I Re e la Regina: i Vivi e i Morti PDF 
Fabio Fulfaro   

Ora che la mia scala è stata tolta mi riposo in quel posto dove tutte le scale dello spirito hanno origine.
W.B.Yeats

Presentato al Festival del Cinema di Venezia nel 2004 e poi distribuito in Italia solo 18 mesi dopo, I Re e la Regina rappresenta l’opera che svela Arnaud Desplechin ad un pubblico più vasto rispetto alla ristretta cerchia dei cinefili.

La Regina è identificabile in Emmanuelle Devos, ovvero Nora, direttrice di una galleria d’arte a Parigi, apparentemente serena e risoluta, in realtà molto inquieta e con sensi di colpa mai rimossi, pronti ad esplodere nel momento dell’irruzione del dramma nella sua vita. I Re sono invece gli uomini della sua vita: la figura del padre Lois, professore ordinario di Letteratura a Grenoble, ingombrante ma insostituibile; il primo marito Pierre, morto in circostanze misteriose prima che la allora ventenne Nora desse alla luce il di lui figlio Elias; l’ex marito suonatore di viola Ismael, (interpretato da Mathieu Amalric, attore versatile che vinse il premio Cesar per la sua performance) che, dopo la separazione da Nora, entra ed esce dagli ospedali psichiatrici con notevole disinvoltura; il figlio Elias, allevato dal nonno Lois; e infine il compagno attuale Jean Jacques, ricco e protettivo, ma con una affettività e affinità elettiva ridotta ai minimi termini. In un modo o nell’altro, spesso in negativo, Nora determina i destini di tutti i Re che vengono ad incrociare il suo cammino, e il suo impatto psicologico è devastante.

Desplechin ha dichiarato che Nora rappresenta una via di mezzo tra la Marnie di Hitchcock, la Gena Rowlands di Un'altra donna di Woody Allen e la Sharon Stone di Casinò di Martin Scorsese. Forse anche la Kim Novak di Vertigo e la Ingrid Bergman di Notorius (film citato direttamente). Già dalla ridondanza di queste citazioni ci areniamo nel primo problema concettuale del film: i critici hanno cercato nella Nouvelle Vague i padri e padrini di Desplechin, hanno parlato di influenze godardiane in certi short cuts e bruschi passaggi narrativi, di evidenti ascendenti truffautiani, soprattutto nella fine analisi psicologiche di certe contraddizioni della personalità. Lo stesso regista ammette un’ammirazione sconfinata per Resnais e Rohmer. In realtà, pur accettando queste influenze abbastanza evidenti, il film si incanala in un percorso diverso, con dilatazioni narrative pulp impertinenti (la rapina al supermercato sembra un inserto tarantiniano), piccoli omaggi al cinema classico americano (Howard Hawks su tutti), scivolate nella retorica dei sentimenti (con la porticina aperta sull’eutanasia modello Million Dollar Baby a rischio di pericolosi fraintendimenti bioetici), inserti onirici un po’ autocompiaciuti (l’apparizione del fantasma di Pierre con in sottofondo una musica strappalacrime ci lascia alquanto perplessi) e voci interiori di netta ascendenza bergmaniana (si pensi alla scena della lettura delle pagine del manoscritto del padre di Nora), alternati a tentativi impacciati di prendere le distanze da tutto questo minestrone di richiami e citazioni. Anche i personaggi minori riflettono questa alternanza: riusciti quello di Arielle e dell’avvocato eroinomane, sinceramente deludenti quelli della sorella di Ismael (pittrice non pittrice), del compagno di viola Cristiano (geloso della genialità di Ismael) e della pur sempre brava Catherine Denevue, stavolta relegata al ruolo di psichiatra alquanto evanescente.

A causa dell’intersecarsi di queste correnti mainstream e sidestream, l’economia del racconto  risulta sdoppiata e sbilanciata: prende sempre più importanza (anche per la notevole prova dell’attore, sempre in bilico tra Charlot e Drugo Lebowski, ma con forti richiami al Jack Nicholson di Qualcuno volò sul nido del cuculo di Milos Forman) la figura di Ismael, che diventa ad un certo punto la vera Regina del film. Non è un caso se i momenti migliori lo vedono sempre protagonista: l’arrivo degli infermieri dell’ospedale psichiatrico a casa sua (momento davvero esilarante, come i suoi differenti progetti di suicidio), la regressione infantile rappresentata da una perfetta dance al ritmo di rap durante una seduta di gruppo, gli incontri con la psicoanalista Devereux (omonima del grande George, padre della etnopsicoanalisi) e il racconto del sogno stimolato dalla poesia di Yeats, il bellissimo epilogo con il piccolo Elias al museo, dove viene spiegata in maniera magistrale l’inutilità di un padre surrogato. In effetti basterebbero questi momenti per giustificare la visione di I Re e la Regina, ed è un peccato che Desplechin, invece di salire la scalinata del capolavoro, si fermi al primo gradino per ammirarsi allo specchio. In certi momenti sembra proprio di vedere Magnolia di Paul Thomas Anderson: figli naturali e figli adottivi, irrimediabili conflitti edipici, il cancro nella fase terminale, il problema degli oppioidi per lenire le sofferenze, l’eutanasia in bilico tra atto di coraggio e fuga dal problema, il problema del riconoscimento del figlio se uno dei due genitori è deceduto (la crudeltà della burocrazia), frigidità e incesto, la sindrome di Peter Pan, la schizofrenia e gli impulsi autolesionisti, nuovi tumori che si trasmettono di padre in figlia come una maledizione, la tossicodipendenza (da droghe e psicofarmaci, elencati con precisione accademica), la claustrofobia delle istituzioni ospedaliere, l’anoressia nervosa e la bulimia sessuale, omissioni di soccorso e sensi di colpa ingravescenti.

