nei panni dei campaign manager dei candidati in corsa, mettono in scena due caratteri sostanzialmente analoghi: navigati, abili nell’arte della manipolazione, scafati e cinici quanto basta. Figure distanti da buona parte dei personaggi più importanti interpretati in passato dai due attori, e nei quali giocavano un ruolo importante il senso d’inadeguatezza, il patetismo, l’ambizione (piccola o grande che fosse) frustrata (3). Questi elementi sono qui assenti, con i due attori impegnati a vestire i panni di due uomini che, se non realizzati, sono certamente adeguati al loro compito. Viceversa, lo Stephen Meyers di Ryan Gosling è un personaggio in fieri, non compiuto: un aspetto, questo, che pare riflesso anche in un’interpretazione più controllata rispetto a quella dei colleghi più esperti e gigioni. Se la maturità espressiva del 31enne canadese presenta ancora chiari margini di ampliamento, nondimeno la sua poker face risulta azzeccata per il protagonista del film, ritornando alla citata freddezza perseguita da Clooney nel rapporto tra materia narrata e pubblico.

Così, anche la critica relativa ad un basso livello di coinvolgimento dello spettatore risulta un errore di mira. Nonostante presenti una struttura da thriller (almeno dalla scoperta del segreto di Morris in poi) e degli espliciti rimandi alla tragedia (il titolo e l’allegoria del potere politico come gioco di tradimenti e trame nell’ombra), Le Idi di marzo non è - né vuole essere - fino in fondo né l’uno né l’altra. Del primo gli manca il mordente, del secondo la statura, di entrambi la figura dell’eroe. Se qualcuno incrociasse il Laffingwell di Tempesta su Washington e gli ricordasse quanto fosse stato grande nella sua dignità, l’impressione è che, avendo come parametro il film di Clooney e parafrasando la Gloria Swanson di Viale del tramonto, il personaggio di Fonda potrebbe a buon diritto rispondere che è la politica ad essere diventata piccola.

Il registro a “bassa intensità” privilegiato dal regista emerge naturalmente anche dalla definizione dello stile, qui meno ricercato che in passato. Via la complessità esibita nel tono grottesco di Confessioni di una mente pericolosa, via il lavoro su penombre e spazialità che aveva caratterizzato Good night, and Good Luck (lasciando fuori dal discorso il “minore” e poco attinente In amore niente regole). Qui la linea, molto semplice, viene dettata dalla fotografia di Phedon Papamichael, che ingrigisce e raffredda una Cincinnati irrealmente vuota, e viene assecondata dallo score di Alexandre Desplat. Poche le singole immagini che rimangono impresse nella memoria, tra cui quella delle sagome scure di Stephen e Paul davanti allo sfondo della bandiera americana. La propensione di Clooney a lavorare per sottrazione viene dimostrata anche dal sapiente uso delle ellissi: prove ne siano la scena in cui Zara viene scaricato da Morris (con il dialogo all’interno del Suv che lo spettatore, dall’esterno della vettura, non può vedere né ascoltare) e soprattutto quella in cui Stephen trova il cadavere di Molly, quando il volto della ragazza - in un’inquadratura proposta chiaramente come una soggettiva dal punto di vista di lui - non ci viene mostrato. In quest’ultimo caso, la rimozione operata (non ci è dato di sapere quanto coscientemente) dal protagonista pare il prezzo da pagare all’illusione che nulla sia cambiato o, ma è solo l’altra faccia della stessa medaglia, il segno della condanna per cui nulla può realmente cambiare. “Non me ne vado via”, dice la ragazza nell’ultimo messaggio che lascia nella segreteria del cellulare di Stephen, presumibilmente appena prima di morire. Ed ecco, subito dopo il funerale, ritornare (un’altra) Molly, anche se stavolta si chiama Jill e ha i capelli rossi (4).

Per chiudere il cerchio - espressione quanto mai appropriata -, la scena conclusiva riprende quella d’apertura, con Stephen che esce dall’ombra e si avvia al microfono. E se nelle prove registiche menzionate in precedenza la corrispondenza visiva tra inizio e fine, che pure c’era, atteneva al livello dell’intreccio (in entrambi i casi la vicenda era narrata in flashback, per cui verso la conclusione della narrazione veniva riproposta la scena dell’incipit), qui questa dinamica rivela il senso della fabula. Il ripresentarsi, ai due capi del film, della stessa immagine; l’incredibilità della figura di Morris e, più in generale, la scarsa possibilità di adesione ai personaggi; la cifra controllata della regia; il fatto che la sceneggiatura citi appena i Repubblicani e mai il Tea Party… Sono tutti fattori che hanno l’effetto di sganciare la vicenda da un contesto e da un genere troppo preciso, suggerendo una dimensione più astratta e universale. Il racconto diventa così una parabola in cui un’ineluttabile circolarità nega quell’idea di progresso nella quale inizialmente, attraverso Morris, il protagonista credeva. È vero, il suo personale status si è innalzato (e comunque al prezzo di una vita e di una dolorosa presa di coscienza) e lui ha sostituito Paul come campaign manager di Morris; ma proprio la fine del suo ex mentore adombra il suo possibile destino, mentre alle sue spalle un nuovo Stephen (il Ben di Max Minghella) sembra già pronto ad adoperarsi per detronizzarlo.

Note:
(1) Richard Corliss, The Ides of March: Ladies and Gentlemen, President George Clooney (entertainment.time.com/2011/10/06/the-ides-of-march-ladies-and-gentlemen-president-george-clooney, 06/10/2011)
(2) La rinuncia operata dal personaggio di Henry Fonda è peraltro un ulteriore punto di contatto tra Tempesta su Washington e L’amaro sapore del potere.
(3) Si considerino, per Hoffman, almeno Boogie Nights, La 25° ora e Truman Capote - A sangue freddo; per Giamatti, almeno Sideways e La versione di Barney.
(4) Da notare che si tratta dello stesso dettaglio mentendo sul quale Molly aveva inizialmente sbugiardato Stephen, quando questi aveva finto di ricordarsi della prima volta in cui avevano lavorato insieme.

 


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