Un colpo da dilettanti PDF 
Fabio Fulfaro   

ImageIl debutto di Wes Anderson prende origine da un suo cortometraggio del 1994 dal titolo Bottle Rocket (con protagonisti i fratelli Wilson) e poi rielaborato ed ampliato dal laboratorio del Sundance Film Festival. La storia non è molto originale: Anthony/Luke Wilson esce da un ospedale psichiatrico e viene coinvolto dal fratello Dignan/Owen Wilson nella preparazione di una rapina; ai due si aggiunge Bob, unico capace di guidare la macchina. L’esito sarà abbastanza prevedibile. Eppure già in questo primo lungometraggio possiamo distinguere alcune delle caratteristiche fondamentali del cinema di Anderson: l’insicurezza caratteriale dei personaggi principali, che portano sulla pelle i segni delle botte ricevute dalla vita (cerotti e lividi), la fotografia che esalta certi colori (il giallo della tuta da parà, il blu della piscina), il ritorno quasi scaramantico del numero 3 (3 protagonisti, 3 piscine, 3 rapine, 3 cerotti), il ricorso a una vecchia volpe del cinema come James Caan (saranno Bill Murray e Gene Hackman nei film successivi), le riprese sott’acqua modello Atalante di Vigo, il dibattersi pietoso di queste figurine da striscia fumettistica americana (modello Peanuts), la colonna sonora anni Settanta che spazia dai Love ai Rolling Stones passando arditamente per Zorro Backs di Guido e Maurizio de Angelis, il finale al rallentatore che crea un momento magico di sospensione. La sceneggiatura, scritta da Anderson con il fido Owen Wilson, pur proponendo situazioni che sembrano richiamare opere del passato (I soliti ignoti di Monicelli, Qualcuno volò sul nido del cuculo di Forman e The Dream Team di Zieff), sceglie il taglio surreale minimalista, con dialoghi che tendono ad enfatizzare la totale alienazione dei personaggi dalla società circostante. La consistenza delle personalità dei personaggi sembra richiamare quella della Graffiti Art, con quelle figure stilizzate, ben rappresentate dall’omino (disegnato da Anthony) che si esercita al salto con l’asta, animato dallo scorrere veloce dei fogli di carta (il principio fondamentale del movimento cinematografico).

ImageI tre improvvisati rapinatori sembrano gli one dimensional men di Keith Haring, buffi, riproducibili in serie, colorati, vivaci, profondamente simpatici nella loro inoffensiva semplicità. La macchina da presa di Anderson li segue velocemente nelle scene di rapina del film: nella prima prova di furto (fatta nella propria abitazione!) sorprendiamo Anthony a guardare con tristezza i suoi soldatini messi in fila e a sistemare quello fuori posto come in un autoriconoscimento della propria emarginazione dovuta alla malattia mentale. Ma il vero malato mentale è il fratello apparentemente sano, Dignan, che mette su carta, al posto degli omini stilizzati del fratello, un incredibile piano settantacinquennale che si sviluppa tra eventi criminosi distribuiti su lunghissimo termine. La sua apparizione in tuta gialla è la dimostrazione evidente della sua compassionevole eccentricità: nella seconda rapina in libreria arriverà quasi a scusarsi per avere dato dell’idiota al direttore dell’emporio (lo chiamerà rispettosamente “signore”). In più tra una rapina e l’altra lo vediamo ingenuamente trastullarsi con giochi d’artificio ("bottle rocket" del titolo originale dl film), quasi a sottolineare una volontaria regressione in un mondo di artificiosità infantile dove ancora le deviazioni dalla norma sono tollerate. Il film più che suscitare franche risate induce alla compassione ironica: ne è un esempio la storia d’amore interazziale tra Anthony e la cameriera paraguayana Ines, che vive di fraintendimenti linguistici e traduttori improvvisati che partecipano empaticamente alla discussione romantica (un po’ come fa il regista con i suoi bizzarri personaggi). Il destino di personaggi così fuori dagli schemi è di essere istituzionalizzati: chi in prigione dopo essere stato “giardiniere del cielo”, chi in manicomio perché non ne può più di venire sempre incontro alle esigenze degli altri (Anthony accetta di partecipare alle rapine più per non deludere il fratello che per convinzione personale). Qualcun altro viene massacrato di botte dal fratello ben integrato nel sistema. Si finisce insomma per ripulire la piscina (basta una misera foglia a scatenare il putiferio) o a coltivare delle piantagioni illegali di marijuana proprio perché non si riesce a trovare il proprio posto nel mondo. Da ricordare il cameo di James Caan, padre putativo di questi derelitti ed emarginati, vestito da geisha, l’unico a comprendere veramente le problematiche esistenziali di Dignan (“Credeva di avere una banda…invece era solo….il mondo ha bisogno di sognatori”) e l’unico a completare un atto di giustizia privata contro la presunzione e la prepotenza.

ImageSe volessimo giudicare questa prima opera di Wes Anderson potremmo certo inquadrarla in un debutto più che dignitoso, in cui si notano sotto forma di embrione, le tendenze del futuro autore, i suoi percorsi tematici e i suoi ritornelli visivi. Certo siamo ancora lontani dalla perfezione formale e dagli schioppettanti fuochi di artificio di Rushmore e di The Royal Tenenbaums, indiscutibilmente le due opere migliori del trentanovenne regista texano, in cui capacità visionaria e genialità degli sviluppi narrativi trovano un perfetto equilibrio. Se volessimo riassumere tutto il senso di questo film in una sola frase non potremmo che affidarci a quella che Anthony esclama con rimpianto alla sorellina Grace, dopo averle rivelato il suo soggiorno in una residenza psichiatrica per esaurimento nervoso : “Non posso tornare a casa, sono un adulto….”.


TITOLO ORIGINALE: Bottle Rocket; REGIA: Wes Anderson; SCENEGGIATURA: Wes Anderson, Owen Wilson; FOTOGRAFIA: Robert D. Yeoman; MONTAGGIO: David Moritz; MUSICA: Mark Mothersbaugh; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1996; DURATA: 95 min.

 

*Un ringraziamento a Valentina Balsamo per avere recuperato la versione originale del film. Senza il suo prezioso aiuto questa recensione non sarebbe stata possibile.
 

 


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