Labile sembra il confine tra normalità e follia, come nel Dark Knight di Nolan: la follia è come la forza di gravità, basta una spintarella e si cade giù a piombo. Ma Ismael ha la lucidità di capire che l'unica via di salvezza è scappare via dalla prigionia dell'ospedale per tuffarsi nella realtà del mondo e raccontare le sue esperienze alla persona che ama. Con il corollario che non si può comunque fuggire dal proprio passato e che alla fine davanti allo specchio avviene il regolamento di conti con se stessi. Insomma, materiale per una ventina di storie che centocinquanta minuti di film hanno la supponenza di volere contenere. Un errore di valutazione narcisistico che stempera gli entusiasmi per un autore comunque interessante, capace di intrecciare mitologia greca e tragedia shakespeariana, Apollinaire e Yeats, Moon River (apre e chiude il film) e Rap, analisi psicologica e autoironia grottesca, Leda e il cigno e pittura sacra. A proposito del mito di Leda e il cigno, sono state fatte molte ipotesi sul perché Nora regali al padre proprio quella litografia: tenuto conto che il cigno è in realtà Zeus in trasformazione zoofila e che il rapporto tra i due simboleggia l’integrazione tra percezione visiva e intuizione psichica, non è difficile pensare che dietro il legame di tipo affettivo si celi qualcosa di più nascosto, sensuale, al limite dell’incestuoso. Infatti, Nora è alla ricerca di una figura affettiva maschile che è un po’ il surrogato di quella paterna: la sua inquietudine, ereditata dagli insegnamenti genitoriali che le hanno sempre vietato di mostrare i sentimenti, è la causa della morte di Pierre e della follia di Ismael. La stessa scelta di un compagno ricco e protettivo, senza alcun coinvolgimento sessuale, sembra un ritorno all’affetto della sua infanzia, quello di lei bambina per il padre. Sbaglia chi vede in Nora solo una figura anaffettiva, arida, frigida e glaciale. Più volte, durante il film, Desplechin ce la mostra in grande travaglio emotivo, come quando è al telefono con la sorella per comunicare la malattia del padre (notate la differenza di suono e luci tra i due momenti), oppure quando mostra le sue paure sul futuro del figlio, quando scende in strada dopo il suicidio del primo marito e la voce le si spezza in gola, o quando straccia le pagine terribili del diario del padre. Ecco, proprio in queste pagine, nelle parole di un vecchio morente che è disperatamente attaccato alla vita, traspare la vera natura del sentimento verso la figlia: questa lettera d’odio è invece il rimpianto per un amore mai consumato. E anche quello strisciare di Nora furtiva la notte verso il marito addormentato sul divano sussurrandogli parole diaboliche e velenose è una trasposizione onirica della scena incestuosa primaria, che nella realtà non si è mai consumata, ma solo desiderata. Il successivo senso di colpa è la causa della distruzione di ogni personaggio maschile che incroci la strada di Nora, è l’impossibilità ad avere una relazione sentimentale matura e duratura. E così il suo personaggio sembra dare ragione ai deliri misogini di Ismael, che, scottato dalle precedenti esperienze, arriva ad azzardare che “le donne non hanno anima, vivono in bolle di tempo, gli uomini invece camminano su una retta…”. Ma Ismael, nella sua vocazione sadomasochistica, è attratto proprio da quelle donne che lo fanno soffrire, compiaciuto di vedere sanguinare la sua anima, e quando incontrerà la sensibile Arielle (godardianamente definita “la cinese”) avrà quasi paura di poter essere felice. La follia di Ismael non è lontana da quella di Nora, ma mentre il primo sceglie lo scontro diretto con il sistema (sentite l’esilarante messaggio in segreteria telefonica) evitando soluzioni di comodo, Nora sceglie di incistare la propria evidente anormalità psichica e personalità borderline occultando, mistificando, manomettendo la realtà a proprio uso e consumo, vampirizzando amanti e familiari. Nora diventa l’ape regina che divora il fuco dopo averlo sfruttato a fini procreativi, diventa una sorta di attrice che recita sempre una stessa parte ma che ha una terribile paura di perdere e di perdersi. Ritorna spesso il tema delle mani come tentativo di contatto con una realtà impossibile da definire: la mano di Jean Jacques sul treno in corsa, la mano di Nora sul libro del padre, le mani intrecciate di padre e figlia, di Arielle e Ismael mentre imparano le loro lezioni di amore, di Ismael e Nora che camminano insieme nel prato dell’ospedale psichiatrico, la mano di Elias che si allunga in una carezza furtiva alla madre. Sono mani che cercano di rallentare, quasi disperatamente, il flusso incessante del tempo e trattenere per un solo istante un’immagine quanto più possibile veritiera della persona che si ama.

Nonostante le rassicurazioni di Desplechin sulla totale invenzione dei fatti narrati, dietro il personaggio di Nora si cela una figura tremendamente reale, ovvero Marianne Denicourt (attrice francese musa del regista nei primi anni Novanta, protagonista delle prime opere di Desplechin), con ex amore morto suicida e padre malato di cancro. La storia è naturalmente finita in tribunale, tra accuse reciproche e pubblicazioni di lettere private. Il tribunale, alla fine, ha dato ragione al regista, stabilendo un netto confine tra cinema e vita, tra finzione cinematografica e realtà. Ma, come diceva Godard, il cinema è in fondo la resurrezione del reale ed è davvero difficile separare la sensibilità artistica dell’autore dagli avvenimenti che influenzano la sua vita privata: probabilmente Desplechin è partito dalla sua vita sentimentale e ha fagocitato e trasfigurato gli eventi per tirarne fuori materiale per sceneggiatura. E, come dice Le Monde, Desplechin “fa parte di una generazione di autori come Rochant e Carax  i quali, ognuno a suo modo, raccontano una storia e al tempo stesso si interrogano sul mondo in cui vivono”.

Ritornando al film, vi è un diverso tentativo di inquadrare i mille rivoli narrativi che compongono l’albero delle storie de I Re e la Regina. Il titolo del primo documentario di Desplechin, Le vite dei morti, offre lo spunto per un’altra analisi interpretativa, quella del labile confine  tra i vivi e morti, o meglio tra i morti viventi e i vivi morenti. La Regina che all’inizio vediamo al tavolo di lavoro a dettare ordini cova all’interno una malattia mortale che silenziosamente cresce anno dopo anno nel suo corpo per fare la sua comparsa alla fine, dopo la scena del grottesco ballo familiare, in una macchia rossa sulla sua pancia. Il dolore per tanto tempo trattenuto, soffocato, viene portato a livello di coscienza proprio dalla lettera di odio e amore del padre, che le rimprovera l’egoismo, la risata secca, la mancanza di empatia. La cognizione del dolore diviene malattia organica, devastante, senza scampo, come una scadenza rimandata per troppo tempo e adesso alle porte. Vivere male prima o poi ti fa male. Il padre dall’altra parte accetta la sua condizione di vivo che non vuole morire con una lucidità estrema, fino a proiettare la sua ombra in quella lettera testamento che è più di una condanna. Con questa nuova interpretazione l’eutanasia praticata dalla figlia non diventa un atto d’amore, ma un ennesimo assassinio che si somma all’omicidio del primo marito e all’annientamento psichico di Ismael. Vi è poi il morto che ritorna dal passato, e che intavola con Nora una discussione sulle possibilità troncate, su un amore che comunque ha la sua data di scadenza, lentamente ucciso da microdosi giornaliere di veleno. E ancora ci sono i vivi che devono provare ad essere come morti, mimare il suicidio per rafforzare la propria essenza, come Ismael che passa dalla corda per impiccarsi ai gas di scarico della macchina, come Arielle, che per sentirsi ancora viva deve tagliarsi periodicamente le vene. Sembra che poter vedere la propria vita dal punto di vista della morte sia l’unico modo per dare un senso e darsi un senso. E così il discorso finale di Ismael al piccolo Elias assume un’ulteriore valenza catartica: non c’è bisogno di false figure genitoriali, di figure feticcio, molte volte è meglio l’assenza completa  piuttosto della tristezza di una realtà fatta di fantocci e compromessi. Quindi attenzione quando ci voltiamo indietro, potremmo essere attirati dal buco nero del passato. E il futuro, il vero futuro, non si trova alle nostre spalle.

E l’anima gli svanì lenta mentre udiva cadere la neve stancamente su tutto l’universo, stancamente cadere come scendesse la loro ultima ora, su tutti, i vivi e i morti.
James Joyce

TITOLO ORIGINALE: Rois et reine; REGIA: Arnaud Desplechin; SCENEGGIATURA: Arnaud Desplechin, Roger Bohbot; FOTOGRAFIA: Eric Gautier; MONTAGGIO: Laurence Briaud; MUSICA: Grégoire Hetzel; PRODUZIONE: Belgio/Francia; ANNO: 2004; DURATA: 150 min.

 


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